“Primo Levi. Il Laboratorio della coscienza” a cura di Giovanni Tesio, inedito volume per “levarsi” verso nuove soglie di risonanza.

Primo Levi. Il Laboratorio della coscienza è il titolo di un libro straordinario e straordinariamente attuale scritto da Giovanni Tesio, nella toccante “fraternità” di due scritture/intelligenze, pubblicato da “Interlinea”. Un volume per ascoltare in chiave sempre inedita il Levi testimone della Shoah. Per “levarsi” verso nuove soglie di risonanza. Per riflettere sul valore salvifico di “non trasferirsi mai fuori dalla propria vita, […] fuori dal proprio compito”. Per ricordare che “occorre difendersi individualmente e collettivamente, con tenacia e intelligenza, e anche con ottimismo”. Per “riconquistare la prospettiva storica” perché “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”.

Potendo sintetizzare in pochi essenziali concetti, come descriverebbe il “vostro” (di Levi e suo, nella fraternità delle vostre scritture/intelligenze) che laboratorio della coscienza? Quali gli elementi indispensabili?

Laboratorio della coscienza è un titolo che si raccoglie quasi in ossimoro, ma che cerca di compendiare i due maggiori itinerari dell’opera di Levi: da un lato l’esigenza della razionalità e del controllo dei fatti, l’esigenza di una loro valutazione di vista snebbiata e, per così dire, “incommossa”; dall’altro lato il valore morale che ogni nostra azione reca con sé, la necessità dello scavo che comporta, la ricaduta anche sociale che veicola. Scienza, tecnica e morale sono le tre direttrici di un unico percorso.

In che modo, oggigiorno, specie in un momento storico “delicatissimo” come quello che stiamo vivendo, l’arte, la scrittura, può “ricavare «un organismo da un coacervo»”?

La scrittura ha di per sé due direzioni, e questo è un vecchio discorso, ma sempre nuovo o rinnovabile. Può scegliere di dire caos al caos (in realtà controllandone gli elementi ma restituendo l’idea di un “gliommero” indissolubile), e può dare organismo a un coacervo. La prima è la strada di ogni avanguardia, la seconda la strada che da Pavese a Calvino a Primo Levi mira a dare ordine al caos, ossia a cercare la scrittura netta e chiara, a fondare la scrittura come ricerca di una complessità allusa ma stilisticamente domabile.

Per quali ragioni l’uomo non riesce, in nessun modo, a fortificare il “fragile alfabeto della memoria”? In tal senso qual è o quali sono (lo chiedo soprattutto per le nuove generazioni che, complici molti adulti, schivano il passato) gli insegnamenti radicanti di Levi?

Su questo occorre intenderci. Capire e non dimenticare sono due verbi facilmente associabili, perché ciò significa approfondire la complessità di una materia così facilmente esposta alle fin troppo facili risposte emotive. Abbiamo il dovere di ricordare, ma mai dissociando il tutto dalla non minore necessità di dimenticare. Dico sempre che memoria e oblio non sono opposti ma congiunti in unità. Che cosa saremmo mai noi se non avessimo – insieme con il dovere della memoria – la carità dell’oblio? Materia a sua volta molto complessa ma che non va sottaciuta se non vogliamo dare risposte prevedibili e prestabilite.

In questo momento sappiamo che in Italia è stato “toccato” il lavoro, termine che (conveniamo) fa binomio con “libertà”. Con questa premessa che sottende molto di non detto, le giro (con qualche aggiunta) la domanda (riportata con la risposta nel suo libro, rivolta a Levi da De Rienzo e Gagliano): oggi, lei (tutti noi possiamo credere) crede (ancora) nel piacere del lavoro? Nella “nobiltà” del lavoro, nel suo valore “educativo e formativo”, inclusivo, collaborativo, in vista delle sospensioni e dei ricatti cui “bisogna” sottostare per accedervi?

Ecco, questa è una domanda quanto mai tempestiva. Ma sono quasi certo che Levi non avrebbe cambiato il suo parere in proposito. Il lavoro come libertà da intendersi come progetto di vita, ovviamente non dimenticando che anche qui andiamo incontro a una stratificata serie di situazioni e prospettive. Risposta univoca a un problema come questo non si dà, ma l’importanza del lavoro – sempre associabile alle difficoltà dei momenti storici più mutevoli – è ancora una garanzia di serietà, se non di “nobiltà”. Il valore educativo di un lavoro bene interpretato (o meglio: interpretabile) è ancora enorme: Nonostante oggi. Nonostante tutto.

Che fine ha fatto la resistenza (almeno) intellettuale? Chi si muove realmente, con lucidità e coerenza, per il “giusto oppresso dall’ingiustizia”?

