La parola-titolo di D’Andrea, in apparenza umile e dimessa, è ingannevole come le petrarchesche nugellae, e nasconde pri- ma di tutto un bisticcio di significati. A quello vero e proprio di annotazione scritta dopo, cioè di riflessione critica che fa seguito alla lettura e alla meditazione (e che vanta già nei suoi annali un bel numero di precedenti giganteschi, da Manzoni a Croce), si associa infatti, in un bisticcio divertito dichiarato dall’autore, il contemporaneo concetto di post, cioè di testo postato su di un sito o blog, che suggerisce l’origine di queste pagine e la loro iniziale funzione. Nate per un sito, le postille conservano di quella loro iniziale ideazione la velocità e la stringatezza, che consentivano all’autore la rapidità di esecuzione e ai fruitori l’immediata assimilazione: della postilla in sé, ovviamente, ma anche del testo a cui la postilla i- neriva. Sicché le Postille sono contemporaneamente una proposta di lettura, occasionale per quanto concerne la strutturazione antologica che non segue criteri particolari, ma non meno interessante vista la qualità notevole dei testi scelti, e un tentativo di intervento critico, che di quei testi fornisce un abbozzo di lettura e che soprattutto dice qualcosa di importante a proposito del lettore responsabile, cioè di Gianluca D’Andrea, che non è lettore qualunque né tantomeno neutrale, essendo egli stesso implicato in un processo di scrittura poetica il cui maggiore risultato è al momento la raccolta Transito all’ombra (2016). Strutturate attorno ai tre concetti di tempo, luogo e modo, le Postille offrono al lettore quarantadue autori, ciascuno rappresentato con una, o più raramente due poesie (e nel caso degli stranieri, con la doppia partita di testo originale e testo traduzione); e di ciascuna poesia D’Andrea cerca di suggerire una chiave di lettura che non è esattamente di matrice stilistica o filologica, ma che rientra in un suo non esplicitamen- te dichiarato ma ben presente in filigrana orientamento filosofico-poetico […].
(dalla Prefazione di Fabio Pusterla)
Noterella di lettura – L’approssimazione al vero, massimo risultato raggiungibile per chi è ancora curioso di interpretare, è il metodo che guida queste piccole analisi, o meglio, riflessioni. Si parte da testi di poesia ma si va oltre: ogni linguaggio, infatti, possiede un percorso di memoria e previsione all’incrocio delle quali s’intravede il presente, il tempo della fuga e dell’accessibili- tà. “Dove” e “Quando” sono le domande della storia, cui potremmo aggiungere il “Come” nella verifica dei fatti. Nessuna linea temporale (gli autori considerati appartengono a generazioni diverse), nessun ordine cronologico, ma solo lo spazio allargato del mutamento. Il cammino fa la storia, la mia, la nostra, e per questo il compito è quello di accostarsi al solito movimento e coglierne le accensioni, mantenere, nell’accoglienza della trasformazione, una relazione con l’av- venuto e col ricordo che forma ogni avvenire. Le date tra parentesi, accanto ai titoli, sono quelle di pubblicazione dei singoli post (le Postille, infatti, sono apparse con cadenza inizialmente settimanale, poi più libera, dal 28 giugno 2015 all’11 gennaio 2017, su alcuni siti letterari, poi definitivamente in https://gianlucadandrea.com), ma la linearità del percorso è contraddetta dai trascorsi dei testi che appartengono a fasi random del passato. A guidare le scelte è stata la casualità della memoria e nessun altro criterio che ne travalichi il non-senso in un senso ulteriore. Il quadro che si va componendo è frutto d’immaginazione, il che, spero, renda piacevole la lettura.
(Gianluca D’Andrea)
tre “postille” da “Postille (tempi, luoghi e modi del contatto)” di Gianluca D’Andrea, edizioni L’arcolaio, 2017, (FOGLI DI CRITICA Collana diretta da Gianfranco Fabbri e Fabio Michieli N. 2).
