N’zuppilu n’zuppilu. Un contrappunto polifonico di straordinario interesse

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Dalla prima opera poetica del poeta Giuseppe Condorelli (Criterio del tempo, uscita nel 2007 per I Quaderni del Battello Ebbro) sono passati quasi dieci anni. N’zuppilu n’zuppilu è la prima raccolta dell’autore in dialetto siciliano, la sua “lingua madre”, e ha trovato spazio nell’ottimo catalogo de Le Farfalle, casa editrice gestita con mestiere e passione da Angelo Scandurra, nume tutelare della costellazione poetica isolana degli ultimi anni. A quest’ultimo va il merito di aver sposato con entusiasmo l’idea innovativa dello stesso Condorelli: creare un volume trilingue, in cui, all’originale in dialetto, si accompagnano una traduzione in lingua italiana, realizzata dall’autore e una – fatto pressoché inedito – in inglese ad opera di Maristella Bonomo e Andrew Brayley (il libro ha infatti anche il titolo in inglese Wet through). Ne è venuto fuori un contrappunto polifonico di straordinario interesse; ad affiancarsi non sono solo tre versioni in lingue diverse dello stesso testo, ma sono tre vere e proprie voci indipendenti. Eppure la raccolta ha bisogno di essere fruita nella sua lingua originaria. Perché il dialetto di Giuseppe Condorelli ha lo spessore del genuino e dell’autentico, bypassa la ragione e passa direttamente dal cuore. A differenza delle versioni in italiano e in inglese, rimane sospeso in una dimensione extralinguistica, in una forma che aderisce caparbiamente alle cose e ai ricordi. È la lingua ancestrale che precede la vita e che rimarrà alla fine di essa. Credo che sia questo che vuole dirci l’autore quando rimarca il fatto di aver concepito queste poesie direttamente in dialetto – fatto insolito per lui che poeta dialettale non è –, di essersele ritrovate già pronte, come se fossero state lì da sempre, di non aver dovuto far altro che trascriverle: sono testi che vengono da un tempo che non è tempo, scolpiti nello spazio della memoria, possono esistere solo in una lingua senza passato, fatta di eterno presente (Simulia./ Mi vagnu./ N’zuppilu n’zuppilu./ Me matri/ mi fa ‘nzinga/ di trasiri:/ no so munnu/ non chiovi/ mai./ Sechita – mi dici – Pioviggina./ Mi bagno./ Goccia a goccia./ Mia madre/ mi fa segno/ di ripararmi:/ nel suo mondo/ non piove/ mai./ Continua – mi dice).

A dispetto della prima apparenza, N’zuppilu n’zuppilu è un’opera complessa, che per questo offre diversi livelli di lettura. A un primo livello è una raccolta che poggia su una serie di opposizioni: parola-vita/morte-silenzio, frammento/tutto, luce-buio, io-mondo. Queste generano una forma di dialettica volutamente ingenua, marcata dalla spensieratezza dell’infanzia e quindi collocata in una dimensione ancora a-morale (o meglio dire a-moralistica). Se è innegabile che ci sia una forma di riflessione esistenzialistica, un’indagine sui grandi misteri, sui significati profondi, è importante notare come questa sia giocata tutta sul piano pre-filosofico della spontaneità popolare, dello stupore adolescenziale, dell’estasi inconsapevole: c’è la luce e c’è l’ombra ma non c’è traccia del bene e del male. Si tratta di un effetto voluto ed estremamente difficile da ottenere, che Condorelli crea sapientemente, per esempio spezzando il sistema delle opposizioni per creare momenti di cortocircuito: ai vivi spetta la parola e ai morti il silenzio, eppure, a volte, sono questi ultimi che chiamano mentre i vivi rimangono ammutoliti senza poter rispondere, eppure la morte fa “sgrusciu” (rumore) e reclama la sua presenza (I motti mi taliunu/ di sgaleggiu/ ‘i sentu ammummuriarisi/ ammenzu i petri/ e mi parrunu/ na negghia di paroli […] macari ju sugnu/ senza scaciuni/ e non ci pozzu/ arrispunniri/ nenti – I morti mi guardano/ torvi/ li sento bisbigliare/ in mezzo alle pietre/ e mi parlano/ una nebbia di parole).

