Massimiliano Bardotti, “La terra e la radice”, l’incessante migrazione tra poesia e preghiera.

tre domande, tre poesie

(…) Pare che l’intento del poeta, nella sua incessante migrazione tra poesia e preghiera, sia quello di realizzare una scriptio continua dell’anima, al di qua dei generi prestabiliti e dei linguaggi standardizzati. La parola torna ad essere cibo spirituale e insieme energia da comunicare al mondo, come lo è stata per Francesco d’Assisi, per i pellegrini russi e per i grandi mistici.

(dalla prefazione di Alessandra Paganardi)

 

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “La terra e la radice”?

Questo per me è sempre un grande mistero, un movimento che faccio davvero fatica a spiegare. La scrittura si affaccia sempre come un’urgenza, si fa vivo un verso dentro di me, solitamente, un verso che soprattutto ha un ritmo, batte un tempo, e se lo scrivo si disvelano altri versi. Io devo fare molta attenzione a tenere il tempo, a seguire il ritmo con estrema fedeltà e precisione. Talvolta questo è semplicissimo, talvolta più complicato e faticoso.
La scintilla che può accendere il primo verso varia: talvolta arriva leggendo altri poeti (qualcosa che amo in verità molto più di scrivere), talvolta mi coglie completamente alla sprovvista mentre sto facendo tutt’altro. Talvolta mi sveglia di notte e devo scrivere. Talvolta è un pensiero, un argomento che decido di trattare. Anche se raramente mi sembra che scrivere sia una scelta razionale. È più una chiamata. E l’urgenza non saprei dire se è della poesia o è la mia. Perché la sensazione, a dire il vero, è che la poesia se la cavi benissimo senza di me, che troverebbe qualcun altro per rivelarsi. Il perché mi cerchi resta nell’ambito del mistero…
Nello specifico de “La terra e la radice”, parliamo di un lavoro di 5 anni, da quando ho cominciato a raccogliere le poesie che poi hanno composto il libro. Può capitare che mi accorga di un qualcosa che nasce, ci sono periodi in cui potrei scrivere ogni giorno, in cui avverto che è necessario un impegno importante, un dedicarsi quotidiano e totalmente devoto. Allora i versi escono e vanno nella direzione giusta, rispondono ai versi scritti il giorno prima, parlano la stessa lingua, si interrogano sulla medesima materia. Talvolta tutto questo procedimento mi sembra davvero miracoloso. Alla fine di un libro, quando mi accorgo di avere lavorato a un progetto che ha una chiarissima identità, una forza e un valore suo (e sono ben consapevole di aver contribuito, ma di non aver fatto tutto il lavoro, non il lavoro più importante perché quello è totalmente dato, a me è chiesto di saper ricevere) ne sono sorpreso fino alla commozione.

La terra e la radice, mi sono accorto, è la mia risposta a una quartina di David Maria Turoldo:

Almeno un poeta ci sia
per ogni monastero:
qualcuno che canti
le follie di Dio.

Mi sono assunto la responsabilità, folle anch’essa, di provare a cantare le follie di Dio, di provare ad essere poeta fino in fondo, perché mi sembra chiaro che ogni poeta non possa fare altro che questo. Si fa palese, dunque, che per poter anche solo sperare di cantare le follie di Dio, occorra conoscere Dio e le Sue follie. Probabilmente impossibile. Ma anche solo per avvicinarsi, diventa necessario vivere una vita adeguata. Del resto o si è asceti o non si può essere poeti. Si può fare finta o fare il verso ai poeti, si può scimmiottare la poesia, si può mettersi delle piume in testa per attirare l’attenzione, urlare robe sconce, persino bestemmiare, si possono indossare abiti adatti o ritenuti tali, si può imitare, ci si può atteggiare, si può fare tutto: la poesia sarà sempre altrove. Ecco, altrove rispetto al mondo, alla mondanità, è anche dove abita il poeta: nel mondo ma non del mondo.
Ecco dunque che vivere è molto più importante di scrivere, ma scrivere è una conseguenza. Io sono sempre in allerta, in ascolto di un minimo segno, e il lavoro più faticoso che faccio è fare spazio, liberarmi di me affinché una voce più vera, grande e viva possa cantare attraverso di me. Come fossi un flauto, come una canna di bambù suonata dal vento, così vorrei fosse, ogni volta. Poi non so mai dire se è davvero così…

