Maurizio Padovano, “La neve dentro”

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“Sapeva di altro, però, Ascenzio. Di rancori nottetempo. Di mugolii solitari da caprone uggioso. Di furie improvvise e devastatrici. Di cicatrici che stentano a chiudersi sul volto di sua madre e sulle pareti porose della sua anima di bambino mancato. Era una specie di animale che ingurgitava tutti quelli che gli si avvicinavano troppo, Luciano. Quando suo padre è in casa, Ascenzio ha sempre l’impressione di vivere come un cieco in un mondo sconosciuto. Avverte pericoli incombere da ogni dove, ma sa che è inutile tentare una difesa preventiva. Il male, che sente dappertutto ma non riesce a vedere distintamente, gli piomba addosso comunque, con la violenza aguzza di uno sciame di vespe. Cercare lo sguardo di sua madre è cosa vana. Lei sfugge il mondo intero e Luciano non fa eccezione”. La storia di un’amicizia impenetrabile, tra due bambini, Strina e il “selvatico” Ascenzio, braccato da un destino funesto la cui maligna fisionomia assume i tratti di un sacrificio. Un sacrificio assurdo, inspiegabile, come lo è la morte, in generale e particolarmente a undici anni, che lascia il segno sulla sua compagna di scuola divenuta anziana. La neve dentro (Drago Edizioni) è una fiaba amara che contiene in sé germi di luce, sarà per il linguaggio assunto da Maurizio Padovano, lirico e caldo, empatico con i suoi protagonisti, diretto (non ingabbiato dalla retorica che è spesso un’altra forma di reticenza), sarà per le illustrazioni di William Marc Zanghi, che traghettano l’asprezza della parabola narrativa verso una possibile catarsi data dai colori accesi, brulicanti vita.

Pochi i personaggi, quasi tutti impotenti e come sottomessi a un destino di iniqua espiazione, con Strina che si fa portavoce, testimone di morte. Darà la notizia al maestro, e la figura severa, apparentemente distante di quest’ultimo, si muterà in quella comprensiva e accogliente, paterna, che stringe nel suo abbraccio e nel pianto condiviso. Vincono i gesti, laddove le parole restano indicibili, i singhiozzi e i pianti strozzati in gola si liberano, e la follia materna è più saggia di quel che appare, forse anticipa, prevede gli eventi. I due bambini imparano troppo precocemente “come si sconta un pomeriggio di felicità”, ma c’è un luogo della memoria senza tempo, dove nessun padre può uccidere e si può correre senza paura di violare confini: “È il buio radioso della verità, il suo candore accecante che non si impara a sopportare. Come il sole negli occhi. Strina sa che quello che comincia a sentire è la neve dentro, e capisce al volo che è meno terribile di quanto abbia temuto. È come ferita che prude leggera, che infastidisce ma non stronca”. E la memoria redime, laddove sembrerebbe segregare.

 

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