René Corona “L’alfabeto dell’alba” e la poesia che “riesce a cogliere l’imponderabile”.

l’alba bubbola/ le vecchie gambe sotto la stoffa leggera/ hanno qualche esitazione/ gli uccelli del mattino presto intonano/ l’inno quotidiano/ i cani giocano a guardie e ladri/ e la luna spezzettata fa l’occhiolino/ alla stella polare. Versi di René Corona scelti per introdurre la lettura del suo L’alfabeto dell’alba (Book Editore poesia, 2021), un volume prodigo di riferimenti, luce, immagini, fantasticherie, sapienza, inventiva, orchestrate da eloquente musicalità. “La poesia di René Corona è nostalgia e magnificenza, distensione e accoglimento, mossa dal gusto della scoperta e libera da costrizioni o pregiudizi di valore. Ogni verso contiene in sé un’esistenza, una qualità degna di rappresentare l’uomo: perfetta coincidenza di vita e poesia”, scrive Daniela Pericone nella nota introduttiva. 

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “L’alfabeto dell’alba”?

Intanto ti volevo ringraziare per l’invito a quest’intervista, per la tua gentilezza e per il lavoro denso e ricco di spunti che svolgi attraverso il tuo sito poetico. La tua prima domanda mi ha riportato alla memoria un fatto occorso in un’altra vita, tanto tempo fa. Un giorno ho ricevuto una lettera da parte di un poeta quebecchese al quale avevo spedito alcune liriche per avere un suo parere, e ricordo che nella sua risposta c’era una frase che mi colpì e che, contemporaneamente, mi ferì: in pratica mi chiedeva qual era lo scopo della mia poesia, cosa volessi dire. Rimasi di stucco perché pensavo di essere stato chiaro nelle mie scelte tematiche. In realtà, capii più tardi quello che Fernand Ouellette voleva dirmi (o insegnarmi). Allora pensai, che, certo conoscevo le costruzioni architettoniche di Baudelaire e di Proust, ma (tutte proporzioni mantenute) ero convinto che se ci fosse stata un’idea iniziale, sarebbe poi stato il caso, il caos del divenire, a tracciare il reale percorso dell’opera. Ero un po’ presuntuoso, e, lo confesso, punto dalla risposta del poeta. Comunque, non ci fu poi momento creativo nel quale non pensassi a quelle frasi. Così, per tornare alla tua domanda, ricordo confusamente che il primo albore dell’idea dell’Alfabeto nacque dalla raccolta precedente, in una mattina in cui mi ero recato a passeggiare con i miei cani sulla spiaggia e dall’alto vidi giù, sulla rena, delle alghe che sembravano aver tracciato – così scrissi poi nella lirica composta “art poétique” (La conta imprecisa, p.35) – “zigzaganti geroglifici del mare / una sillaba dietro l’altra”.

Poiché continuavo a passeggiare con i miei cani o in spiaggia o sulla collina (quando non c’erano quei maledetti cacciatori), mi accorsi di uscire sempre prima, quando ancora era buio, e così ripensai a quella visione di alghe attorcigliate. Se nella poesia “art poétique” adoperavo il verbo sfruculiare, in quella mattina pensai che il verbo più idoneo sarebbe stato piuttosto sfruconare, – anzi mentalmente “sfruconare per decifrare”-, ovvero per meglio decifrare tutti quei messaggi presenti nella natura, che questa generosamente offre agli uomini. Scritture antiche e nuove che potevano far nascere lettere per creare un alfabeto che supponevo insolito e poetico.

Diciamo che la miccia della creazione è stata un po’ lunga (qualche mese, quasi un anno) e poi la scintilla è apparsa proprio all’alba. Nel momento esatto del passaggio tra il buio e la luce.

In che modo la vita diventa linguaggio?

Forse per questa domanda ti riferivi a quello che Daniela Pericone ha scritto nella sua nota a fine libro. Daniela, con quella considerazione, sfiorava indirettamente un argomento antico come il mondo, quello dei vari generi di poesia (confessionale, ermetica, ecc.).  Man mano che componevo questo libro, andavo, l’ho già detto, a passeggiare con i cani quando ancora era notte, e poiché quest’operazione era quotidiana, frequentavo o meglio passeggiavo in due paesaggi diversi tra loro, pur essendo nella stessa geografia fisica e mentale, ma profondamente diversi. Ogni volta camminando, il ritmo dei passi (anche qui radicalmente differenti tra sabbia e erba) mi suggeriva cose che non avevo ancora colto, visioni che si appropinquavano (lo so che questo verbo fa sorridere – chissà perché, probabilmente perché desueto, antico, ma lo trovo realisticamente perfetto), accalcandosi, come viaggiatori trafelati, negli anni passati, al portillon del metrò parigino. Ogni paesaggio apparteneva al mio quotidiano, alla mia vita di ogni giorno, insieme ai cani e ai miei pensieri.

