Niccolò Nisivoccia, “Quasi una cosmologia”, per “indagare la relazionalità emotiva fra noi e il mondo”.

tre domande, tre poesie

 

“Il titolo è un omaggio ai frammenti filosofici di Eugène Minkowski, Verso una cosmologia. Alla preposizione che indica direzione e attesa, Niccolò Nisivoccia sostituisce però l’attenuazione insatura del Quasi. Come chiamare questi componimenti brevi in cui traspare l’impronta di chi fin da adolescente – lui come me – ha avuto il dono di leggere René Char? Per continuità d’omaggio potremmo chiamarli frammenti poetici, chiarendo però due cose: che l’insieme dei frammenti forma un discorso, ebbene sì amoroso; e che questo discorso cancella il confine che separa la poesia dalla prosa. C’è un altro confine che viene superato: quello tra la parola e il corpo. Nell’incertezza cosmologica del Quasi, infatti, Nisivoccia non ha dubbi su cosa porre al centro del suo cosmo: «il corpo, al centro della scena: in ogni sua gioia, in ogni sua pena». Fino a immaginare l’inferno, che tutti noi pensiamo come l’abisso dei supplizi fisici, come luogo invece di assenze sensoriali e condanna all’impercepibile. Queste poesie (questo poema?) sono una rivelazione progressiva e magnetica di sensi abitati da pensieri e di pensieri che si fanno corpo, un testo di parole che sono al contempo recettori tattili e sinapsi.”

(dalla prefazione di Vittorio Lingiardi)

 

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio, qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Quasi una cosmologia”?

La scintilla da cui nasce la mia raccolta è dichiarata, sottotraccia, nel titolo stesso: un omaggio a quel libro meraviglioso che è “Verso una cosmologia” di Eugène Minkowski (uno psichiatra francese del ‘900). Nel suo libro Minkowski indaga i fenomeni psichici attraverso la relazione fra l’io e il mondo che ci circonda: l’io e il mondo, ci dice Minkowski, costituiscono un’unità dialettica, dovrebbero vivere in una reciproca alleanza. Siamo quello che siamo proprio come frutto di questa interazione; non siamo separati dal mondo, ma ne siamo parte. Ne siamo parte anche se non lo sappiamo: al di là di qualunque consapevolezza razionale, di qualunque lucida comprensione degli eventi, delle cose, del senso della Storia (individuale o collettiva che sia), del senso del nostro abitare il mondo. Minkowski parla non semplicemente di “mondo”, ma di “cosmo”, ed è per questo che il suo discorso prende il nome di “cosmologia”: perché allude a tutto ciò che ci circonda. Tutto ciò che ci circonda, che ci tocca, che ci sfiora, che vediamo, che sentiamo contribuisce a fare di noi quel che siamo. Suoni, profumi, visioni, vibrazioni, movimenti: niente può essere escluso. E parlare della vita di una singola persona, dice Minkowski, equivale né più né meno che a parlare del senso del cosmo.

Nel titolo del mio libro mi sono limitato a sostituire al “Verso” di Minkowski, “Verso una cosmologia”, una preposizione “insatura”, come la definisce Vittorio Lingiardi nella prefazione (mi piace molto questa definizione, “insatura”): al posto di quel “Verso” ho messo un “Quasi”. Ma l’idea è la stessa: indagare la relazionalità emotiva fra noi e il mondo. Ed è lo stesso anche il presupposto: che non esista un “io” al di fuori della sua relazione emotiva e sensoriale con il mondo che lo circonda, che non esista un “dentro” senza un “fuori”, che non esistano assoluti senza altre esistenze che il nostro “io” lo contengano e lo facciano risuonare.

Indagare questa dimensione relazionale fra noi e il mondo, in altri termini, non è un modo come un altro, per me, per parlare di ciò che siamo: ma a ben vedere è probabilmente l’unico, proprio perché non esiste un “io” che non si nutra della relazione innanzitutto emotiva e sensoriale con il mondo che lo circonda. Un altro grande psichiatra, Otto Kernberg, di recente lo ha spiegato molto chiaramente: la psiche nasce attraverso ciò che dall’esterno, dal fuori, filtra attraverso i sensi verso l’interno, dentro di noi. Il mondo è quello che vediamo con i nostri occhi, che tocchiamo con le nostre mani. È attraverso gli organi di senso, dice Kernberg, che l’esterno filtra nell’interno: il nostro mondo interno, il nostro “io”, si fonda sulle sensazioni; lo psichico non nasce da sé stesso, da solo, ma deriva dal biologico.

Tutto questo spiega la centralità, nel mio libro, della presenza del corpo. Se questa “Cosmologia” ha un protagonista, un attore principale, questo attore in effetti è il corpo. Nei primissimi frammenti l’ho scritto quasi programmaticamente. Nel primo dico: “È tutto nei sensi, è tutto carnale”. Nel secondo: “Il corpo, al centro della scena: in ogni sua gioia, in ogni sua pena”. E lo stesso Lingiardi, sempre nella sua prefazione, ne ha parlato come dell’elemento caratterizzante del libro: ha parlato, fra l’altro facendomi l’onore di citare un poeta per me fondamentale qual è René Char, di “pensieri che si fanno corpo”. Ed era inevitabile, date le premesse: perché appartengono al corpo gli organi di senso, è al corpo che rispondono i sensi, e quindi parlare dei sensi corrisponde giocoforza a parlare del corpo, così come parlare del corpo corrisponde a sua volta, non meno necessariamente, a parlare dei sensi. È nel corpo che tutto si tiene: e quindi non poteva che esserci il corpo, in definitiva, al centro del discorso che volevo svolgere.

