«Pacifica, stordita dalla fedeltà,/ suo era il piacere di lenire/ la stoffa dell’iride, il fazzoletto sull’occhio./ Dal vento alla porta ogni giorno più finita». Versi di Carla Saracino scelti per introdurre la lettura del libro “Quest’ora dell’estate”, edito da “L’arcolaio”, nella collana “I codici del ‘900”, diretta da Gian Franco Fabbri. Sulle pagine vibrano stagioni d’eternità, come “l’ora del parto di una nuova chiarezza”, sovviene Rilke, come «sostanza d’aria», un periplo che abbraccia il mondo terreno spazio-temporale e quello dell’immaterialità, come la luminosa «malinconia del sud». Con la riconoscibilità di una scrittura d’elegante esattezza, esperienziale, la Saracino concepisce immagini che riflettono «l’incipiente tempo/ miracolosamente illeso dentro l’altro tempo».
Qual è stata (dalle tue parole) la scintilla che ha portato il tuo “Quest’ora dell’estate”?
Si è trattato di un fuoco lento, acceso da una fiamma la cui origine non saprei puntualizzare nel tempo. Quest’opera si è fatta a piccoli passi, è venuta a galla come un corpo ingombrante che era sprofondato e che è risalito piano, da un fondo impaziente di alleggerirsi. Non so se sia occorso un guizzo di maggiore attenzione per elevarla a raccolta poetica. So che è valsa il tempo di una risalita dal profondo di me stessa e che le parole sono state una conseguenza naturale.
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Vivendo me stessa, quanto più fedelmente è possibile. Soprattutto la me del quotidiano, la me della difficile, banale e conforme realtà. Detto così, potrebbe risuonare come cosa ovvia, ma il linguaggio si muove all’unisono con l’esistenza stessa che ci attraversa. Non ci sono scarti né tradimenti in questa corrispondenza. Il linguaggio è fatto di eventi ed emanazioni: allo stesso modo la vita, all’atto del suo manifestarsi, si compone di un sostrato di espressioni che giungono a compimento. Se si vive rispettando la propria natura, immergendosi pure negli aspetti più prevedibili o elementari dello stare al mondo, anche il linguaggio si fa chiaro, diventando assiduo compagno di viaggio, in qualsiasi forma artistica o affare umano lo si voglia leggere.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
La poesia, come tutte le cose eccezionali e le creature dotate di grazia e visionarietà, abita le soglie, le piccole tracce ai confini, i passaggi schivi. Se per invalicabile intendiamo l’azzardo sul non detto, la parola agognata, il sogno cercato, il desiderio perpetuato, la poesia con le sue immagini rivelatorie certamente agisce: presso il suo varco, valicabile e invalicabile possono convivere, persino unirsi. C’è però un altro tipo di invalicabile. È quella zona informe in cui vanno a finire le povertà dell’immaginario quotidiano, le limitazioni o le imposizioni sociali a cui siamo chiamati senza sensate giustificazioni, le milioni di offese alla vita battute al ritmo di cinismi imperanti e un po’ vili: anche in questo caso la poesia diventa strumento che trasforma e affranca; realizzandosi in lingua, si autolegittima a esistere: non vuole insegnare niente a nessuno, eppure c’è ed è lì a disposizione per chi sa leggerla.
La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può colmare l’irredimibile?
Credo di no, soprattutto perché la solitudine del poeta è la solitudine di ogni uomo. Il poeta, forse, sente più consapevolmente di doverla affrontare o farsene distruggere, a seconda della sua disposizione; a volte decide di farci i conti, sobbarcandosi anche quelle altrui. Esistono infinite maglie di solitudini dentro l’unica parola che le racchiude. Certamente la poesia può lenire. È una forma non richiesta di conforto, pertanto è concreta, a tratti salvifica. Aiuta a tollerare l’inevitabile disfatta del tempo, la precarietà di ogni bene, la casualità degli eventi della vita. Leggerla, scriverla, aiuta a misurarsi col tempo, a non andargli troppo contro, se possibile.