MILO DE ANGELIS: UNA POESIA DA INCONTRI E AGGUATI
(Mondadori, 2015)
(28/06/2015)
Il tempo era il tuo unico compagno
e tra quelle anime inascoltate
vidi te che camminavi
sulla linea dei comignoli
ti aprivi le vene
tra un grammo
e un altro grammo
bisbigliavi l’inno dei corpi perduti
nel turno di notte
diceva cercatemi
cercatemi sotto le parole e avevi
una gonna azzurra e un viso
sbagliato e sulla tua mano
scrutavi una linea sola e il nulla
iniziò a prendere forma.
POSTILLA:
Certo è il tempo della fine a interrompere ancora il flusso. «Anime inascoltate», «corpi perduti» e una notte che s’intensifica e copre le parole. I personaggi sono spettri, ombre che giungono da una realtà a stento percepibile, «una gonna azzurra e un viso» sono segnali più che dati concreti (e, infatti, lo stesso viso è «sbagliato», come in tensione verso una alterità ignota). Eppure dalla ricerca scabra, un male si annunciava – «ti aprivi le vene / tra un grammo e un altro grammo» –, piano emerge una nuova possibilità: «sotto le parole» il minimo disegno si allunga «e il nulla / iniziò a prendere forma».
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BARTOLO CATTAFI: UNA POESIA DA LE MOSCHE DEL MERIGGIO
(Mondadori, 1958)
(24/10/2015)
Il giorno dopo
L’autunno ha mari teneri, ha colori
che calme navi tagliano; cadranno
foglie e cieli sospesi per un filo.
Andare sino all’albero, sedersi,
entrare in confidenza con l’inizio
di radiche più avide e vive verso il basso.
Abbiamo accanto povere fredde cose,
bucce, bottiglie, frammenti di memoria,
più in là c’è il mare.
«L’ultima domenica», e ci trovi
ancora ansanti, il cuore
un poco stanco per la festa,
branco che più non fugge, prede
colorite dal ferro irto nel mondo
dal vino, dai fuochi solitari.
Ci vinse
questa striscia di fumo sulla terra,
fu sempre obliqua l’ombra
che ci seguì in silenzio.
POSTILLA:
Passaggio di sfumature e accenti perentori. Se l’andatura discorsiva dei primi versi – endecasillabi piani, “paesaggistici” – introduce le suggestioni autunnali di un incontro con la natura, la “tenerezza” della visione si accende quando lo sguardo dell’osservatore si abbassa alle radici («di radiche più avide e vive verso il basso») dell’essere, attivando la riflessione sul mutamento dei luoghi e, più precisamente, della disposizione delle “cose” nei luoghi. Quasi a metà componimento, l’indizio principale è l’accumulazione per asindeto, la triplicatio «bucce, bottiglie, frammenti di memoria», in cui gli ultimi pur appartenendo all’universo intimo del soggetto, non possono allontanarsi dall’abbraccio freddo dell’inanimato. Le radici della trasformazione si dirigono, allora, dal mondo ancora “naturalisticamente” presente nel corpo del soggetto all’allontanamento scissorio in un nuovo paesaggio, il «ferro irto» confitto «nel mondo». La conclusione, altamente assertiva, non lascia scampo: «Ci vinse» – ancora il senso d’appartenenza a una comunità, la prima persona plurale avvolgente, per quanto sconfitta – qualcosa di indefinito che si insinua dal silenzio. Dal fumo, ancora percepibile dopo fuochi e macerie, all’ombra, la figura disorientata che vaga in “nuove selve”, senza possibilità di adattamento, senza punti saldi. Autunno, immagine obliqua, il giorno dopo.
