“L’ala virata” di Davide Gariti, il nucleo autentico del versificare è una dilacerazione intima.

L’ala virata
di Davide Gariti
Pubblicato da Pequod, collana Rive
Prefazione Roberto Deidier
€ 15,00

«Ogni verso di Davide Gariti si assesta su un equilibrio precario, forse pericoloso, come può esserlo l’affacciarsi su un precipizio. Si avverte, leggendo questo autore di lunga e meditata gestazione alla poesia, l’urgenza di mettere a fuoco una diffrazione nell’ordine apparente della realtà, di riconoscere un contrasto che a sua volta implica una mutazione palpabile, un dato sensibile emerso da quel misto di percezione e pensiero che fin dagli esordi con “Due minuti all’ombra” rappresenta il tracciato di questa scrittura.»

(dalla Prefazione di Roberto Deidier)

 

 

**

 

Nella poesia di Davide Gariti il processo di conoscenza del reale appare compromesso dalla mancanza della luce, che ne metta in rilievo forme e colori in modo netto e preciso. L’ombra, il buio, la nebbia calano sulle cose, e se talvolta riluce l’alba, è solo per avvertire che il domani verrà per il nostro esilio (“Sappiamo di dovere attraversare / il greppo arido del mattino / esiliati nel domani”).

Ed è questa consapevolezza del vivere sempre “fuori da”, in una condizione feroce che non cessa se non nel sonno senza sogni (quest’ultimi spesso essendo soltanto le scenografie notturne delle nostre incompletezze), quando si dimentica la feroce tensione che anima il tempo – “belva” che “scatta veloce” –  a determinare un linguaggio sempre incrinato.

Spesso un aggettivo, un verbo, un rapido mutamento d’immagine spezzano l’ordine semantico a causa di una sovrapposizione di dato percettivo e di immaginazione visionaria, attestando come, nonostante tutti i testi della silloge siano suggeriti da un dato reale, il nucleo autentico del versificare sia una dilacerazione intima, una disperazione che non riesce a giustificare la sensazione di estraneità, l’eterno dolore del mondo, la spezzatura improvvisa che getta l’essere nel non essere. Ne sono testimonianza le azioni che affaticano le cose alle quali Gariti attribuisce un sentire che scavalca la loro inerzia: “si contorce la zolla”, “il buio strozza”, il vento “poggia le guance alle finestra…gracchia…annusa…”: è insomma la filosofia montaliana del male di vivere che “inghiotte le sue vittime” senza riguardo alla bellezza ed alla giovinezza, inondando anche “le belle chiome dei ragazzi”.

Nessuna speranza riscatta questa visione (rare sono le soste nelle piccole cose quotidiane: qualche fiore, un “abbrivo di luce”, un campo di tulipani salvati dal sorriso di una donna), nessuna fiducia alberga nelle future generazioni mortificate dal dilagare di una disumanante tecnologia, perdute in una sorta di ebetismo, e di certo l’unico atteggiamento di riscatto è la misericordia con cui l’autore ricorda i morti, quelli che, usciti dal labirinto del reale, si fanno incontro ai vivi, puri e ormai chiusi nel loro incantamento.

Il dolente urto tra la verità del mondo e il desiderio di ordine della lingua si risolve in una sorta di compromesso, che li tieni abbracciati grazie alla compattezza dello stile, che sottintende un grande lavoro di raschiatura, di organizzazione lessicale mai lasciati al caso, tant’è che nei testi sono presenti ripetizioni, micro-variazioni di versi, slittamenti di figure, quasi nodi simbolici di un pensiero ossessivo, come se l’autore tentasse di formulare e riformulare la cartografia di una realtà inspiegabile e sfuggente.

Non è senza significato che il poeta faccia più di una volta riferimento a mappe urbane che, tuttavia, non servono ad orientarlo all’interno delle città, a cui vengono dedicati i testi della terza ed ultima sezione. E sebbene gli elementi costitutivi di uno spazio cittadino: strade, canali, parchi, cemento, moli, tetti, stadi, parcheggi appaiano anche nelle sezioni precedenti, con un valore più spesso simbolico che veritiero, qui infine vengono raccolti insieme quali parti di un corpo mostruoso “(…) di muscoli / tentacolari, piani inclinati”, come una geometria aguzza e irridente, che “si conficca nel giorno” e “divora i secoli a mucchi”.

Si ha come l’impressione che Davide Gariti abbia voluto rendere concreto il lungo lavorio del pensiero, il corpo bruciante del suo dolore privato servendosi per lo più di oggetti, allo scopo di respingere ogni consolazione sentimentale, ogni nevralgica sensibilità, a favore di un pensiero che possa consegnarlo ai suoi lettori come filosofo della sorte comune.

Molti all’interno dei versi sono gli echi dei maestri, specie del panorama letterario novecentesco, che ha scelto quali modelli, e che vengono convocati quali interlocutori di un discorso mai disposto, nonostante tutto, alla resa, se è vero che la poesia è l’unico strumento che possa rendere comunicabile la quotidianità, facendone parola comunque rivolta a un “tu”. 

Potrebbero interessarti