Nel Canavese, ad Agliè, sorge una casa chiara e radiosa che sembra essere caduta dall’immobilità di un dipinto. È il Meleto, la residenza di villeggiatura del poeta Guido Gozzano.
“Villeggiare” – parola giovane, illanguidita da una posa lieve e che porta con sé l’acerbità del tempo perso – è esercizio tanto seducente quanto terribile. Villeggia chi? Il giocoso ragazzo, che brinda col suo domani vestito a lutto; la signorina, che specchiandosi nell’ovale di vetro fissa il riflesso di un’omonimia carnale; la famiglia, che col parentado, la foto della domenica, i piccoli gesti consueti celebra il vezzo delle abitudini conviviali sulla tavola apparecchiata.
Allora, in questo nonsenso di tempo del villeggiare-temporeggiare c’è uno sprazzo di assoluta lucidità, ed anche definitiva resa. Ugualmente, al vaglio della produzione poetica gozzaniana noi sostiamo e subiamo lo spreco di un’agonia continua che sta nelle cose quanto l’alfabeto di un cielo ignoto, un mistero consacrato alla sola libertà che le parole per un istante confortano, sfiorando.
Guido Gozzano, uomo dalla storia anagrafica effimera, è un poeta disobbediente, vano, dispersivo, impudente. Come ogni poeta? Non direi, non sempre perlomeno. I poeti sono diversi: per natura, occasione, stile, voluttà, disperazioni.
In Gozzano convivono i fascini dello spreco: la disobbedienza, ovvero l’essere fallibilmente o infallibilmente al di là della ordinarietà dei punti di vista; la vanità e la dispersione, cioè i contraccolpi sull’illusione della vita sempiterna; l’impudenza, la materia grezza che brandisce la fine della menzogna e vede davanti a sé il cuore dell’offesa come il frutto maturo di un’altra verità.
E questo convivere – questo tenere assieme i fascini torti di una sensibilità eccezionale – ricade sulla pagina in forma di vocazioni, di alberghi del pensiero, dove il crescendo dei desideri è intenso e inutile tanto quanto il passo del viaggiatore che decida di fermare il proprio cammino al cospetto di uno scorcio inatteso su cui divampano la grazia e i sogni.
Nelle vocazioni, così come nei sospiri arresi che spesso firmano gli epiloghi delle sue poesie, Gozzano dà l’impressione d’essere vicino, ma anche ugualmente estraneo, alla vita. Forse per l’assenza de l’immaginosa favola d’un Dio; forse per la triste rivelazione del soprabito goffo degli anni.
È nel perdutamente rise della Cocotte, nell’ingannare la tristezza con qualche bella favola, nel cangiar la terra in mare e il mare in continente che il Tempo gioca a far la cuoca poiché cucina a strati i suoi pasticci andati e li modella nella forma vana di certi oggetti paccottiglia, vittime inermi di una sola, ultima domanda: ma che bisogno c’è mai che il mondo esista?
In questo senso, le buone cose di pessimo gusto abusate negli anni come strumento ipnotico di interpretazione della poetica di Gozzano, non sono – limitatamente a esse stesse – il semplicistico simbolo di un sentimento poetico; sono invece lo spostamento dello sguardo del poeta sul mondo che, non essendo “necessario”, raccoglie il tentativo – quasi narcisistico – di fare presente e importante, malgrado la morte, il deperimento di tutte le cose.
Da questa apparente svalutazione della funzione della poesia (evidentemente non sufficiente a legare i fili di una giustificazione che spieghi, che narri, che perdoni la faccia mortale della vita), da questo estremo non-canto, si origina il radicale rapporto di Gozzano con la parola e con la letteratura; un rapporto più che consapevole, se pensiamo agli effetti: i suoi versi sono incentrati da una parte sul manierato messaggio di vacuità degli oggetti, dall’altra su una lambente “anaffettività”, non proprio esplicita, che predomina sul mondo e sugli altri e che si traduce in coscienza lucida, quando è lui stesso a scrivere: avevo un cattivo sorriso, ma non sono cattivo nella splendida poesia Il rimorso (16 marzo 1907). O quando, per eccesso di pena, stretta nella morsa di una morte imminente, la figura di una madre è infierita dal tempo, mentre lui, poeta nelle vesti di figlio, defunto in vita, è sulla via del rifugio, quella del sogno: ma lasciatemi sognare, ma lasciatemi sognare!
