RASHOMON A VICENZA

untitledUn boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a parlare di un fatto increscioso avvenuto qualche tempo prima… no questa è un’altra storia, ma quasi uguale: un giornalista, un ragazzino e uno scrittore danno tre versioni diverse dello stesso fatto svoltosi l’8 marzo 1957. La cosa si presterebbe a infinite variazioni: cos’è reale? cosa fittizio? cos’è cronaca? cosa letteratura? e via andare. Ben perciò la smetto subito, e vi presento Effimero, Brunetto ed Edo: lasciamoli raccontare, specificando solo che il primo racconta in due tempi, siccome il fatto avvenne a distanza di quattro giorni da un tentativo andato a vuoto.  

 

1a. IERI IL FUNGO NON SI È VISTO

«Che ora è?»
«Manca un minuto, anzi, quaranta secondi.»
«Allora ci siamo.»
«Potevamo portare gli occhiali da sole, chissà che bagliore!»
«Più che il bagliore credo che possano essere nocive le onde d’urto dell’esplosione. Converrà tenere la bocca aperta, come fanno gli artiglieri quando sparano.»
S’intromette un terzo: «Veramente io faccio le 14,32, e ho rimesso l’orologio con segnale orario delle 13. L’ho rimesso apposta.»
«Già, ho l’impressione anch’io che stiano tardando, forse la carica atomica…»
«Ma che carica atomica, è un’esplosione atomica che di atomico non ha che il fungo…»
«E le par poco, un fungo di quelle dimensioni?»
Dialoghi di questo genere sono corsi ieri tra la piccola folla che era salita al piazzale della Vittoria per assistere con visione panoramica da cinemascope all’annunciata esplosione di una carica “atomica” che doveva aver luogo alle 14,30 al campo d’aviazione Dal Molin. Famiglie intere, comitive da pic-nic, salite fin lassù con auto e moto per non perdere uno spettacolo che si annunciava, se non proprio senzazionale, certamente insolito.
Persino un pittore s’era installato sul piazzale: montato il cavalletto e aperta la scatola dei colori s’era dato furiosamente a dipingere il panorama della città, pronto a schizzarci sopra il fungo appena questo fosse comparso. Un fungo di quel genere non si inventa, bisogna vederlo per dipingerlo. Alle 14,55 il fungo aveva già macchiato la tela. Un fungo grigiastro, anzi una macchia grigiastra, livida, come uno sbruffo di talco sporco. Il pittore s’era stufato di aspettare, l’esplosione era stata rimandata per «avverse condizioni atmosferiche». C’era infatti un tantino di nebbia.
Un po’ alla volta i vicentini accampatisi nel piazzale della Vittoria hanno preso la via del ritorno, delusi e seccati. Lo spettacolo era stato rimandato «alla prima giornata di sole, forse domani stesso, alla medesima ora» ci hanno informato dall’aeroporto. E a nostra volta abbiamo ripetuto l’informazione per un centinaio di volte durante tutto il pomeriggio, rispondendo alle telefonate dei lettori.