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GIACOMO LEOPARDI: UNA POESIA DAI CANTI
(30/05/2016)
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
POSTILLA:
Chi dice che quella carezza non sia grazia angosciosa? “Carus”, prezioso perché carente: si apre il desiderio dell’assenza. Mentre tutto il Novecento fa i conti con la caduta, circa due secoli fa Leopardi se ne innamorava, per necessità – per ché esiste qualcosa di diverso? per cui la tensione desiderante si amalgama alla contingenza – nel suo colle “vuoto”, non semplicemente solitario. Le referenze ci sono e non ci sono: nella chiusura (“la siepe”) che è anche il massimo di apertura. In questa visione divaricata, tesa allo slabbro definitivo (“ultimo”), l’oltranza coincide col suo limite e, finalmente, chiude fuori da sé l’osservatore. Il soggetto è sospinto al suo margine risolutivo, collima col suo atto di esaustione (l’atto stesso dello stare seduto). Il soggetto assente – passivo? – non guarda più ma si meraviglia per possibilità inaudite, inverificabili da chi, pur immerso nel quadro, ne vive il margine. Fuori dalla chiusura, fuori dall’uomo (“sovrumani”, cioè presso, accanto allo stesso concetto di uomo) – o meglio, presso l’uomo. E cosa c’è presso l’uomo se non la sua ombra? Si dilegua un termine ma si allarga un nuovo spazio. Quindi ancora la tranquillità, il riposo così pertinente all’esausto (lo studioso Leopardi dalle infinite possibilità versus la persona fisica e sociale attualizzata dalle sue “difformità”) che, nell’otium plasma una nuova forma – nuove forme – giocando e impastandosi in una diversa finzione. «Io nel pensier mi fingo», il soggetto si riforma nel pensiero oltre il mondo ma non lontano da esso. Lo spauracchio è il «mon- strum» che allarma ogni vibrazione del sentire, fino alla fusione complessiva tra eterno e contingente, natura e cultura (“eterno”, “morte stagioni”, “vento”, “voce”) in un unico, non lineare presente. Fuori misura, fuori peso (« s’annega il pensier mio ») si rom ché esiste qualcosa di diverso? per cui la tensione desiderante si amalgama alla contingenza – nel suo colle “vuoto”, non semplicemente solitario. Le referenze ci sono e non ci sono: nella chiusura (“la siepe”) che è anche il massimo di apertura. In questa visione divaricata, tesa allo slabbro definitivo (“ultimo”), l’oltranza coincide col suo limite e, finalmente, chiude fuori da sé l’osservatore. Il soggetto è sospinto al suo margine risolutivo, collima col suo atto di esaustione (l’atto stesso dello stare seduto). Il soggetto assente – passivo? – non guarda più ma si meraviglia per possibilità inaudite, inverificabili da chi, pur immerso nel quadro, ne vive il margine. Fuori dalla chiusura, fuori dall’uomo (“sovrumani”, cioè presso, accanto allo stesso concetto di uomo) – o meglio, presso l’uomo. E cosa c’è presso l’uomo se non la sua ombra? Si dilegua un termine ma si allarga un nuovo spazio. Quindi ancora la tranquillità, il riposo così pertinente all’esausto (lo studioso Leopardi dalle infinite possibilità versus la persona fisica e sociale attualizzata dalle sue “difformità”) che, nell’otium plasma una nuova forma – nuove forme – giocando e impastandosi in una diversa finzione. «Io nel pensier mi fingo», il soggetto si riforma nel pensiero oltre il mondo ma non lontano da esso. Lo spauracchio è il «mon- strum» che allarma ogni vibrazione del sentire, fino alla fusione complessiva tra eterno e contingente, natura e cultura (“eterno”, “morte stagioni”, “vento”, “voce”) in un unico, non lineare presente. Fuori misura, fuori peso (« s’annega il pensier mio ») si rompe finalmente l’attrito tra individuo e contesto – io e altro – nell’immersione definitiva (che non è una morte o anche), accettazione della possibilità di essere parte di tutta l’inezia del nostro essere.