Michele Paoletti, “la poesia è un dialogo incessante”.

«Torneranno le giornate lunghe/ le corse dei bambini,/ la conta dei gradini da saltare./ Si faranno altri nidi sugli abeti/ e l’estate non chiederà il permesso,/ ma pioverà sole intorno/ per far fiorire qualche cosa dentro,/ un grumo, un fremito, un appiglio.», versi emblematici scelti da “Breve inventario di un’assenza” di Michele Paoletti, introdotto da Gabriela Fantato, pubblicato da “Samuele Editore” nella collana “Scilla”. Un libro, nato per inclinazione istintiva con l’esperienza universale della perdita. Un libro, acceso da uno sguardo composto e nostalgico su tutto quello che resta («ascolto gli oggetti respirare da lontano/ l’aria che muovono i ricordi/ quando si staccano da noi»), lucido e fiducioso su tutto quello che ha da ripetersi («la terra adesso si riposa/ lasciandosi rimboccare la coperta/ dal maestrale che ritorna»). La poesia di Paoletti risuona e conduce il lettore verso un percorso emotivo di riconoscimento, di immedesimazione. Leggendo ci si specchia nelle immagini («la mela mi fissa dal tavolo/ aspetta che il morso incida/ la scorza, aspetta il bianco/ dei denti contro la ruggine/ scura che i giorni lontano/ dal ramo hanno fatto fiorire») che, esatte, sollecitano intime e tensive “sonorità”.

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
La mia maestra elementare ci faceva leggere e imparare a memoria i testi di Garcia Lorca. La mia preferita era Memento (Quando morrò/ seppellitemi con la mia chitarra/ sotto l’arena.// Quando morrò/ tra gli aranci/e la menta.// Quando morrò,/ seppellitemi, se volete,/ in una banderuola.// Quando morrò!). I primi tentativi di scrittura nascono in seconda media, quando l’insegnante di lettere ci invitò a provare a comporre un testo poetico. Ricordo che scrissi una poesia che parlava di un mendicante. In quel momento fu come se si fosse rotto un argine, le parole erano praticamente incontenibili. Ho scritto moltissimo fino alla fine delle scuole superiori. Poi un silenzio improvviso, durato oltre 10 anni.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
La mia formazione scolastica è abbastanza in contrasto con la passione per la poesia. Ho studiato in un Istituto Tecnico Commerciale e mi sono laureato in Statistica. Tutto quello che leggo e che ho letto è frutto di una “formazione personale”, di consigli e di incontri. Il primo poeta a lasciare il segno è stato Giorgio Caproni a cui sono seguiti Amelia Rosselli, Sandro Penna e molti altri. A questi maestri della poesia affianco una continua lettura di autori contemporanei viventi. Maria Grazia Calandrone, Gabriela Fantato, Gian Mario Villalta, Milo De Angelis, Mariangela Gualtieri per citarne alcuni.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
So che mi ripeto ma devo citare ancora una volta Giorgio Caproni. L’intera sua opera poetica non deve essere dimenticata. É un poeta che ho letto durante l’adolescenza e che continuo a rileggere per la forza dei suoi versi, per l’universalità di ciò che dice.

GENERALIZZANDO

Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi, né che sia.
Soltanto ne conserviamo
– pungente e senza condono –
la spina della nostalgia.

(da Res amissa, Garzanti, 1991)

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Non esiste un momento preciso perché il tempo che ho a disposizione per la scrittura è qualcosa che non riesco a programmare. Da quando ho un figlio, il momento migliore è quello del suo riposo pomeridiano (nei giorni in cui non sono in ufficio). Tuttavia un’idea può circolare per giorni prima di essere tradotta in versi. Non scrivo in modo sistematico, alterno lunghi periodi di lettura a intensi momenti di scrittura durante i quali scrivo molto per poi lasciare tutto a decantare.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
In principio credo sia la necessità di rispondere ad una forma di urgenza. Partire da noi stessi, ascoltarci in maniera profonda, onesta, autentica. Per non cadere nella trappola del soliloquio, occorre però che la poesia passi attraverso di noi per aprirci lo sguardo verso il mondo e gli altri. La poesia dovrebbe essere quello sguardo sul mondo e sulle cose, un continuo ascolto, una cascata di domande che aprono porte. Un dialogo incessante.

Quando una poesia può dirsi compiuta?
Si potrebbe dire che una poesia non sia mai compiuta del tutto. In generale credo che una poesia sia compiuta quando riesce a consegnarci un messaggio preciso, uno sguardo, uno squarcio netto e profondo. Dal punto di vista strettamente tecnico credo che una poesia sia compiuta quando non si riesce né a togliere né ad aggiungere altro senza che il testo ne risenta in qualche modo.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Utilizzando strumenti comuni come le parole la poesia deve maneggiarle con estrema cura. Il lavoro di chi scrive dovrebbe essere quello di un continuo cesello sulle parole, un lavoro di estrema sottrazione proprio perché ogni parola risulti indispensabile alla costruzione del pensiero che quella poesia vuole esprimere.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
É difficile rispondere ad una domanda del genere. Posso azzardare a dire quale credo non debba essere l’incarico della poesia. In questi anni è diventato estremamente facile pubblicare un libro di poesia e ancora più facile è mettere i propri testi a disposizione degli altri attraverso ad esempio i blog o le piattaforme social. Questa continua esposizione della poesia rischia di impoverirla perché contrasta con la natura lenta e profonda del fare poesia. Fare poesia non è soltanto comporre versi più o meno efficaci ma è, almeno per me, una continua crescita attraverso l’incontro dell’altro. Nel mio percorso recente sono stati gli incontri ad essere fondamentali, per questo sono in continua ricerca di occasioni. Non tanto per leggere qualche mio verso ma per imparare dagli altri, siano essi grandi poeti o giovani autori. Ogni incontro è un arricchimento, questo per me è il dono più prezioso che la poesia riesce a darmi.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Tra gli autori che non ho citato nella domanda precedente ha un posto particolare Fernando Pessoa. Sui testi di Pessoa ho lavorato anche come “attore”, utilizzandoli nei laboratori teatrali e in diverse letture drammatizzate. Numerose sono le poesie di Pessoa in cui amo rifugiarmi. Riporto i primi versi di Tabaccheria (da Poesie di Álvaro de Campos, Adelphi 1993).

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.

Per concludere, ti invito a scegliere per i nostri lettori tre poesie dal tuo “Breve inventario di un’assenza”.

 

Tintinna qualcosa nella notte,
forse un grappolo di conchiglie
appeso alla grondaia.
la terra adesso si riposa
lasciandosi rimboccare la coperta
dal maestrale che ritorna
ad asciugare gli occhi e le lenzuola
dimenticate fuori.
Domani il rumore quotidiano
spingerà la vita un po’ più avanti.

 

 

Non dà sollievo stringere le labbra,
cucire la terra con le mani. I muri
gettano un’ombra sulle cose
rendendole più dure,
ne allargano i confini.
E sconfina lo sguardo oltre il cemento,
sul pavimento accanto
a cercare una luce che non trema.

 

 

É tempo che il cemento
faccia presa
che il metallo scarnifichi la terra.
Tempo di issare
bianche le pareti, le porte,
posare vetri e lamine d’acciaio.
la casa già vive nel sudore
di chi segue
le tracce sulla carta.
Noi arriveremo dopo,
intorno ai muri.

A riempire le stanze
di parole.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 6 maggio 2018, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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