Ancora una volta però, per ottenere questo effetto, il poeta deve chiedere il supporto del dialetto, deve muoversi nello spazio vergine di una lingua contadina e illetterata che, con incoscienza, sappia affondare dentro le cose, addomesticarle e controllarle – come diceva Per Paolo Pasolini, “il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. Le parole che ricorrono con più frequenza – matri, patri, sustanza, morti, scuru (buio), paroli, robbi (abiti), ciatu (fiato), casciola (cassetti) – rappresentano tutto il mondo, tutto ciò che siamo, l’universo da cui veniamo ([…] Era u sdilliriu do tempu/ ca mi tuppuliava/ e u sgrusciu do scuru.// Chistu n’attocca./ Chistu ama vidiri – Era la noia del tempo/ che mi bussava/ e il rumore del buoi.// Questo ci tocca in sorte./ Questo ci tocca vedere).

A un secondo livello, già più sofisticato, la raccolta presenta una riflessione meta-poetica, si interroga sul senso della parola di fronte alla magia della vita. La parola e la poesia sono ciò che definisce e caratterizza l’io lirico rispetto al mondo, ma sono vissute con il sentimento del peccato, con la consapevolezza che dietro di esse si nascondono la carne e il sangue, le cose che contano davvero. Nonostante questo però alla poesia non c’è scampo. Segnerà il poeta nel profondo. È il dolce fardello da portare e sopportare, fino alla fine (E poi ci su i paroli/ stritti/ ‘ncagghiati/ chiddi ca non si diciunu. Ca appoi è taddu./ Ma cu è ca talia/n’to scuru/ da to carni/ e scava/ fino o to ciatu? – E poi ci sono le parole/ strette/ incagliate/ quelle che non si dicono./ Che è tardi./ Ma chie è che guarda/ nel buio/ della tua carne/ e scava/ fino al tuo fiato?).

Il terzo livello di lettura è il più ampio e ci consente di vedere l’intero lavoro come un percorso, un lungo passaggio tra due diversi stati esistenziali, il primo dominato dalla morte, dal disorientamento, dalla paura, dal vuoto e dall’ombra, dalla deformazione e dalla frammentarietà; il secondo è quello della salvezza, stilnovisticamente ottenuta per mezzo di un appello al “tu” femminile, alla donna amata. A lei si chiede il piccolo gesto che significa il mondo, che ci posiziona nella mappa della vita. Ed è per lei che la poesia esiste, solo per lei ha significato, come attraverso di lei l’esistenza assume un senso. Non a caso la parola che chiude la raccolta è “luce” (Na’ vostra/ vita/ c’è na vita sana (na’ me/ sulu paroli crudi/ comun a cruci/ spogghia./ Na’ me vita/ c’è na simenza/ arriciatata.// Ma è a me’/ a carni/ ‘ntagghiata/ n’ta luci – Nella vostra/ ita/ c’è una vita intera/ nella mia/ solo parole crude/ come una croce/ nuda./ Nella mia vita c’è un seme/ rauco.// Ma è la mia/ la carne/ intagliata/ nella luce).

Solo a questo punto, volutamente, in fase di conclusione, ci fermiamo ad analizzare il titolo della raccolta. Esso è la chiave di lettura, il codice per decifrare l’opera di Condorelli. “N’zuppilu n’zuppilu” è una splendida espressione del dialetto siciliano, non facile, quando non impossibile, da rendere. Nella traduzione al primo componimento lo stesso autore ci offre una versione di contesto, “goccia a goccia”, per via dell’elemento meteorologico che caratterizza il testo. Ma questa è una resa, appunto, di contesto, vale solo all’interno della metafora della pioggia. Il senso dell’espressione è in realtà molto più generico e, per questo, sfuggente. “N’zuppilu n’zuppilu” – che è una di quelle straordinarie locuzioni siciliane che esistono sono nella forma raddoppiata – indica che qualcosa avviene lentamente e inesorabilmente, in maniera inconscia e impercettibile, un pezzo alla volta, un brandello alla volta, una briciola alla volta. Nell’universo crudo, spietato e vertiginosamente poetico del siciliano, “n’zuppilu n’zuppilu” si muore, e si vive. Ed è questo ciò che fa il poeta. Ciò che facciamo noi tutti, da sempre, ogni giorno.

 
Ni scuagghia a junnata
Senza na parola
I robbi putissiru
Stari additta
Suli
Tantu semu pessi.
A casa finisci prestu
E n’avemu cchiù
Cchi vidiri e mancu
A cu taliari.
Ma non ti fresturnari
Ca chiddu c’arresta
Appoi
È tuttu pruulazzu:
tanta pacenzia sulu
p’arristari
vivi.

Si consuma il giorno/ senza una parola/ i vestiti potrebbero/ stare in piedi/ da soli/ tanto ci sentiamo smarriti./ La casa finisce presto/ e non abbiamo/ niente da vedere/ e nemmeno/ nessuno da guardare./ Ma non preoccuparti/ che quello che rimane/ pi/ è tutta polvere:/ tanta pazienza solo/ per rimanere vivi.

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