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

Questo è difficilissimo per me! Difficilissimo sceglierne una, perché sono tante, tantissime. Forse però ci sono dei versi ai quali torno un poco più spesso, e che mi hanno segnato profondamente, tanto da aprire una via in me, un varco. Sono versi di Walt Whitman:

Il minimo germoglio mostra che la morte non esiste,
e che se mai esiste, essa indusse alla vita, e non attese il termine per fermarla,
e non cessò l’istante che apparve la vita.
Tutto continua e procede, mai nulla s’annulla,
morire è ben diverso da quanto alcuno pensava, e molto più fausto.

Questi versi hanno contribuito alla mia ricerca poetica sul tema della morte. Sono una parte fondamentale di quella necessità che mi ha mosso a ricercare e raccogliere nel tempo versi, citazioni, intere poesie che facessero un po’ di luce sul grande rimosso dei nostri tempi. E abbiamo visto benissimo il tentativo di cancellare la morte che genere e vastità di danni può fare. Negli ultimi due anni abbiamo chiaramente assistito a una nevrosi che nessuna civiltà con una sana relazione con la morte avrebbe mai accettato di vivere. La ricerca ad ogni costo di una sopravvivenza a un virus ci ha spinti a odiarsi gli uni gli altri e a credere che pur di scamparla tutto fosse lecito, anche diventare disumani, anche rinunciare a vivere. Eppure credo che non si possa conoscere la vita senza conoscere la morte, né si possa conoscere lo morte senza conoscere la vita. Questa ignoranza è spesso motivo di molti drammi nella nostra esistenza.
Ritengo dunque fondamentale indagare questo antico e profondo mistero.
Questi versi di Whitman sono stati importanti innanzitutto per me, nel farmi percepire in maniera netta come la morte non sia cessazione della vita, ma la sua naturale continuazione. Perché credo che proprio l’avvertire la morte come fine, termine della vita, sia il principale problema col quale ci dovremmo confrontare. Perché lo diamo per certo, invece di ammettere quantomeno il dubbio. Eppure il minimo germoglio mostra che la morte così come la immaginiamo noi, non esiste.

 

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “La terra e la radice”; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Come quella volta che nevicava
e imparai la misura della vita.
Mia madre piangeva, ero bambino.
Si accorse di me, cercò un sorriso.
Seppi allora, da quella smorfia,
che nessuno è escluso dal dolore.

Ci fu poi la volta in cui mio padre
lo voleva per sé la morte.
E chi l’aveva mai creduto
che fosse mortale mio padre.
Ho scoperto così fino a che punto
i grandi diventano grandi.

Mia nonna esalò un respiro lieve.
Non si muore inspirando, sapete?
È questa la misura dell’amore.

L’ho vista in sogno una notte mia nonna.
Mi ha preso il volto fra le mani.
Tranquillo mi ha detto, tranquillo
sto bene. E tu, come stai amato mio?
Nonna, un giorno ho scoperto la misura.

Nevicava.

*

Del nostro avvenire ho raccolto i sassi
senza distrarmi, lentamente.
Li ho distesi lungo la strada
la via che porta dritta all’entrata.

Insieme faremo il passo dell’oltre
ridendo un poco come i bambini,
un poco imbronciati per l’abbandono.

Tu mai prima d’ora senza valigia
dimenticate a casa le tue borse.

Sapremo della luce l’origine,
da quale distanza ci scaldava.
Degli amati amici ritrovati
i volti nuovi impareremo.

