rubrica Recinzioni
Della scrittura disobbediente
Ho conosciuto personalmente Maria Attanasio nel 2007, nei giorni immediatamente precedenti all’uscita de Il falsario di Caltagirone, in occasione di un incontro con degli studenti presso la Biblioteca comunale di Adrano, in provincia di Catania. Oggi mi sembra quasi impossibile, tanto per me Maria è diventata a partire già da quell’incontro sinonimo di poesia, e poesia ai massimi livelli, ma all’epoca avevo sentito poco parlare di lei: ricordavo di aver letto in precedenza qualche sua poesia e di aver visto anni prima nome e foto di lei in un pieghevole che illustrava una delle più belle iniziative culturali ad opera di Antonio Presti, intitolata “Il treno dei poeti”. Solo questo.
In effetti, prima ancora che di persona, è nelle pagine di Consolo che ho iniziato a conoscere e a voler bene Maria Attanasio. In L’olivo e l’olivastro Consolo ce la descrive al computer «come una Mena o Penelope al telaio», intenta a scrivere la secentesca storia di Francisca, giovane donna che rimasta vedova si traveste da uomo e va a lavorare la terra pur di guadagnarsi il pane. È l’impalcatura di quello che sarebbe stato il romanzo di esordio di Maria, Correva l’anno 1698, che segna il suo destino di, come lei stessa ama definirsi, biscrittora, cioè, insieme, poeta e scrittore.
In quell’occasione, nel 2007, ad Adrano, a cui ero andato, lo ammetto, per suggestione consoliana, raccontò della difficoltà e addirittura del ribrezzo di parlare di sé in poesia se non attraverso la trasfigurazione del dato biografico, e accennò alla sua scrittura come a una scrittura disobbediente. Me ne ricordo adesso dopo aver letto questo suo ultimo libro di poesie, Blu della cancellazione, appena pubblicato da La Vita Felice nella bellissima collana ‘Labirinti’, senza dubbio la silloge «della piena maturità di Maria» come scrive Antonella Anedda in prefazione.
‘Scrittura disobbediente’ è un sintagma che ricorre infatti per ben tre volte nel libro. L’intero percorso letterario di Maria si delinea a partire da questo concepire la scrittura in termini di conflitto contro tutto ciò che è accettato da tutti, contro le soffocanti convenzioni sociali che schiacciano l’estro del singolo. La sua scrittura dà voce perciò a dei personaggi che sono essi stessi dei disubbidienti. Di Francisca, della sua decisione di farsi uomo sfidando la morale del tempo, si è già accennato. Ma lo stesso può dirsi di Concetta La Ferla in Di Concetta e le sue donne, una capopolo che si batte per la costituzione a Caltagirone della sezione femminile del Pci, o ancora più esplicitamente, di Paolo Ciulla nel Falsario di Caltagirone, pittore, omosessuale, che riesce a riscattare il fallimento della sua professione diventando il più bravo falsario d’Italia, capace di stampare banconote più belle di quelle uscite dalla Zecca dello Stato. Disobbedienza, quindi. Che diventa, anche nelle poesie riunite in Blu della cancellazione, resistenza. L’epigrafe di Le Clézio alla sezione centrale del libro lo chiarisce: “Quando si nasce sull’orlo di un simile abisso bisogna imparare a resistere”.
Come denuncia la stessa Maria Attanasio nella nota conclusiva, i testi presenti in questa raccolta, salvo poche eccezioni, erano già stati pubblicati in plaquettes, riviste e antologie. Tuttavia il libro non si presenta affatto come una semplice operazione di raccolta di materiale pubblicato nel corso degli ultimi anni, ma assume una struttura molto articolata e coerente, all’interno della quale ci pare possibile individuare la suddivisione in due blocchi distinti, quasi due libri autonomi, separati da una breve sezione di appena nove poesie intitolata “Frammenti dell’acqua mutante” (quella con l’epigrafe del premio Nobel francese), che fa da cuscinetto tra le due. Non a caso entrambi i blocchi, che rappresentano la parte più corposa del libro, “(De)costruzione di biografia” e “Blu della cancellazione”, sono a loro volta suddivisi in tre sottosezioni ciascuna, con una corresponsione volutamente a specchio.
(De)costruzione di biografia
Senza nulla togliere a “Blu della cancellazione”, devo sin da ora rivelare che si tratta della sezione che più preferisco del libro. Tematicamente più compatta dell’altra, “(De)costruzione di biografia” apre il libro ed è suddivisa, come si diceva, in tre parti: ‘Gorgo della parola infanzia’, ‘Di dettagli e detriti’ e la più breve ‘Crepe, mutazioni’.
Nella prima, Maria procede per lampi e cenni ripercorrendo con un procedimento non lineare, come lo stesso titolo suggerisce, la propria infanzia, gli anni del dopo guerra, le case bombardate, le processioni religiose, la sua Caltagirone («la città / teatro degli eventi»). L’infanzia, lontana dall’essere il tempo dell’innocenza e della felicità perdute, si profila in questi versi come il tempo della privazione e della sofferenza («sola, compressa, / nel cerchio di una stanza, / ha fame e freddo»; e in un’altra poesia, in siciliano: «Nun n’aju robbi, aju fami»), una impotenza che non è poi solamente di natura economica, ma anche culturale, l’infanzia coincidendo con il periodo in cui più malcerti sono gli strumenti linguistici e cognitivi che ci occorrerebbero per affrontare e capire meglio quello che avviene intorno a noi («nemica infanzia di sconoscenza»).
