Nota critica a Previsioni e lapsus di Luciano Mazziotta
È una circostanza quanto mai rara, a queste coordinate cronologiche, imbattersi in un libro di poesia che fa della radicalità la propria cifra distintiva, cioè che si articoli e si sviluppi in maniera ipertrofica intorno a un’ossessione – e benissimo si potrebbe aggiungere: compulsiva – da cui trae origine. È quanto avviene nel secondo libro di Luciano Mazziotta (classe 1984), Previsioni e Lapsus, edito per i tipi di Zona. Non c’è dubbio che nel caso particolare tale ossessione, espressivamente feconda e variamente declinata in tutto l’arco della raccolta, riguardi in primo e ultimo luogo la «potenza insita nella scrittura poetica», come scrive Andrea Inglese nell’attenta postfazione. Ce ne dà un chiaro esempio la sezione centrale del libro, Proiezioni (incastonata, e non senza significato, tra due Statistiche), dove spicca il ciclo di prose Maturità berlinese che svolge, pur nella babilonica congerie di «materiali percettivi provenienti dal mondo esterno» (sempre Inglese), un fil rouge piuttosto ben delineato e – constatata de visu l’ossessività di questa scrittura – martellante:
[…] in realtà l’importante è che sia dicibile la città e il fine stesso: perché per dire io sono e mi chiamo ci vuole un giorno, e forse anche meno, ma per dirlo in modo compiuto, aggiungendo l’avverbio, serve un piano. la lingua, per dire, è fine della città[…]
[…] e quella volta, per dire, non avevo detto nulla perché credevo, e non ero il solo, che, pensando di stare per morire, se lo avessi detto, sarei morto o divenuto un oggetto.
[…] che tutti gli oggetti, diceva, di cui impariamo il nome, non sono che apparizioni e fantasmi che utilizziamo per costrizione indiretta. […]
[…] e allora si inventa, per prevenzione, una lingua privata, la lingua per topi che dice lo sporco, […] la lingua della necropoli deve essere priva di gesti, priva di suoni, che forse era meglio essere muti […]
[…] che tutti i frammenti, a schönefeld, diventano punti, a distanza, fuori dal campo della dicibilità. fine della città.
(Maturità berlinese III. Fine della città)
era per dire perdere. come staccarsi un braccio, sin dall’inizio, che è quando si mettono api tra i nomi e le facce, che si usa, schioccando le dita, un pronome che allontana e respinge. […] e poi, di nuovo, il pronome, la tentazione dell’io che, a friedrichshain, non nomina e non si impossessa. dice a pochi, e dice di meno, che quello che lo dice per perderlo.
(Maturità Berlinese I. Errori per una riconciliazione)
La nevrosi di Mazziotta, che a questo punto merita l’attributo ‘poetica’, trova nelle pagine del libro la sua rappresentazione nel corpo a corpo ingaggiato dal soggetto poetante con la lingua, e anzi sarebbe più preciso dire con lo statuto ontologico del linguaggio inteso come frontiera tra il dicibile e il suo opposto. I limiti del dicibile, per dirla con Wittgenstein, divengono i limiti dell’esperienza, poetica e non, di questo io-pronome che, per quanto si sforzi, «non si impossessa» del reale. La città, come qualunque cosa, nell’atto di nominarla, già non esiste più; o meglio esiste ma in absentia, «per costrizione indiretta»: nomina nuda tenemus. Da qui lo scacco gnoseologico a cui inevitabilmente va incontro la scrittura ‘titanica’ di Mazziotta.
Del resto la stessa numerazione à rebours di queste prose indica, più che una conquista, una progressiva rarefazione dell’onnipotenza semantica della parola, quasi «in anticipo sullo zero» e sulla graduale reificazione del soggetto senziente con cui si chiude il libro. Questa «maturità», traguardo (provvisorio naturalmente) dell’esperienza fenomenologica e conoscitiva di Mazziotta, non può darsi allora che in termini di negazione, rafforzata dalla stessa geografia «berlinese» che denota l’estraneità dell’io poetico rispetto al contesto spaziale e linguistico. Tanto che la ripetizione, perturbante è proprio il caso di dire, di «ritornelli autistici» che contrassegnano il tessuto narrativo e di immagini che «non sono portatrici di arricchimento semantico, acuiscono semmai lo smarrimento generale» (A. Inglese) sembra essere determinata, freudianamente, da un senso di Unheimliche, nella sua accezione etimologica di “non familiare”.