E, ancora, con uno dei tuoi versi, «L’infelice vita di un passo verso l’alto», ti chiedo: le parole bastano alla poesia?
Non bastano. Occorre che la poesia faccia un passo verso un altrove ulteriore, sempre. Cosa sia questo “altrove” lo sa chi sente e soppesa la lealtà del suo scrivere versi. Senza una spinta alla fuga non c’è alterità: non c’è andata, non c’è ritorno. In poche parole, non c’è il viaggio terrestre.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?
Moltissimo. La forma di una poesia è già la sua verità. Vi aderisce talmente tanto da esserne parte. Se c’è stata lealtà nel sentire, la forma lo dice. Se c’è stata finzione, smaschera. In questo senso, è fedele e trasparente. Una sorta di vetro finissimo, eppure fondamentale, in mezzo al quale si iscrivono i movimenti del sentire. Così è il suono, o meglio l’anteprima del suono, quel che anticipa la visione che genererà le parole. Tutti noi siamo prima o poi toccati da una combinazione di anni felici, nella vita: che siano una manciata o no, che avvengano nell’infanzia o nel corso della maturità, poco vale. Importa che quella esatta combinazione per qualche misterioso meccanismo funzioni. È in quello stato di beata coincidenza di ogni cosa che giunge il suono, il suono interiore. L’arca del nostro corpo lo incamera, siamo vivi. La scrittura poetica ne diventa conseguente e naturale testimone.
Immagina di dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Non ho strade certe da indicare. La poesia è un avvenimento così intimamente legato al destino personale da differenziarsi nelle mete, negli stili e nei periodi storici. Se posso azzardare, sosterrei semplicemente la vocazione ad essere se stessi, a riflettersi nella vita aderendo alla propria storia e alle proprie predilezioni, senza escludere chi può aiutarci a diventare migliori. Ecco, forse incentiverei l’abbandono al piacere dell’ammirazione, o del mirare verso chi merita il nostro sguardo meravigliato. Chi ammira è sempre in cammino verso l’avvenire. Come l’immagine poetica che – per dirla con Gaston Bachelard – “nella sua novità, apre un avvenire al linguaggio”.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una poesia dal tuo libro “Quest’ora dell’estate” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Anche io ho amato la vita,
senza ipotesi di scambio.
Sono stata nelle spiagge dell’adolescenza
e ho temuto per gli altri, prima che per me.
Ho seguito chi poteva restare, e sono rimasta.
Ho cenato nelle contrade più belle,
con i commensali migliori.
Avevano ragione di starmi accanto: per le loro ombre.
Le vedo oggi, allineate, nella luce della casa. Irrompono
alla vista, scadono nel perdono, irradiano i primi anniversari.
Ci sono stati dei periodi, nel decennio dei miei vent’anni, in cui uscivo quasi ogni sera, finivo in posti improbabili, vecchie contrade di paese o posti del sud d’Italia zeppi di meraviglie, in giro o a cena con varie persone, amici cari e conoscenti. Ho respirato la convivialità semplice degli istanti: il mio adolescere è stato questo scavo nelle archeologie delle biografie degli altri. La poesia che ho scelto è la sintesi di quelle esperienze. Le sono molto affezionata perché esprime anche il mio spavento verso lo scorrere del tempo, che talvolta esorcizzo anticipando il sentimento della nostalgia. Rivedendomi nel passato, nel passato prossimo al ricordo, argino la paura del deperimento delle persone care e dei luoghi. Questa poesia è come una vecchia cartolina spedita dal futuro di una me stessa che si concede a una posa di infantile vanità. Un certo tipo di vanità mi piace, fin da quando ero una bambina. Al contrario di quanto si pensi, permette di prendersi poco sul serio e di abbandonarsi; induce alla resa, è una forza che cavalca contraria al possesso: disperde. In ultimo, il testo celebra le mie amicizie. Ne ho avute di straordinarie: con persone epiche, fiabesche, non comuni. In questo senso sono e resto antica, anticamente credo al tesoro del sodalizio con gli altri.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 26.02.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).