Segue ‘Di dettagli e detriti’, sezione uscita nel 2010 nell’Almanacco dello Specchio di Mondadori e dedicata alla memoria di Celeste C., madre della poeta calatina. Anche qui non si tratta di una vera e propria biografia, ma del tentativo, riuscito, di restituire al lettore il senso precario di tante vite, e quella della madre in particolare, attraverso pochi casuali dettagli (il 1920 anno della nascita di Celeste; una foto del 1928 «in divisa di piccola italiana»; lo scoppio della Seconda guerra mondiale) in mezzo al mare di detriti, a tutto ciò che il tempo, scorrendo, sommerge e cancella.
Un sentore del «nulla che viene» attraversa ‘Crepe, mutazioni’, ultima sottosezione di “(De)costruzione di biografia”. Qui il tono si fa più amaro: Maria registra i segni del cedimento («l’inciampo ad ogni passo: zampette / di rimmel scale senza ringhiera»), dell’invecchiamento («e mi guardo allo specchio / in quel vecchio che arranca), del graduale avanzare «nella sconnessione», inframmezzandoli a momenti di rinnovato entusiasmo («lingua che pure / si scioglie in fulgore»), di ritorno al passato (Torrente sotterraneo sogno inverso / verso l’oscura alba dell’inizio») fino alla breve, accorata prosa di “…per l’odore di caffè…”: «torna pienezza vèstiti di rosso».
Blu della cancellazione
Sono testi tematicamente e stilisticamente più compositi quelli raccolti in “Blu della cancellazione”, sezione eponima dell’intero libro. ‘Del rosso e nero verso’, la prima delle tre sottosezioni, uscì nel 2007 per la casa editrice Il Faggio, e tra le altre, contiene una delle poesie più belle e intense del repertorio di Maria Attanasio, ‘(Lettera a un amante morto)’, in cui la poeta calatina abbandona l’incedere quasi sempre nominale e sincopato del suo verso, e lo dispiega sulla pagina con la potenza e la forza della migliore poesia confessionale.
Clandestini, barconi, zattere allo sbando, rimpatri, villaggi globali, lingue straniere appaiono e dispaiono nella seconda sottosezione, attraverso la quale Maria, vicina agli ultimi fino alla stessa immedesimazione («fui tutti i nomi dell’asimmetria / sono Jamila adesso / persa nel blu della cancellazione»), racconta del nostro miserabile tempo di morti annegati in mare, di clandestini sfruttati per pochi euro nelle serre, che spariscono in silenzio «dal display» della vita. ‘Il suo nome era Tarek di Helalia’ è da questo punto di vista la poesia più esemplare. Il verso sempre sorvegliatissimo di Maria si apre a una cadenza molto vicina a una prosa volutamente sciatta, impersonale, quotidiana, da tiggì. Tarek comincia a morire nel momento in cui, per comodità, gli si attribuisce un altro nome, Tano il tunisino («Di sera, sulla branda, / per conforto di nome, piano piano / lui stesso si chiamava “Tarek! Tarek!”». Ma una volta caduto a terra, collassato per la fatica e il caldo, e abbandonato davanti a un ospedale in fin di vita, a rimpiazzarlo subentra, per la pietà e la misericordia del padrone, un altro clandestino, «Fuad, chiamato Federico», per una circolarità di sfruttamento che non ha mai fine.
I testi più recenti racchiusi in ‘Sette palazzi celesti’, sezione che degnamente chiude il libro, prendono spunto infine dalla visita da parte di Maria Attanasio dell’Hangar Bicocca di Milano dove sono esposte le poderose installazioni di Anselm Kiefer.
(10 giugno 1940)
Notte o ventre di betoniera
senza luce di faro senso di parola
doppiando l’ora il passaggio
gli steli ciechi della metamorfosi
– l’amore postumo l’inguaribile ferita,
la discesa lì dentro, al buio –
cercando tra folle e altoparlanti
nelle piazze del Quaranta
il file compresso tra i calanchi
– l’istante in bilico tra un abito a fiori
e un sacco di frattaglie – mentre le armate
risalgono il millennio a passo d’oca
e sua figlia – già vecchia –
accucciata in un angolo la guarda e piange.
*
*
… per l’odore di caffè…
*… per l’odore di caffè appena sveglia per la fiammella dell’accendino che accende il giorno e la mente –
bevendo l’incandescenza del paesaggio sputando il nocciolo di dura consistenza – torna pienezza vèstiti
di rosso in questo nulla che viene alzati in punta di piedi e guardalo negli occhi…
*
*
(Lettera a un amante morto)
Amore mio – pagina scritta anemico testo di poesia –
ci provo a dirti come stanno le cose. Che stanno malissimo.
Nostro figlio a dieci anni ricoverato nel reparto incurabili,
e l’amico tuo – il filosofo del pensiero forte –
promuove filosofie in televendita.
Una scrittura disobbediente devia fiumi e petroliere
scavando crepe tra gli zigomi e il mento
omologando ai mercati la torre di Babele.
E umani rottamati a fini produttivi.
Ogni tanto di notte sento un fiotto di grida che proviene dal mare
– un clandestino mi dico sta annegando –
tappo finestre e tivvù mi chiudo ermetica tra i segni
aspettando che si faccia giorno, ma sogno martelli
coltelli da cucina punteruoli in questa veglia sbieca di morenti.
Un’ultima cosa, risibile se vuoi,
i negativi delle foto li ho persi nel trasloco,
e non li ho più trovati intelletto e verità.
Esposte a scarpe chiodate al gelo dei mattoni
le nostre figure di passione.