E ci terremo forte, per mano,
con la paura di esser separati.
E accadrà qualcosa, ma non so.
Non posso dirti cosa perché non so.

Forse la gioia.

*

Ditelo ai vostri figli che sono inarrestabili
ditelo loro, che non moriranno
come abbiamo creduto di sapere
ma alla maniera dei poeti
perché solo la morte che ha scritto Rumi esiste
e Whitman e Dante,
non l’altra, quella dei ciechi guide d’altri ciechi.

Voi ditelo ai vostri figli finché siete in tempo
che ve ne andrete da qui per essere altrove
altrove ad essere.

Che non potranno più tenervi per mano
ma potranno accordarsi al vostro respiro.
Che non dovranno più amarvi a patto che…
ma amarvi a perdifiato
perché ogni inspirazione sarà un internarvi
e ogni espirazione un ridonarvi.

Ditelo loro che lontano dagli occhi
non è lontano dal cuore.

Ditelo loro che pur non visto,
Dio, è amore.

Quest’ultima poesia viene da molto lontano. È cominciato tutto con san Francesco e il suo Cantico, dove chiama la morte sorella. Io sono stato per lungo tempo terrorizzato dalla morte, soprattutto dalla prospettiva di dover perdere coloro che amo. Era qualcosa che non riuscivo, non potevo, né accettare né perdonare, tantomeno comprendere. Mi chiedevo perché i miei genitori mi avessero messo al mondo. Poi lessi il Cantico delle Creature, e quel “sorella” riferito alla morte mi folgorò. Come si poteva chiamare la morte sorella? Dopo il primo sbigottimento mi venne in mente che Francesco doveva sapere qualcosa che io non sapevo. Decisi allora di mettermi a cercare. Scoprii anzitutto che le cose che non sapevo erano infinite. E scoprii le poesie di Rumi sulla morte, e poi Whitman, e naturalmente il viaggio di Dante. Credetti a tutti questi poeti, senza indugio. Seppi in me quella verità, la riconobbi. Per anni non sono riuscito a ridirla in versi come avrei voluto, ma i tentativi sono stati tantissimi e la morte resta uno dei temi a me più cari. Sentivo, con questa poesia, l’esigenza irresistibile di dire a tutti i genitori di affrettarsi a dire ai loro figli soprattutto questa verità: la vita non muore, mai, non può morire. La vita è eterna. E bisogna affrettarsi a dirglielo, prima che sia tardi. Come scrive Pessoa:

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.

Si può scomparire dalla vista, non dal cuore. I nostri morti sono sempre con noi, vivi come non mai.

Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino. Poeta, è presidente dell’associazione culturale Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini. Pubblica tra gli altri: Il Dio che ho incontrato (2017 Edizioni Nerbini), I dettagli minori, (2018 Fara Editore) opera di poesia e prosa dal quale è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale interpretato insieme a Viviana Piccolo. Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali (2019 Tau Edizioni). A marzo 2020, sempre con Fara editore esce Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio, scritto insieme a Gregorio Iacopini e con la prefazione di Filippo Davoli e la postfazione di Isabella Leardini. Nel mese di maggio 2021 esce Idillio alla morte, scritto con Serse Cardellini. Il libro apre la collana poetica: Fuori Stagione, di FirenzeLibri, della quale Bardotti, Cardellini e Iacopini sono curatori. A giugno 2021, per Puntoacapo Ed. esce La terra e la radice. Nel 2017 a Castelfiorentino fonda LA POESIA È DI TUTTI, percorso poetico e spirituale che ha come obiettivo il recupero della tradizione poetica intesa come azione, presso l’ass. cult. OltreDanza. Dal 2018 conduce: “L’infinito, la poesia come sguardo: Ciclo di incontri con poeti contemporanei” al san Leonardo al palco di Prato.

Potrebbero interessarti