Per citare l’eterno Baudelaire, sono le «confuses paroles» dei « vivants piliers » che attraversavo ogni volta differentemente, anche timidamente, come a voler non disturbare quegli sguardi familiari. Ecco, quelle parole inizialmente confuse quando prendono forma sulla carta diventano linguaggio del momento esistenziale appena trascorso, ovvero l’esperienza vissuta tradotta in parole.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Credo di aver già risposto alla tua terza domanda, indirettamente, nella seconda risposta. Quell’invalicabilità reale della natura (dico reale, perché quello che fanno i vari umanoidi distruttori della natura con macchinari diversi non è reale, bensì surreale, grottesco; il vero reale è nel segno dell’umanità: “La nostra vera vita, scriveva Proust nel Tempo ritrovato ,è “ la realtà così come l’abbiamo sentita”),  viene fissata solo sulla carta diventando così tangibile. E quindi la poesia, certo, andando al di là delle cose, dei paesaggi, dello sguardo, riesce a cogliere l’imponderabile, l’inafferrabile. L’essenza. Mario Benedetti, il poeta uruguayano, scriveva: “La poesia si assume l’invenzione del reale.”

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

La forma poetica, sonetto o terzina, ballata o quartina, disegno (calligramma, acrostico ecc.), che si tratti di metrica regolare o irregolare (ma cosa c’è di più regolare dei versi bianchi?), di versetto, di prosa poetica o di versi, senza dimenticare il ritmo, le rime, insomma tutto quello che la morfologia poetica offre in sé, più che verità, connota significato.  

Non so perché ma la parola verità è una parola che spaventa, mi fa pensare alla fine del mondo, ai profeti, ai predicatori fanatici, persino alle varie sette o dittature; tu giustamente l’hai messa tra virgolette come per prenderne un po’ le distanze. Temo coloro che hanno la verità sulle labbra (la famosa bocca della verità romana, inquietante prima di far scivolare la mano dentro, e poi il timore di cosa possa accadere?) e un componimento poetico nel suo insieme (forma e contenuto)  non dovrebbe preoccuparsi di verità ma solo di bellezza.  Ma forse quelle virgolette stavano a significare bontà del componimento?

Secondo me, ogni passo fatto nella direzione di una scelta formale da parte del poeta (ma vale anche per il prosatore o il traduttore, per il musicista o il pittore) in un territorio che vorrebbe essere neutro, come una terra di nessuno del creare, ma che, per forza di cose, non lo è, diventa un territorio dove appunto tutto può accadere. Di solito, si crea per tendere verso qualcosa che possa anche suggerire nel suo insieme che tutto il lavorio compiuto deve necessariamente portare a qualcosa di nobile, di alto. Fosse anche soltanto una macchia d’inchiostro sulla pagina. Si tratta di verità? Di bontà? Forse, perché no, se in quel momento creativo (macchia, gioco di parole o altra leggerezza o semplicemente lirismo) il misfatto si è compiuto spontaneamente.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Le famose ricette con gli ingredienti. Credo che leggere sia la cosa più importante, leggere il più possibile i diversi poeti, del passato, contemporanei e le varie poetiche. Poi il fare, non alla Boileau (quello vale per i refusi), ma piuttosto alla Valéry, una volta che le divinità hanno suggerito il primo verso. Ascoltare principalmente quello che il mondo ci racconta silenziosamente. Ma soprattutto, per citare Queneau basta qualche parola amata per scrivere una poesia, e poi  è indispensabile la voglia di scrivere, il desiderio profondo: « Bon dieu de bon dieu que j’ai envie  d’écrire un petit poème » e poi, sempre Queneau che qui cito tradotto (da me): “Prendete una parola  ma anche due / fatele cuocere come uova / prendete un pezzettino di senso / e poi un gran pezzo di innocenza / scaldate a fuoco lento / al fuoco lento della tecnica / versate la salsa enigmatica / cospargete qualche stella / un po’ di pepe e poi svignatevela // dove volete arrivare? / A scrivere / davvero? a scrivere??”

E qui, indirettamente, ritorniamo a quello che mi aveva scritto Ouellette. Il consiglio è che si vuole scrivere, si deve insistere, magari lasciare cuocere al fuoco lento dell’esistenza. “Écrire, écrire, il faut!” scriveva imperativamente Roger Laporte.

