Giacomo Cerrai, nel suo ultimo lavoro poetico dal titolo Diario estivo e altre sequenze – L’arcolaio 2012, esprime, con una liricità novecentesca sin dai primissimi versi, l’esperienza articolata di un cammino percettivo che si sviluppa attraverso tre fasi: osservare, distaccarsi, coniugarsi. Già nei precedenti lavori poetici Cerrai si è concentrato sul gusto di dire il dispiego della bellezza del mondo attraverso l’osservazione delle cose che sono fuori di noi. Qui, nel suo Diario, che non è una cronaca della quotidianità personale, ogni piccola parte delle cose viene osservata e comunicata per mezzo di dati sensoriali che spesso sembra rimangano ingabbiati nella parte pensante dell’autore. L’individuazione soggettiva del lettore, che riesce a penetrare lo spazio/lontano della poesia dell’autore, si trova a dover fare i conti con una scrittura complessa, articolata, elegante, caparbia e parsimoniosa di giudizi valoriali capace di narrare il reale, sia nei componimenti in prosa, sia nei versi, percorrendo panorami territoriali ed emozionali spesso rassicuranti, altre volte teatralmente inquietanti. Si prediligono scelte di linguaggio strutturato secondo una veduta umana potentemente viva in cui l’avanzare verso gli altri dà la misura di se stessi e dei propri limiti. Il testo, in modo etico e filosofico, approfondisce, soprattutto nella prima sezione, la ricerca visiva e intrinseca degli elementi materici (acqua, aria) che appartengono all’esistenza e che rappresentano i momenti di rivitalizzazione della propria sonorità vocale e spirituale del dire la vita che troviamo, soprattutto, nell’ultima sezione del volume. Sicuramente la psicologia dei versi poggia la sua priorità sul ‘sentire cognitivo’ e non sul ‘sentimento/emozione’ dell’autore che, partecipando la sua dimensione di pensiero celebrativa, sa andare, con passo scevro da limiti intimistici, verso un progetto di parola/senso/folgorazione dell’infinito (l’ultima parola feticcio; … l’epigrafe/dei corvi sono parole/prese dai rimari). Quindi tre sono le fasi che il lettore ripercorre: la prima riguarda l’osservazione dei contesti in cui ci si lascia trasportare dalle immagini, storie, descrizioni con una semplice impressione dell’apparenza. Nella seconda fase si percepisce l’impossibilità del poeta di mutare il mutevole e ci si distacca dal possibile-vedere l’ulteriore assunzione del controsenso fino a coniugare, nella terza, e ultima fase, il presente con il passato come la risoluzione per sopraggiungere, con la coscienza della memoria, nel domani che arriva.
da “Diario estivo”
topologia
è buon esercizio misurare
il vicino misurare il lontano
prendere le distanze
dal reale dei viali dalle infinite
rette illusorie senza strappi
andava velocissima la prospettiva le
fughe estive dell’occhio le
esauste pagine di libri
giravano giravano come un autunno precoce.
verso zero inerziali. nastri
come scollati disegnano anelli
scie diuturne sul fiume ed edifici
che aggettano oltre la verticale piattezza
un anelito amoroso di forme
nella calura nell’impostura
passo dopo passo
almeno una volta attraversammo tutti i ponti (*)
…
(*) il problema dei sette ponti di Königsberg è un classico della topologia
da “Traiettorie”
iscrizione nel cerchio
ogni discorso è palinsesto, dicevano, è anagramma. Ogni corteggiamento allude a un cerchio, e l’obliqua ragione di chi nega e fugge in ripostigli nonrisponde all’invito, nel cerchio nasconde il vaso vuoto. Nell’arsura notturna, forse immaginata: voci ci interrompono, dicevano, scrosci di risa in avvicinamento, ora ci vedranno, ora vedranno il fiore il vaso vuoto l’acqua che versammo. Nel sogno la brocca scintilla, corrono bambini nudi. Che importa, dicevano mordendosi, credi alle parole, credi al sogno, la realtà del giorno è un doloroso processo di verifica, rimanda. Non c’era ragione perché anche lì si dovessero usare parole. Non c’erano regole.Non era che un piano inclinato dove le immagini scivolavano lentamente.
da “Landscapes”
(VII)
un’ultima nota tragica
vibra perché l’onda
la trasporta inerte:
c’è un limite alla serie
degli echi
fisico
perché morale l’occupazione
di spazi muri invalicabili
è ora di cessare e il suono voce
torna solitudine di confini
è ora di cessare
(VIII)
forse è meglio che esca
da questa area inabitabile
piena di labirinti e ritornelli
è così facile – guarda – ripartire
da un facile
zero.
nell’assolato tormento dei palazzi
c’è un rischio come
un disco rotto un meccanismo antico
e il salto l’obliquo ritrovarsi
al punto fermo.
da “Common Law”
1.
le esperienze non restano,
come brine,
nei tempi lunghissimi del gelo:
arabeschi fuggevoli su foglie,
autodistruzioni o crepe
inflitte sulle rocce
che infine si scompongono
in rosari.
Non saprei come agire, scrisse,
dovessi tornare a quelle stanze.
Erano primule in un libro,
fragili memento.
Non erano regole né debiti,
solo
abiti d’ego confortevoli,
come il mutare consueto delle nuvole.
Sciolta in quell’acqua di neve
l’esperienza dilegua,
non fa storia,
come un mendicante che non noti.
Non devi agire, risposero,
non ce n’è più bisogno.
Giacomo Cerrai è nato a S.Giuliano Terme (Pisa) nel 1949. Ha studiato a Pisa, dove abita e lavora, e dove si è laureato in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea con Silvio Guarnieri, con una tesi sulla rivista letteraria fiorentina “Solaria”. Ha pubblicato solo una piccola raccolta, “Imperfetta ellisse“, prefazione di Cristiana Vettori, negli “Opuscoli di Primarno” della Accademia Casentinese di Lettere, Arti e Scienze. E’ ora disponibile su Lulu.com una versione a stampa (scaricabile anche gratuitamente) de “La ragione di un metodo“, silloge di testi risalenti agli anni ’80-’90. E’ presente nell’antologia “Vicino alle nubi sulla montagna crollata“, a cura di Luca Ariano e Enrico Cerquiglini, Campanotto Editore, con il poemetto “Acqua”. Ha collaborato con un proprio testo bilingue a “Private” n. 18/2000, rivista di fotografia e scrittura, ed è uno degli autori del volume dedicato a Cesare Pavese “AA.VV. – Cesare perduto nella pioggia” a cura di Massimo Canetta, Di Salvo Editore Napoli. Suoi testi compaiono su parecchi blog letterari.
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