Se il reale si configura dunque come incessante iterazione di nonsense – ben rappresentato linguisticamente da sintagmi idiomatici sclerotizzati e da tic lessicali desemantizzati – all’uomo/poeta, sembra suggerire Mazziotta, sono concessi due modi per portarsi fuori dall’impasse linguistico-gnoseologica del proprio vissuto. Uno di questi è proprio il «lapsus» – già strappo nel cielo di carta e maglia rotta nella rete, rispettivamente di pirandelliana e montaliana memoria –: incidente salvifico del tutto imprevisto, scheggia impazzita che si sottrae al rigido determinismo della ‘previsione’, al dominio dell’ordine logico causa-effetto. Piuttosto ricca è la sua trafila semantica che si snoda in tutto il libro: crepa, svista, errore, scarto, fessura, pausa, ritaglio, strappo, buco, faglia, ecc.
A titolo esemplificativo basti leggere il testo di apertura, Avvenimenti:
Succede. È successo più volte
sempre quasi fuori quadro di sbieco
tra le tempie e le lenti.
Succede che qualcosa si rompe
che si sgretola il soffitto sul sofà
appena intravisto nell’atto
di cedere, di essere cenere
bianca: crepa.
Avviene un principio
un seguito e un esito
che mentre succede accade una svista
ma già sapevamo sarebbe successo
che il bicchiere sull’orlo sarebbe
caduto.
Succede e anche spesso
dell’altro di fianco, un alone
di fatti, un lenzuolo disteso
che si alza atterra in giardino e ricopre
la nostra visione: un ospite
atteso e la pioggia di rane.
La dizione poetica incede, pur se in maniera accidentata per le brusche fratture ritmico-sintattiche, in una ricerca di precisione, di esaustività intellettiva e linguistica talmente radicale da doversi piegare infine all’evidenza surreale e straniante della «pioggia di rane», accolta come signum epifanico che sovverte la consequenzialità crono-logica di ciò che «succede» perché «è successo più volte». La compattezza e la successione geometrica della «memoria», della «storia», così come dell’ordine spaziale della «Karl-Marx-Allee», nella frazione minima del lapsus vengono dunque messe in discussione ed esposte alla luce della loro vulnerabilità: «… e dei lapsus, che farne dei lapsus? / Se ogni volta che inciampi interrompi / un tuo ciclo vitale, è per perdere il filo / per riprendere fiato e iniziare / da un indizio non valutato. // […] quanti lapsus / per fare una storia?» (Promemoria).
Il lapsus, dunque, come interruzione e ri-inizio, «indizio» salvifico benché temporaneo. E in effetti Mazziotta, nelle Statistiche che seguono la «maturità berlinese», contempla un’altra possibile via di fuga, la più estrema ma anche la più coerente con la radicalità del suo pensiero speculativo: l’annichilimento del soggetto, cogitans e poetante, ovvero la sua reificazione. Già nell’allucinata ipocondria di Prognostico il soggetto era stato declassato a pura «biologia» in attesa «che cause dei sintomi / ed effetti supposti / concordino» (I), vale a dire concepito solo come «corpo | senziente» (III), contestualmente alla regressione meteorologica del tempo in «clima» (Un tempo che non è altro che tempo; Del tempo mi chiede se piove; ecc.). Per non dire delle varie esperienze di sdoppiamento psicologico, come in Conversazione in ascensore e in alcune prose berlinesi, che sembrano condurre al desiderio dell’alterità estrema, anonima e inanimata per eccellenza: il «desiderio di diventare / cosa: cosa che non vuole e non vaglia / cosa che diventi cosa / per fare a meno delle cose» (Diventare cosa, I). Pura e nuda res che, in quanto oggetto in sé e per sé, non può che essere indifferente alla dialettica previsione/lapsus:
[…] ho detto esco, ma non ci sono riuscito, una cinese mi ha detto entra, ma non ci sono riuscito, pensavo alla metro vicina e notavo che una sigaretta spenta, ancora fumante, macchiata di rossetto su un posacenere bianco non può passare inosservata
(Maturità berlinese II. Ipotesi di controllo)
Soprattutto, al dominio della cosa Mazziotta sembra invidiare la prerogativa di «non rispondere» (Diventare cosa, II), il suo essere al mondo ed essere afasia assoluta proprio perché aliena alla pretesa/ossessione di possesso della parola: «cosa che non sta al posto / di un’altra cosa e dici / è lei è lì perché non parli? / Per dire cosa?» (Diventare cosa, III).
Se il lapsus rappresenta dunque l’imperfezione, la cosa si delinea come l’esatto opposto, il rovescio complementare della medaglia: la perfezione totale e, pertanto, priva di storia. Utopia e ulteriore fallimento di quel pronome personale soggetto che non di rado dimentica la sua infinita piccolezza: «quanti lapsus / per fare una storia?».