Pensando alla tua poesia “feuilleton”, ti chiedo: qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia? 

Personalmente, ma credo che questo valga per molti, la poesia mi ha salvato la vita. Anche nei momenti più difficili (e nella vita di un uomo sono innumerevoli) leggere un poeta mi ha dato la possibilità di andare avanti. Quando si viene sradicati, scoprire che nella nuova lingua che si impara ci sono dei poeti che capiscono il profondo tuo malessere, non può che giovare al bambino, all’adolescente ma anche all’adulto. Come l’esergo del Petrarca che dice che la vita fugge senza arrestarsi nemmeno un’ora, non c’è assolutamente il tempo per rimandare: gli affetti, il fare, le cose importanti, il guardare, l’ascoltare gli altri, la tenerezza, la gentilezza, l’attenzione, il rispetto, tutte parole importanti. Anche se procrastinare è la cosa più facile, dobbiamo farci portatori di questo bagaglio riempito da tutti questi sentimenti, e “comporre il seguito”. Henri Michaux diceva che “la poesia rende l’inabitabile abitabile, l’irrespirabile respirabile”, è proprio così: e aggiungerei, rende la vita sopportabile o per parafrasare Michaux, l’insopportabile sopportabile.

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “L’alfabeto dell’alba” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

La scelta non è stata facile, come puoi immaginare, ogni momento poetico rappresenta una tappa, vitale e necessaria, ancorata profondamente nella mia memoria. Comunque alla fine ho scelto:

 

creature marine

« Écrire est un acte d’amour. S’il ne l’est pas il n’est qu’écriture. »
Jean Cocteau, La difficulté d’être

 

l’ombra della mano sul pallido scoglio
cartaceo
attende la parola d’ordine per poter penetrare
nella foresta semantica
nella fortezza del silenzio
a secondo del suono gallico o italico
si prenderà una strada o l’altra
e la scrittura avvolgerà i minuti catturati
e il sorriso del benessere si spiegherà
sulla pagina

il profondo mistero che spinge matita o penna
verso il biancore infido
rimarrà tale finché la voce potrà lasciarsi
incatenare
dalla frenesia dell’immaginazione

le voci della risacca conoscono alcuni
segreti
ma li tengono per sé
ci deve essere qualcos’altro
grida il vento all’uccello marino
che vola verso l’orizzonte

Questa lirica appartiene alla seconda sezione inseguire le chimere dell’abbiccì che, come suggerisce il titolo, è la sezione dei vari tentennamenti creativi. C’è una cosa che amo molto in poesia, ovvero la sovrapposizione di differenti momenti temporali e umorali, passato-presente, fantasia-banalità, tropo-luogo comune, ecc.  In qualche modo, sovrapporre è la metafora delle stratificazioni esistenziali e umane. Qui il primo verso regalatomi dagli dei nasce dalla carezza fatta ad uno scoglio. Abbracciare alberi, accarezzare sassi, scogli o anche fiore o filo d’erba vuol dire, talvolta, anche abitare poeticamente il mondo, comunicare la propria presenza non invadente (almeno lo si spera) agli esseri silenziosi che ci circondano, agli amici sconosciuti per citare, Jules Supervielle. Così a quella carezza reale nell’oscurità del dilucolo si sovrappone l’atto di scrivere e lo scoglio (talvolta ruvido, irto, complicato, inafferrabile), diventa lo scoglio della pagina bianca. Quell’attesa – che io chiamo, parafrasando Condillac, il pensiero pre-poeticante – non è la favola dell’ispirazione, ma è l’attesa di un déclic di materia ma anche una spinta propulsiva – verbale affinché le prime parole che nascono nel cuore e nella mente possano, poi, permettere l’apertura delle ali, il volare alto, o anche radere il suolo: dipenderà dal risultato, comunque sia.

Ipertestuale è la presenza della foresta dei simboli baudelairiana che qui, più banalmente, è diventata semantica ma è anche la fortezza inespugnabile degna di un Dino Buzzati o di un Kafka, immersa nel silenzio profondo che ti permette il meditare, via dalla pazza folla, e infine il creare. Si può creare anche nel caos, nessuno lo mette in dubbio, ma la giusta distanza con gli eventi, avvenimenti, sensazioni, emozioni, solo il silenzio te la può dare. E da quel silenzio può nascere la parola che nel mio caso può variare a seconda delle sinapsi emotive (i nostri file più intimi) italiana o francese (qualche volta dialettale). Nell’indefinito del verbo, “si prenderà”, vi è non soltanto l’indecisione ma anche la presenza di altro (musa, bagaglio a mano – anche se culturale -, malinconia?), solo allora capisco quale sarà la direzione da prendere. La scrittura allora, in quel prezioso tempo, si lascerà attrarre dalla pagina bianca dell’esitazione (l’esitazione tra senso e suono di Valéry) e diventerà momentaneamente certezza.

