Graziano Tessarolo, Ciclamini bianchi (2007)
 
 
In un angolo di stanza
osservo la foto dei miei nonni
e all’istante,
in fondo al mio cuore,
la mia infanzia con loro.
I ricordi richiamati alla memoria
accorrono orgogliosi di essere spiegati,
di nutrire questo mio tempo presente
con il meglio del mio passato.
E mi rivedo così
tra gli ulivi e il grano,
le corse nella “saia” dell’acqua
mentre il nonno zappava;
io e la nonna sul sentiero del pozzo
con la quartara dell’acqua
e “veni ‘ccà ca ti cuntu na cosa”!
I miei insonni pomeriggi fra i rami del “prunu”
o del melograno a osservare le cicale;
le cene poi,
consumate sul “pisolu”
davanti alla casa con i pipistrelli in festa;
e il nonno tra una cucchiaiata e l’altra,
di ceci o di fave,
mi presentava le stelle
e leggeva negli umori del cielo,
“dumani agghiorna u suli, o fossi chiovi su u vento cancia”.
Ricordo l’asino, che andava a memoria
per la strada “do cruscenti”
verso la casa da “gnà Mara”,
nell’altra fattoria in fondo alla “carrata”,
là, dove il tramonto dipingeva di rosso vino
“i canali” del tetto.
E la cavallina
con me sopra a cinque anni,
aggrappata alla sua criniera,
in quella corsa d’amore verso la mamma giumenta,
e mentre i due musi si scambiavano carezze
io piangevo di gioia
perché mai come allora gustai la libertà di andare,
solamente.
Ricordo ancora, e l’emozione mi prende,
le mie colazioni all’alba, con pane e fichi
e il succo dei gelsi neri
sulle mie mani o sul “mandali” di nonna Grazia,
che per questo rideva
e poi mentre l’aurora abbracciava di luce
la nostra “massaria”
respiravamo aria vera,
gli odori, dell’acetosella misti a rugiada,
dell’erba bagnata
e del gelsomino avvinghiato al muretto di pietra.
E poi ebbi una colomba per amica
che quando morì,
non capivo la morte
e per giorni interi la lanciai in aria
perché volasse ancora!
E la nonna rideva,
rideva, rideva sempre;
la zia fischiettava, lo zio suonava la fisarmonica
nelle ore di “forti caudu”, il nonno inventava barzellette
ed io, giocando sopra il letto, ero semplicemente felice.
E poi ancora,
il nonno nelle lunghe giornate d’estate, cercava “oria”
e così saliva a dormire in cima alla scala
di “don Pippinu Ruccedda”, il feudatario.
Per cuscino un “canali”, per coperta una vecchia giacca
e intanto appoggiava le membra stanche sul nudo cemento.
A “tannura” era il cuore domestico
dove, allo scoppiettio dei sarmenti
si univano le notizie di campagna
che il vento portava o qualche lavoratore a giornata
raccontava a questo e a quello.
Tutto era libertà e semplicità;
nelle fredde mattinate d’inverno
mi scaldavo le mani con le uova di galline subito prese,
e il latte appena munto arrivava in cucina ancora schiumato.
Com’era bella, poi, la sera, al buio;
la porta era così squinternata
che i raggi di luna entravano a fiotti
illuminando a tratti le vecchie coperte rattoppate;
sul tavolo, il vecchio lume a petrolio,
la nonna cuciva e il nonno faceva il resoconto del raccolto;
io, nel letto ascoltavo
e poi sognavo,
sognavo semplicemente che arrivasse presto la mattina
per ritornare a rincorrere le farfalle con le code,
a prendere i grilli con le mani
e ad ascoltare il nonno che mi insegnava tante cose;
era saggio come lo sono oggi i saggi indiani;
mi diceva i proverbi, mi mostrava il suo vecchio atlante,
mi insegnava come amare le piante.
Oggi il nonno non c’è più
ma solo per gli altri,
perché lui è parte di me,
e lo richiamo ogni volta che
ho bisogno di pensieri positivi,
di sapere che la vita è coraggio,
e tutto è possibile se lo si vuole veramente!
La nonna, ancora in vita,
ha nel sorriso, ormai un po’ triste,
la sintesi delle mia infanzia felice.
E adesso delle lunghe passeggiate con lei, rimane
la traccia del mio cammino alla ricerca dei valori:
la semplicità e la gioia delle piccole cose,
l’amore per la natura
e la voglia di offrire al futuro
la linfa di questo mio magico passato.

 

 

(l’EstroVerso n.3 / 2012)

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