Poesia come «possibilità di reggenza alle parole». Poesia come strumento di risonanza con l’invisibile. Poesia come sguardo nuovo sul noto. Poesia come raccoglimento. Poesia come interrogativo. Poesia come veicolo di significati. Poesia senza vincoli di appartenenza. Poesia come indice di conoscenza. Poesia come segno di (ironica) saggezza («Letteralmente// Non serve fare testo.// Sottolineo// Occorre farsi labirinto»). Poesia, sovviene Simic, come la sola, in tutta la storia dell’umanità, capace di dare ascolto alla solitudine umana. Poesia come destinazione. «Alfabeti vicini/ di linguaggi lontani/ rami di un diapason/ vibrano all’unisono/ lungo un viaggio sferico/ tracciando un meridiano». Versi di Marco Luppi per introdurvi alla lettura del libro “Proiezioni”, Eretica edizioni. Un libro, come scrive Anna Vallerugo nella nota introduttiva, “di rare architetture e concentrazione di senso”, che ci ha offerto diversi spunti per un’intervista.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Qualcosa scritto in fretta su un ritaglio di giornale in una delle tante mattine in cui disertavo la scuola.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi versi non dovremmo mai dimenticare?
Dovremmo ricordarli tutti per poi dimenticarli. Per quanto riguarda la figura del poeta, penso a “Una riflessione sul ruolo del poeta” di Andrea Zanzotto: “Il poeta è sempre una figura marginale”. Secondo Flannery O’Connor, “Nel territorio del diavolo (sul mistero di scrivere)”, “Un’opera d’arte esiste indipendentemente dal suo autore, tanto più è compiuta l’opera, tanto meno importante è chi l’ha scritta e perché”. Ancora: “Accendere una lampada e sparire/ questo fanno i poeti” (Emily Dickinson). Paul Verlaine sul conto di Arthur Rimbaud: “Ma il poeta svaniva”. “In una buona poesia, il poeta che l’ha scritta scompare” (Charles Simic), fino ad arrivare a “L’invenzione della poesia” di Borges: “Spesso mi accorgo di non fare altro che citare qualcosa che ho letto tempo addietro. Il che equivale a una riscoperta. Forse sarebbe meglio che i poeti non avessero nome. […] Arriverà un tempo in cui agli uomini interesserà la bellezza in se stessa. Forse per costoro non saranno importanti neppure i nomi e le biografie dei poeti”. Da Borges a Alfonso Gatto: “nello spazio/ il nome nel raggiungermi mi chiude”, per concludere con Lars Gustafsson: “il suo nome non ha più alcun significato”. Poco cambia anche per quanto riguarda i versi. Non posso non citare Pierluigi Cappello: “Scrivere come sai dimenticare,/ scrivere e dimenticare./ Tenere un mondo intero sul palmo/ e dopo soffiare”, dove lo scrivere potrebbe essere sostituito con il leggere.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Tutti si sono spesi in prodigiose concioni nel vanitoso tentativo di dare una definizione a una cosa che in sé non ne ha. Perché cercare di imbrigliare la poesia in una definizione, quando nel migliore dei casi la si riesce a vedere solo da lontano? Risposta: perché ci spaventa. Ogni cosa che fugge a una nostra definizione ci fa paura e definirla significa in qualche modo addomesticarla, renderla docile, quasi innocua, quasi rassicurante. Lungi da me tale cattività. Certo, questo è il mio opinabilissimo punto di vista; vale sempre per come uno la vive.
Al massimo e per farla breve, al posto di azzardare una definizione (cosa che per altro ho già in parte fatto) preferisco una constatazione: credo sia il più vano dei tentativi per sentirsi meno soli.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Mai: “Una poesia non è mai finita” (Paul Valéry). Valerio Magrelli afferma che «forse un poeta è veramente tale solo se sa quando arrestarsi, quando cessare l’opera della lima, quando sospendere la proliferazione di varianti; insomma, quando riesce a dire “basta”». Per me dire “basta” è impossibile. Si tratta sempre di un compromesso tra metrica, suono, intenzione e significato. In definitiva la penso come Boris Rizhy: “mancava sempre un verso o una rima/ per essere felice”.
La poesia, necessita più di ascoltare o di essere ascoltata?
La poesia deve ascoltare. Senza ombra di dubbio. Molti affermano il contrario ma è bene ricordare che “se un uomo prova un ardente desiderio di attenzione per le sue poesie, sarà come un somaro al chiaro di luna”(Mark Strand).
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Tutto e niente, e tra il tutto e il niente prediligo il secondo. Il primo sarebbe troppo presuntuoso.
La parola poetica per preservare la propria efficacia comunicativa deve “esprimersi” usando il linguaggio del tempo in cui nasce e vive?
Non amo la poesia del “quotidiano”. Preferisco evitare le connotazioni temporali del linguaggio.
E, ancora, collegandomi ai suoi versi, “la voce/ che nello scrivere non vuol darsi pace”, si pacifica nella poesia?
In nessun modo. Purtroppo o per fortuna, un po’ perché non vuole e un po’ perché non ne è capace.
Infine, per salutare i nostri lettori, le chiedo di scegliere (riportandole) tre poesie dal suo “proiezioni”.
Proprio in virtù della citazione di Mark Strand, mi astengo affidando a voi la scelta.
E così sia
sicario il pensiero
dove vale tutto
e tutto il contrario
minimo comune
denominatore
il punto d’arrivo
e di non ritorno
vicino allo zero.
—
Di certo
Il mio è un pessimismo
Di tipo cosmico
– ma senza la èsse
Tutto questo è piuttosto ridicolo,
no?
*
Avrei voluto scrivere
con lo stupore
di una lanterna che si spegne
nel vedersi attraversare
dalla luce del sole.
Poi, d’un tratto, l’indolenza.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 18.11.2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).