Rimane comunque il fatto che non sapremo mai qual è il motivo recondito per cui si scrive o non si riesce a scrivere: ecco la vera ragione di questo perpetuo tentennare. È una specie di perpetuum mobile che, per antonomasia, non si arresta mai. Altra presenza ipertestuale, con il biancore mallarmeano che, qui, diventa infido. Non sai mai come andrà a finire. E di nuovo una sovrapposizione frenesia-quiete.

Dal momento in cui non riesci a capire il motivo della scrittura (fare una cosa senza capirla è stimolante ma alla lunga può stancare) ascolti il mondo che ti circonda, l’universo, nel mio piccolo le stelle se ci sono, o le nuvole, la luna e ovviamente tutte quei bisbigli che la risacca e la collina ti offrono. Il mare metafora (quasi una catacresi) della pagina ancora una volta, ma nella realtà c’è pure un uccello marino (albatro, cormorano, gabbiano, forse un semplice passero sperduto?) che trasporta (metaforizza) il tuo dire incompiuto, imperfetto, verso la perfezione assoluta, irraggiungibile, la bellezza baudelairiana, la linea dell’orizzonte che inizia a stagliarsi nel passaggio oscurità-bagliore. Le creature marine sono quegli omuncoli neri che danzano sopra il mare della pagina bianca, l’oceanica schiuma del comporre.  Comporre mi avvicina a melodia, che è una delle spinte verso la quale cerco di tendere per ottenere risultati musicali attraverso paronomasie, parallelismi fonici, allitterazioni e assonanze come violoncelli all’unisono.

     Voglio solo aggiungere che l’esergo nasce poi spontaneo sulla lirica e questa volta è toccato a Cocteau. Nella nostra difficoltà di essere, solo l’atto d’amore riesce a placare la tua ansia e a regalarti un momento indimenticabile di pura creazione. Poi sarà il lettore a giudicare.

*

René Corona (Parigi, 1952) è docente di Lingua e Traduzione Francese presso l’Università di Messina. Ha pubblicato saggi in italiano e francese sulla storia della lingua, la sinonimia, la canzone, la traduzione e la poetica. Ha tradotto in riviste diversi poeti italiani, tra cui Gozzano, Caproni, Cattafi, Ripellino, Magrelli; poeti francesi: Paul de Roux, Kadhim Jihad Hassan, Yves Leclair, ha pubblicato la prima traduzione francese dell’Amaro Miele di Gesualdo Bufalino, e le prime traduzioni in italiano di Henri Calet  e nel 2020,  di  Alexandre Vialatte, Battling il tenebroso.

Tra le opere più recenti in francese, i saggi Le singulier pluriel ou «Icare et les élégiaques» (Hermann, 2016), Chansons et imaginaire . Pour une poétique fredonnée suivi du Cinoche pour tous (Aga-L’Harmattan, 2021); due romanzi, Faut pas faire de faux pas (La Vie du Rail, 2003) e L’hébétude des tendres (Finitude, 2012), e le sillogi poetiche L’échancrure du quotidien (L’Harmattan, 2017), Sortilèges de la retenue sous le bleu indigo de la pluie (Aga-L’Harmattan, 2019), Croquer le marmot sous l’orme (Aga-L’Harmattan, 2019), Nos dicos sentimentaux (Aga-L’Harmattan, 2021). E infine, ad Algeri: L’Arracheur dedans (Apic éditions). In italiano ha pubblicato i libri di poesia Compitare nei cortili (Puntoacapo, 2019), La conta imprecisa (Puntoacapo, 2019)  e L’alfabeto dell’alba (Book editore, 2021).

Sue liriche sono apparse nelle riviste « Europe », « Gustave », « Le Diable probablement », « Triages », « Serta », «In Aspre Rime», « Levania », Repères-Dorif », « Kikah », « L’EstroVerso », « Poesia del nostro tempo »,  « Rhegium Julii », « Laboratori poesia ».  Terzo classificato al Premio Gozzano-Il Meleto 2019; premio speciale “Una vita per la poesia” al Montano 2019 per Compitare nei cortili; Premio speciale Alba Florio al Rhegium Julii 2019 per La conta imprecisa; Premio della critica al San Domenichino 2021 per L’alfabeto dell’alba.

 

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