È il sogno che desta la vita, non viceversa. È l’effimera identità del sogno a prestare a Gozzano la rivincita sul Tempo umano, al punto che anche la sua tecnica linguistica formidabile si rivela custode di questo paradosso.
Cantare le cose ed assistere alla loro caduta nel baratro degli anni: è d’uso tra coloro che osservano troppo, sentono troppo, sopportano il mondo senza farlo gravare sulle spalle tenere del sonno altrui. La poesia ammette le possibilità che il mutevole corso delle cose, cadendo nel fondo del tempo, risalga successivamente, emergendo in superficie, dove le forme diventano puri emblemi di una scoperta, nuove parole, significati che aprono alle vie della storia individuale e collettiva.
Così comincia la poesia, così inizia quella del “personaggio” Gozzano: scrittore anche di fiabe, egli è come il protagonista di una delle sue lievi narrazioni, colui che ama passeggiare sulle costole della memoria, dove si rifrangono le certezze della sorte: siano benigne, siano maligne. E poiché v’è verità nel giovane mai invecchiato, poiché vi è in lui la carezza degli Dei, ogni verso riletto di Gozzano è uno strappo all’esuberante giovinezza, la quale, pur sbocciando, svapora nell’aroma triste di quello che sarebbe potuto essere e mai è stato.
Un doppio gioco: essere il poeta che si appresta alla letteratura, non essere che quel coso con due gambe detto guidogozzano. Un re e un reietto; una crasi nel patrimonio di versi che la poesia edifica, anno dopo anno, nella solitudine di chi muore, tenacemente, per troppo amore verso la vita.
Leggere Gozzano è fermarsi in una posa di gentilezza che sui calendari conosce date remote. È sostare là dove la gota si abbandona alla ringhiera, sulla via della salute. Cicalecciare, prendere un the. Sentire il fruscio, i balzi, le ruote della bicicletta che volgono sul tempo di Grazia, la Signorina; l’odorosa traccia di una gonna, i corpi di cinedo, la seta ben tesa dell’azzurro infinito del giorno. È capire fino in fondo che un poeta è un bambino, rivelatore innocente di una continua disfatta del mondo rispetto alla Bellezza che può – deve, invece – addentrarsi nell’umanità, resuscitare sulle macerie, reintegrare il morbo della Felicità, poiché è di questa speranza che vogliamo nutrirci: assentire alla vita, benché essa ci voglia spesso male, benché abiti in un arredo che dà malinconia.
Perché Gozzano è anche questo: nelle minute descrizioni delle case che accarezzano, con la delicatezza di una veletta, la figura bambina dei suoi sospiri, risalta quel triste declino che è nelle rughe del quotidiano e che fa degli uomini i mesti esecutori di un’eredità rassegnata. Il giogo della vita ne è anche, perdutamente, il gioco. E viceversa.
Gozzano si distende all’ombra dell’antico Meleto. Si arrende da lontano alle figure integre che alloggiano nel quotidiano: il Dottore, il signor Sindaco, il farmacista. Figure che col loro titolo rispettabile e onorato trasferiscono il lindore spiccio di quel che un poeta non avrà mai: una vita alla piccola conquista, una vita siglata dal semplice e schietto scorrere dei giorni.
Al poeta non tocca vivere la serenità pulita di chi attraversa le mattine e i pomeriggi, accontentandosi delle semplici mansioni sufficienti ad appagare.
Il poeta sa d’essere destinato a una vita di vagabondaggio, incline a rincorrere, anche in fondo all’ultima voce di se stesso, Qualcosa che non si fermerà a lungo, perché il Tempo governa l’imminenza di ogni fuga. Il poeta Gozzano sa che tutta la vita è un favoleggiare di date, un posto così estremo, fatto di eventi, certamente, ma anche di non-eventi polverizzati da una corrispondenza di malinconici sogni di semplicità, bontà, lindore, spaesanti e vaganti, come visi di amici persi.
È lui stesso a congedarsi da noi, presagendo la sua morte precoce nell’opera I colloqui. Lui stesso, il poeta giovane che avrebbe voluto forse trovare rifugio e permanenza in un’antichissima villa remota del Canavese, sospirando nel largo riposo di un verso, sente che la vita è una signora agghindata, passeggera in carrozza di una tratta fissata fin dal principio.