1b. FUNGO I

È arrivato a settanta metri e nessuno in città se n’è accorto.
Bisogna anzitutto dissipare l’equivoco. S’era da tutti parlato di «esperimento atomico», di «esplosione atomica» che avrebbe dovuto aver luogo all’aeroporto Dal Molin. «Atomico» è un aggettivo imponente, che richiama visioni di cataclismi e di forze tremende, liberate a distruggere.
S’è detto della folla da pic-nic salita giovedì con dozzine d’auto e di moto sino al piazzale della Vittoria, per assistere all’innalzarsi del fungo “atomico”; attesa che era andata delusa, perché le condizioni atmosferiche avevano reso impossibile l’annunciata esplosione.
Ieri pomeriggio poca gente era tornata al piazzale della Vittoria. Tutti, più o meno, però s’aspettavano di udire alle 14,30 il boato dell’esplosione, se non addirittura di vedere il fungo mostruoso prendere quota nel cielo della città. Alla delusione della prima attesa se n’è aggiunta così una seconda. È stato tutto un equivoco.
La verità è questa. Il comando della 5a ATAF aveva predisposto un’esercitazione di difesa atomica per collaudare il grado di efficienza della difesa passiva dei suoi uomini. Fungo I – è il nome dell’esercitazione – aveva questo tema: presupponendo che il nemico porti sull’aeroporto un attacco atomico, stabilire il grado di efficienza della difesa passiva, cioè soccorso ai feriti, spegnimento degli incendi, ricerca e disinfestazione delle zone diventate radioattive. È chiaro che, dovendo simulare la difesa, sia pur passsiva, bisognava simulare anche l’attacco. Perciò si è avuto l’attacco “atomico”, l’esplosione “atomica”, la difesa “atomica”, tutto in scala ridotta, tutto simulato.
Chiarito questo, veniamo all’esercitazione che ha avuto luogo puntualmente, con inizio alle 14,30, al Dal Molin. Aeroporto in stato d’allarme, entrate e uscite bloccate, mezzi pronti all’intervento. Sul prato, dinanzi alla palazzina del comando, ufficiali italiani e americani, osservatori, giornalisti, fotografi.
«Veicoli a 80°, quota stimata 6.000 piedi» annuncia attraverso l’altoparlante la torre di controllo. A questo avviso la difesa contraerea, rappresentata da sei nidi di mitragliatrici piazzati sul campo, entra in funzione. Si odono scoppiettii, sembrano tappi che saltano da bottiglie di spumante. La contraerea spara così per un po’, ma nel cielo non si vede nulla, non si ode nulla. Naturale; la squadriglia di caccia a reazione, che doveva partire dall’aeroporto di Rimini e distruggere con un passaggio velocissimo a bassa quota le postazioni antiaeree per lasciare campo libero ai caccia bombardieri che sarebbero arrivati subito dopo con la bomba atomica, semplicemente non è partita da Rimini causa il maltempo.
E l’esercitazione prosegue, nel presupposto che la difesa sia stata già tutta eliminata. Ancora qualche secondo, poi arriva la formazione dei caccia bombardieri, cinque aviogetti F-84, di base ad Aviano. Attaccano con rotta sud-nord. In prossimità del campo rompono la formazione, passano tutti cinque velocissimi e uno, uno soltanto, sgancia la bomba atomica. Sono le 14,41. Esattamente 15 secondi dopo, l’esplosione e finalmente il “fungo”.
Si badi: l’aereo non ha sganciato proprio nulla, è stato un aviere che ha fatto esplodere un candelotto fumogeno collocato sul prato. Il candelotto s’è alzato sibilando, con una detonazione così modesta che pochi, per non dire nessuno, l’ha avvertita in città. Si son viste fiamme, un gran fumo nero che ha preso quota, espandendosi rapidamente. A 70 metri di quota la carica chimica si è esaurita, il fumo ha cominciato a disperdersi, rapidamente.
A questo punto ha inizio la parte principale della operazione Fungo I: entra in azione la difesa passiva. A piena sirena arriva un’autoblinda che scorta un’ambulanza anch’essa a piena sirena; e vanno entrambe a barellare i feriti e raccogliere i morti. I serventi della mitragliatrici si lasciano sollevare di peso dalle trincee scavate attorno alle armi: sono morti o feriti gravemente, logico che non possano muoversi.
Una squadra di avieri muniti di contatori Geiger perlustra il campo alla ricerca delle zone ove la radioattività è più intensa; le pompe del carro antincendio eruttano getti di schiumogeno. I nidi di mitragliatrici infatti, oltreché distrutti, hanno preso fuoco; dei candelotti fumogeni accesi dai serventi fanno vedere il fumo dell’incendio. Autoblinda, ambulanza con morti e feriti, carro antincendio, la squadra armata di contatori Geiger, tutti dopo un po’ se ne vanno.
L’esercitazione – coordinata dal col. Silvestri, vicecomandate del quartier generale da cui dipende anche l’ufficio difesa – ha avuto successo, nel senso che è valsa a determinare il grado di efficienza e di preparazione dei vari reparti addetti alla difesa passiva. Presso i vicentini, che si aspettavano chissaché, il successo è stato minore. Troppa curiosità, alla quale non poteva non subentrare la disillusione. Ci si era dimenticati che esercitazioni come queste non sono studiate per fare spettacolo, ma unicamente per imparare a difendersi – per quanto è possibile – da quel dannatissimo fungo. Quello “vero”, s’intende.

