Leo Learchi , “Dodici mesi senza agosto”, un percorso di riconoscimento esistenziale tracciato sulla memoria dei luoghi.

tre domande, tre poesie

Addentrarsi nella poesia di Leo Learchi significa imbattersi in un’atmosfera lombarda e in una stratificazione anamnestico-geografica ben trafilata sulla conoscenza dell’atto poetico. Dodici mesi senza agosto è un percorso di riconoscimento esistenziale tracciato sulla memoria dei luoghi, degli oggetti fortemente simbolizzati e delle stagioni che si fanno contenitori di percezioni ulteriori, nel quale i ritratti familiari si alternano alla cosalizzazione del ricordo: gli oggetti, i paesaggi si fanno recettori del vissuto interiore dell’autore e si declinano in un tempo di mezzo tra passato remoto e futuro anteriore, a voler significare la capacità della memoria di annullare la dimensione temporale, nella fermezza dello spazio in cui ogni cosa accade simultaneamente.


Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Dodici mesi senza agosto”, pubblicato da Fallone Editore,  meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?:

Ho la consuetudine di condividere con gli amici le mie poesie, è un modo spontaneo di mandare un saluto e di raccogliere commenti, spunti di riflessione, confronti. In molti, anche tra gli amici addetti ai lavori mi hanno spinto a pubblicare. Grazie alla rivista Poesia che leggo ininterrottamente da 38 anni ho potuto scoprire la poesia di Ivan Crico rendendomi immediatamente conto di avere incontrato una voce altissima, quelle che scopri ogni dieci anni pur avendo un’infaticabile spinta a leggere. Quasi per gioco e con enorme imbarazzo ho osato inviare qualche mio testo a Ivan che ha accolto con favore e generosità le mie poesie presentandomi ad una interessantissima editrice di Taranto, Enrica Fallone e nonostante le mie reticenze dovute alla consapevolezza che ci si può sempre migliorare alla fine la rigorosissima Enrica ha deciso di accogliermi nella sua collana di poesia, “il fiore del deserto”. Cruciale all’attivazione della “scintilla” la lettura di migliaia di autori, i confronti personali con alcune delle voci fondamentali del ‘900, la consapevolezza che quanto scrivo quasi non mi appartiene, è un moto dell’anima e io stesso rimango stupito e incuriosito da quanto scrivo. Non eseguo mai correzioni, come nell’eseguire col pennello un ideogramma il maestro di scrittura giapponese non corregge mai, così le mie poesie hanno pochissime correzioni o aggiustamenti quindi sono lontano dal lavoro di lima caro a molti poeti e non sono affatto d’accordo con Ritsos, poeta che amo, quando dice che ogni giorno si mette a scrivere a ora esatta per onorare la poesia. Non chiedo ad un poeta di timbrare un cartellino, e il poeta sostanzialmente non deve nulla a nessuno. Sostengo che il lavoro del poeta sia OSSERVARE.

La poesia è un destino? 

Nulla è un destino, nulla è scritto. La poesia è come vedo, come vivo il mondo. Scrivo quello che vedo e in questo senso i lunghi anni di pratica zen mi hanno aiutato a mantenere uno sguardo attento, curioso, possibilmente lontano dal mentale. Lavorare sulla pulizia del verso, sull’eliminazione di versi ad effetto, senza  retorica e preziosismi, richiede a mio avviso tanti anni di letture e consapevolezza e in lo ritengo il modo più difficile di fare poesia.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempoa prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

 

Ho piantato i tuoi capelli
nel cuore blu della terra
tra un inciampo di nubi
e azzurri, un’idea di cielo
sogni leggeri, rapidi
passi tra buio e luce se i passi
certi di donna fanno orbitare
gli astri: ecco la vita, un’offerta
di amare erbe, incorrotte fioriture
e ancora passi, ancora luce, un cortile,
una contentezza leggera tra vie
di cui ho scordato il nome

Sopra (nella foto) un esempio della prima stesura istintiva e del testo finale. Il mio libro non è pensabile senza Milano. Ho un legame indissolubile con la città, sono cittadino in ogni atomo del mio corpo e questo si traduce nel mio sguardo, nel mio sentire. Appassionato di auto storiche non esalto le futuristiche gesta dei bolidi d’acciaio nelle mie poesie, percorro la città a piedi o in bicicletta e tutto nasce da questa modalità, cammino e osservo.

 

*
Mi è chiaro, mi è chiaro ora che
percorro le vie di Lambrate, avevi
tatuato dentro di te un labirinto
un quartiere da cui ormai non posso
uscire. Il mio senso
dell’orientamento non mi aiuta:
non ritrovo una porta, un passaggio
che mi conduca fuori Milano.
Voglio stare qui immobile, vivo,
vivo davvero. Mi è chiaro ti dicevo
mentre salgo, mentre mi immagino
su un terrazzo osservando la città:
da lì non ho visto altro che te

*

Il bikini rosa, il cappellino
bianco comprato dai cinesi
probabilmente e leggere
caviglie sulla rena.
Lontana dai bambini nell’acqua a volte
scorge un riflesso
di sé ventenne
La tua lontananza
non sta sulle labbra
e nemmeno in gola.
Forse sta nel petto,
nella sua memoria.
Luogo in ombra
sosta, carta
vetrata e fuga

***

Leo Learchi (Milano, 1962), artista eclettico e poliedrico. In ambito musicale è presente sin dal debutto sul sito del Mills College; ha collaborato con artisti ed etichette di livello internazionale. Ha partecipato in qualità di dj a svariati eventi, proponendo un’idea di clubbing lontana da stereotipi massificanti e piattamente commerciali. Ha collaborato come critico musicale con Edizioni Zero e con Digimag, occupandosi di musica elettronica e ricerca musicale sulle frontiere del suono digitale e della divulgazione del lavoro svolto da compositrici donne nella storia della musica elettronica. Sul fronte letterario ha partecipato alla nascita de La Mosca di Milano; i suoi haiku, riflesso di oltre un decennio di frequentazione del Monastero Zen Enso Ji, sono stati segnalati e accolti anche in Giappone. Inoltre, le sue fotografie sono state premiate in concorsi internazionali, come nel documentario canadese I Dream of Wires.
Dodici mesi senza agosto è la sua Opera Prima.

Potrebbero interessarti