Qui è in gioco la nobiltà del lavoro intellettuale come esigenza di giustizia, ma ad un tempo il discredito di cui i cosiddetti intellettuali godono (si fa per dire) come categoria. Il frequente spettacolo della viltà, la cura del tornaconto, l’abbassamento degli obiettivi, l’inghiottitoio del disimpegno, la grande chiacchiera televisiva, la parola “spettacolarizzata”, un macinatoio che tende a omogeneizzare tutto. Ecco. Per me Primo Levi con la sua opera ci dice qualcosa che invita ora e sempre a resistere alle sirene della presunzione, ai richiami fuorvianti. Se guerra è sempre – come sentenzia Mordo Nahum nella Tregua – la ricerca di scongiurarne giorno dopo giorno la sciagura è sempre pressante, sempre presente.

Nel capitolo “Nell’«ora incerta»”, osserva come la poesia di Levi attenda ancora il critico che la legga interamente alla voce “ironia” e nelle infinite “sfaccettature” di pietas, gioco parodico, sarcasmo come rigetto di ciò che non può che essere duramente respinto. Assodato che ad ogni lettura la poesia ci porge (ci insegna) qualcosa di nuovo, le chiedo: ad oggi cosa le ha “donato” la poesia di Levi?  Qual è il suo potenziale celato?

Sì, è così. Ho anche sentito dire che Levi non è propriamente un poeta, giudizio che a me suona come una presuntuosa enormità. In realtà la sua poesia è difforme da una – nonostante tutto – ancora perdurante idea di lirica, mentre quella di Levi è una poesia complessa, della cui complessità genetica è Levi stesso il più consapevole. La poesia di Levi è perfettamente incardinata nel suo mondo e nella sua “visione del mondo”, perfettamente a punto con le sue direttrici che si muovono giustappunto tra “laboratorio” e “coscienza” e che imbarcano momenti di tipo diverso, anche qui non riconducibili a un’unica modalità emotiva ed espressiva.

Spazio in libertà. Aggiunga tutto ciò che reputa, non compendiato dalle mie domande.

[Quanto allo spazio di libertà che accolgo, lascio a lei la domanda, ma do una risposta] Nel mio libro cerco soprattutto di indicare una strada. Ossia che leggere Levi non è soltanto entrare nel vortice di una macina mortale (il Levi testimone della Shoah), ma è anche – e non manco mai di sottolinearlo, anche se vedo che si fa molta fatica a prenderne atto – una maniera di uscire dal maelstrom per guardare alla varietà della vita, alla vitalità del gioco, all’umorismo che investe i nostri umani costumi; alla varietà, insomma, della vita che non si lascia irretire in un’unica ed esclusiva lezione. Vorrei giunta l’ora – senza negare l’importanza della parte testimoniale – che leggendo l’opera di Levi si ragionasse soprattutto di questo.

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Giovanni Tesio (1946), già ordinario di letteratura italiana presso l’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro, ha pubblicato alcuni volumi di saggi (per Interlinea, nel 2014, La poesia ai margini e nel 2020 La luce delle parole), una biografia di Augusto Monti, una monografia su Piero Chiara, molte antologie. Ha curato per Einaudi la scelta dall’epistolario editoriale di Italo Calvino, I libri degli altri (1991); più recentemente la conversazione con Primo Levi, Io che vi parlo (2016), e più recentemente ancora, presso Interlinea, un altro volume di considerazioni su vita e opera di Levi, Primo Levi. Ancora qualcosa da dire (2018). Sempre presso Interlinea un pamphlet in difesa della lettura, della letteratura e della poesia, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli? (2012), un “sillabario” intitolato Parole essenziali (2014), la raccolta di poesie Piture parolà (2018) e ha curato le antologie Nell’abisso del lager (2019) e Nel buco nero di Auschwitz (2021). La sua attività poetica, dopo esordi lontani, è sfociata nella pubblicazione di un canzoniere in piemontese di 369 sonetti, intitolato Vita dacant e da canté (Centro Studi Piemontesi-Ca dë Studi Piemontèis, Torino 2017), poi seguito da due titoli editi da Interlinea, Piture parolà (2018) e Nosgnor (2020). È stato per trentacinque anni collaboratore della “Stampa”, al cui inserto, “Torinosette”, collabora tuttora. Del 2018, uscito presso Lindau, il suo primo libro narrativo, Gli zoccoli nell’erba pesante. Fa parte del comitato scientifico del Centro Novarese di Studi Letterari ed è tra i fondatori e direttori della collana di poesia “Lyra”.

Giovanni Tesio

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