2. A CHE ORA È LA BOMBA?

l'estroverso articolo dario borsoSapevamo da qualche giorno che martedì ci sarebbe stato qualcosa di speciale in aeroporto, ne parlavano tutti a scuola a Piarda Fanton, dove Brunetto faceva la terza, e in tanti gli chiedevano come dove quando, mettendolo in grave imbarazzo.
«Come, tu che sei dell’aeronautica non sai niente? Ma se tutti in città sanno che ci sarà una bomba atomica martedì in aeroporto!» e lui niente perché ne sapeva quanto loro, ma quest’aria di riservatezza su una cosa che sapevano anche i scoassini con i tricicli lo rendeva più ricercato da chi voleva sapere i dettagli.
Il bello è che neanche gli altri amici dell’aeronautica lo sapevano, e un giorno Aldo, che era in seconda, gli disse: «Ma è tuo padre che organizza tutto, chiedigli.»
Ah, ma come fai quando il padre è un taciturno piemontese, per di più con il Cosmic Top Secret? Be’, gli aveva dato tutti i libri della Scuola di Guerra e frequentemente gli portava giornali d’aviazione in inglese e italiano, ma mancava la comunicazione diretta tra loro soprattutto a causa degli orari, imprevedibili quelli del padre, e alla sera Brunetto ascoltava la radio e armeggiava con i suoi francobolli, non si parlavano tanto.
Quella sera, a cena, si buttò: «Papà, quando c’è la bomba?»
«Domani, oggi abbiamo provato, è tutto ok.»
«E a che ora è la bomba?»
«Alle tre.»
«E noi possiamo vedere?»
«No, in campo non si può, solo le autorità.»
«E fuori?»
«Monte Berico.»
«Possiamo andare? mamma?»
La madre ebbe un attimo di apprensione, e chiese: «Non c’è pericolo? Sennò non…» Tornava sempre il ricordo dei bombardamenti di Napoli, lei sola col pancione al Vomero, lui salvo solo perché era in volo e non sul campo devastato.
«Ma dài, non c’è nessun pericolo, è solo un gran botto. Alle tre.»
Già, pensò Brunetto, ricordando il Falstaff sentito all’Arena coi nonni, «dalle due alle tre».
E così ebbe la notizia essenziale, ma a scuola lo sapevano già tutti.
La mattina di quel bel giorno di marzo non passava mai, poi attendere la sorella fuori dalle elementari e di corsa a casa. Mangiare e subito pronti per andare a Monte.
Un attimo prima di partire suonò il campanello: Enrico. Fuori di corsa, poi Roselena a metà contrà Lupia, poi su per Viale Dalmazia. In cima la signora Lia con Enzo, Daria e la cuginetta Tata, attenzione all’incrocio e su per la stradella di dietro fino a metà della salita superiore. Era già pieno di gente per le scalette o per la strada classica, e tutti erano lì per la stessa cosa: la Bomba.
Era la bomba atomica? Qualcosa di simile. Avrebbe fatto danni? Solo alla carriera di suo padre e un’altra decina di ufficiali se non scoppiava al momento giusto.
Spettacolo garantito, e tutti su.
Il piazzale era già pieno verso le due e un quarto, ma sua madre e la sua amica continuarono dritto, e loro a dire: «Ma dove?» Andarono a destra nella via tra muri alti che avevano fatto poche volte, di solito in un silenzio irreale di conventi. In fondo, la strada si tramutava in uno spiazzo erboso e… non-ce-ra-ne-ssu-no.
«Che ora è?» continuavano a chiedere tutti e Brunetto, consultando il suo Zenith da cresima: «14:50 Alfa, 13:50 Zulu» in perfetto stile militare, «adesso arrivano.»
Una bella giornata, si vedeva l’aeroporto in lontananza, il sole era sulla sinistra.
Suo padre non aveva anticipato molto tranne che avrebbero fatto un bombardamento di tipo toss over the shoulder, quando l’aereo passa a fianco del bersaglio a bassa quota, poi fa una manovra tipo looping sghembo sganciando la bomba mentre imposta un looping e poi ancora fa un rovesciamento passandole sotto e chiudendo ad alta velocità di evasione la manovra, mentre la bomba scende e scoppia. Tutto qua.
Ce n’erano altre di manovre con lo stesso effetto, ma questa era stata scelta per tenere gli aerei in cielo campo; di fronte a Generaloni ed Eccellenze da tutti i Paesi della NATO, Autorità civili e religiose.
Erano su questo spiazzo, dove Monte si arrotonda verso Gogna e le donne ciacolavano e Brunetto cercava di spiegare a Enrico quello che sarebbe successo, quando si sentì il fremito dell’aria prima dell’arrivo di un jet a bassa quota, alta velocità e non tanto distante.
Erano due F-84F della 6a, i Diavoli Rossi che passarono in un attimo nell’avvallamento fra le colline, venendo da dietro. Li videro andare bassi sulla destra dell’aeroporto e poi tirare su sotto controllo del loro LABS automatico, fecero il mezzo looping, poi raddrizzarono con un Immelmann ed erano quasi alla loro altezza quando il padre di Brunetto, in aeroporto, premette un pulsante, la bomba fatta di quattro bidoni di benzina e un innesco di tritolo esplose, e tutti su tutto Monte e dintorni videro una nuvola di fumo bianco alzarsi dal prato finché, dopo un quindici secondi, si sentì il botto mentre la nuvola si alzava diritta aprendosi a fungo.
La bomba era scoppiata, le carriere erano salve, le Eccellenze si congratulavano, Brunetto era felice, alle bambine non era fregato niente, la mamma di Enzo aveva detto: «Eccolo!» indicando il secondo jet dove c’era suo marito, la mamma di Brunetto si era voltata per non guardare come al solito, il vescovo, detto Wanda per il modo magnificente in cui scendeva dalla scalinata in Duomo, tra gli omaggi di rito raccomandava prudenza.
Pochi, tranne gli specialisti, avevano capito il vero messaggio della giornata: era appena stato annunciato che la NATO aveva la capacità di strike nucleare anche in Italia; e pochissimi avevano capito che adesso anche via Valmerlara, Santa Caterina, Porta Lupia, Barche, Monte, Gogna, contrà Cantarane, Corso, Piarda Fanton, tutta la città era diventata un bersaglio nucleare primario.