Riporteresti una poesia (di altro autore) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

Se dovessi citare i poeti fondamentali della mia vita, ne citerei almeno due: Char, che del resto ho già citato prima, dicendo del piacere e dell’onore che mi ha fatto Vittorio Lingiardi richiamandolo nella prefazione; e Sandro Penna. Loro in primo luogo, insieme a molti altri naturalmente.

Spiegare perché Char e Penna, in particolare, sono per me fondamentali richiederebbe un lungo discorso, o quantomeno mi invoglierebbe a farlo. Mi limito a questo: quanto a Char, perché la sua poesia riesce a tradurre l’inafferrabilità del mondo perfino sotto l’aspetto estetico – così rotta, frastagliata, frammentaria com’è. Maurice Blanchot lo ha detto benissimo: non c’è raccolta di Char che non costituisca “un modo ogni volta diverso di accogliere l’ignoto senza trattenerlo”, ed è proprio per questo che la sua poesia (è sempre Blanchot a dirlo) va intesa non come un poema “incompiuto” ma come “un altro modo di compimento: quel modo che è in gioco nell’attesa, nell’interrogare o in una affermazione irriducibile all’unità”. I versi di Char sono spesso definibili come “frammenti”, più che come poesie vere e proprie; e non è un caso che anche a me piaccia definire nello stesso modo, come “frammenti”, i miei versi.

Quanto a Penna … beh, l’importanza di Penna per me è motivata anche solo da un fatto personalissimo, autobiografico. E cioè anche solo dal fatto che è stato il poeta che mi ha fatto amare per primo la poesia – ed ero poco più di un bambino.

Di Char riporto questo “frammento”: “Vivre, c’est s’obstiner à achever un souvenir?”. Credo non sia stato mai tradotto in italiano. Potremmo tradurlo così: “Vivere, è ostinarsi a portare a compimento un ricordo?”.

Di Penna riporto questa poesia, di due versi: “Io vivere vorrei addormentato/entro il dolce rumore della vita”.

 

Quasi Una Cosmologia di Niccolò Nisivoccia, Interno Libri, 2021.

 

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro, “Quasi una cosmologia”?; di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Scelgo queste:

“È tutto nei sensi, è tutto carnale. Questa terra, questo mare. Questa luce e la sua ombra, questo vento, questa croce. La tua voce. Il vedere, il sentire, l’assaporare. Il toccare, l’odorare. Il passato, il futuro, il ricordo di te, la nostalgia di ciò che ancora deve accadere. La solitudine, l’assenza, la presenza. Questa stagione che brucia, che preme, o questa che passa, che scorre, che non viene. Il tuo ridere, il tuo piangere. La gioia, i suoi lampi, il dolore, le sue pene. L’ebbrezza di un momento, o lo smarrimento. Il tempo. Anche il pensarti, il pensare. È tutto carnale – anche il bene, anche il male.”

“Dentro una mattina di luce che filtra dalle persiane. Quasi più buio che luce. Fuori, il bosco. È l’età ancora dell’inconsapevolezza, della pura presenza, di un gesto, di un tocco. È l’età in cui la pura presenza, un gesto, un tocco ancora bastano, ancora non hanno bisogno di altro. Avverti una presenza, vieni sfiorato da una carezza. È l’inizio di una memoria, è l’inizio di una storia.”

“Siamo corpi immersi nella Storia.”

La prima, in particolare, è una specie di manifesto del libro, quasi una dichiarazione d’intenti enunciata in apertura (e si tratta infatti del testo con il quale il libro si apre). Vale qui quello che dicevo prima: ho voluto dichiarare fin da subito che al centro di questa raccolta c’è il corpo. Il corpo come fonte di conoscenza. Per dire, in definitiva, che è il corpo prima ancora delle mente a sperimentare la vita. È sul corpo, prima ancora che nella mente, che sentiamo le cose. È attraverso il corpo, prima ancora che attraverso la mente, che entriamo in contatto con la vita. Ma di più: è anche attraverso il corpo, attraverso i sensi, che ragioniamo, che maturiamo i nostri pensieri. Potremmo immaginare quasi un principio epistemologico: si pensa con gli organi di senso, oltre e prima ancora che con la testa. In termini poetici lo esprime perfettamente un verso di Pessoa: “Ciò che in me sento, sta pensando”. Cosa vuol dire Pessoa se non esattamente questo? Che pensiamo anche attraverso i sensi, prima di tutto attraverso i sensi, e quindi attraverso il corpo; e che quindi anche i sensi, anche il corpo, a loro volta, pensano, sanno pensare. Anche i sensi, anche il corpo hanno un’intelligenza.

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Niccolò Nisivoccia, vive e lavora a Milano, dove è nato nel 1973. Avvocato e scrittore. Collabora stabilmente con varie riviste specializzate e, anche su argomenti culturali e come editorialista, con Il Sole 24 Ore e con il manifesto. È autore di tre raccolte di frammenti poetici: Sulla fragilità (Le Farfalle, 2019, con nota introduttiva di Eugenio Borgna), Variazioni sul vuoto (Le Farfalle, 2020, con nota introduttiva di Nadia Fusini) e Quasi una cosmologia (Interno Libri, 2021, con nota introduttiva di Vittorio Lingiardi). È inoltre autore del saggio La rinascita del debitore (Il Sole 24 Ore, 2020) e coautore, con Adolfo Ceretti, di Il diavolo mi accarezza i capelli (il Saggiatore, 2020).

 

 

 

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