“Meccanica dei solidi” di Raffaela Fazio, una poesia filosofica costellata da interrogativi.

di Alessandro Pertosa

 

Meccanica dei solidi di Raffaela Fazio è una perla brillante, un libro-faro che illumina la fine, e getta un fascio di luce su ciò che, ormai da secoli colpevolmente, lasciamo al buio. Perché parlare della morte ci spaventa. Smentisce le nostre meschine ideologie di progresso lineare infinito. Mette al muro chiunque pensi di poter vivere un’intera esistenza, senza fare i conti con quell’estremo orizzonte che ci costituisce. Che ci contraddistingue come mortali. E siamo per l’appunto tali proprio perché moriamo, spesso senza lasciar fare al destino, ma schiacciati dalla violenza e dall’orrore; dalla fogna del potere, dalla menzogna dei più forti, di chi ha un posto al sole e fa di tutto per mantenerlo.
Con una profonda leggerezza di voce, la Fazio ci ricorda che l’uomo si trova da sempre in uno stato di tensione estrema, di lotta fra il bene e il male. E quando un corpo vivente non ce la fa a sopportare l’abuso, la pressione, il sopruso, invece di deformarsi, di resistere, cede all’improvviso e schianta. E quando accade, si consegna all’indicibile morte. Che dà scandalo e ci fa paura. Per questo non la nominiamo. Persino i manifesti funerari, appesi ai muri delle nostre città, riportano le più igieniche e generiche diciture: «è salito al cielo», «è tornato alla casa del padre», «se ne è andato», «non è più tra noi», «si è spento», e le preferiscono alla più chiara espressione: «è morto».
Ma è davvero inutile tapparci gli occhi, immaginandoci invulnerabili abitanti di un deserto placido e tranquillo. Perché non è così. Fuori è burrasca. Impazza la tempesta. E fra le onde di un naufragio che non si arresta, anzi – sembra peggiorare giorno dopo giorno – non ci si può esimere dall’interrogarsi sul senso della vita e sul suo attraversamento estremo: sulle cause profonde, inestirpabili; sui testacoda dell’esistenza – proprio quando facciamo fatica a capirci qualcosa, o almeno da quale parte stare; proprio quando disperiamo dinanzi al mare di angoscia e frustrazione per la violenza che vince, che spazza via la vita, e ci lascia senza parole. Ecco, è nel massimo sconforto, nel dolore straziante, che vale la pena di prendere in mano questo libro-faro e meditarlo.
Verso dopo verso, la Fazio fa i conti fino in fondo con la morte. Mette il dito nella piaga e ci presenta tredici storie, tredici destini che si compiono nel sacrificio estremo. Nel sacrificio inteso come sacrum facere: un fare sacro, un fare in vista del bene, un fare in vista dell’altro, per l’altro, nonostante tutto concorra a rompere l’equilibrio dei rapporti e a deformare i corpi deboli, fino a produrre quel cambiamento estremo, che è il passaggio dalla vita alla morte.

La lingua di Raffaela Fazio ha radici profonde, e la sua è una poesia filosofica. Lo è certo per le domande senza risposta che si porta dietro:

Fin dove si risale
se il buio non ha uscita
ma solo una pendenza?

E ancora per le questioni profonde dagli echi qoheletiani:

Cos’è che tiene a galla
se il nulla avvolge tutto?

Ma possiamo parlare di poesia filosofica anche per quello sforzo continuo di spingersi, con la «ragione del cuore», nel cavo intricato delle parole che ci dicono la forza e il bagliore della vita, nonostante tutto. Perché se anche il tema del limite è costantemente presente, Meccanica dei solidi non è certo un libro sulla morte. Tutt’altro. È un libro ferocemente attaccato alla vita e alla gioia di esistere: direi persino alla fede più alta, mistica, che fissa negli occhi un bene-luce assoluto, a cui tutto torna.
In fondo la Fazio resta un’ottimista antropologica; ed è del bene e degli uomini buoni che ci vuole parlare. 

 

scelto per voi 

 

Il capitano Lawrence Oates partecipò alla Terra Nova Expedition, spedizione britannica pianificata e condotta nel 1910 da Robert Scott con l’intento di raggiungere il Polo Sud, dove gli inglesi arrivarono il 17 gennaio 1912, preceduti però dall’esploratore norvegese Roald Amundsen, che aveva raggiunto quella meta circa un mese prima. Nel viaggio di ritorno dal centro del Polo Sud, le condizioni di Oates iniziarono a peggiorare a causa del congelamento e dello scorbuto, che riacutizzò le vecchie ferite di guerra. La sua grande stazza fisica rendeva inoltre più pesanti e rapide le conseguenze della denutrizione. Per non rallentare la marcia dei tre compagni (uno era già morto), Oates chiese loro di lasciarlo indietro, ma essi rifiutarono. La mattina del 17 marzo 1912, febbricitante, si mise a fatica le scarpe e uscì dalla tenda durante una violenta tempesta di neve, a -40° C. Cosciente di andare incontro alla morte, ai compagni disse: “I am just going outside and may be some time”. Il suo corpo non venne mai trovato. Scott e gli altri proseguirono il viaggio, ma neppure loro sopravvissero. Gli eventi di questa vicenda furono appuntati da Scott nel suo diario.

 

And may be some time

 

Pensava che il risveglio non giungesse.
Invece la notte si è offerta
al bianco assoluto feroce
che si raccoglie
sulle ciglia e dentro le narici.

Lo scorbuto ha riaperto le ferite.
La febbre la fame
gli lasciano appena
la forza di stringere i lacci.

Ma il corpo così grande
è impedimento
sul ghiaccio tra i crepacci.
Sa che gli altri
non lo lasceranno.
Li osserva nella tenda
(per loro ancora spera).

I am just going outside and may be some time.

Fuori, quaranta sotto zero
e la sconfinatezza della fine.
Si affida alla tormenta
perché lo renda
piccolo
tanto da non sentire:
feto nel grembo di gelo che lo prende
                               per poi sparire.

Potrebbero interessarti