3. III

Il giorno seguente avvenne lo scoppio atomico. I giornali avevano dato l’annuncio e la cittadinanza ne parlava impaziente; fu deciso per il martedì. Una folla di automobili e di gitanti si diresse sulle colline sopra la città per poter osservare dall’alto il fenomeno. Si ebbero ripetute assicurazioni che il fungo atomico era assolutamente innocuo: doveva levarsi dal campo di aviazione ed innalzarsi oltre le colline, coprendo case, campi e boschi sotto un ombrello di fumo candido.
Le colline e il piazzale che sovrastavano la città erano zeppi di curiosi fin dal mattino. Ritrovai un mio amico di scuola, gelataio, che stava combinando ottimi affari: oltre al carrettino del gelato egli s’era fornito d’una quantità di palloncini multicolori e di un binocolo da marina che aveva appostato su un treppiede in posizione felice; lo affittava a cinquanta lire per porvi l’occhio cinque minuti. Incontrai il fotografo Diotisalvi, un vecchio ritrattista di famiglie borghesi, con la sua gran barba bianca, intento a manovrare la macchina aiutato dal figlio. Non aveva smesso la vecchia marsina e, in attitudine pensosa e artistica, come nel momento di scattare una foto di famiglia, guizzante e simile a un topone, cacciava di continuo la testa nel sacco di tela nera con cui aveva coperto la macchina fotografica. Seguitava a rimproverare il figlio – un ragazzone timidissimo – di non aiutarlo per nulla e questi a un certo punto, agli umilianti rimproveri di Diotisalvi, tutto rosso e piangente di rabbia, prese a scrollare l’impalcatura della macchina con gran pericolo e strilli del padre.

Molte jeeps della polizia sostavano qua e là, un carabiniere in alta tenuta e occhiali da sole stava immobile accanto al palo della bandiera.
La folla si ammassava sempre più numerosa, i frati proprietari dei luoghi, di solito rigidi e inospitali, avevano aperto cordialmente i cancelli del giardino e dei parchi e ora s’erano uniti ai gitanti, chi seduto sull’erba, chi sparso nei prati, a ridere, a pizzicarsi, a rincorrersi.
Mancava un’ora, forse quaranta minuti allo scoppio atomico quando il tempo, già instabile e pesante d’afa, mutò di colpo. Il cielo calò plumbeo sulla collina, la foschia invase la città nascondendo il campo d’aviazione da dove sarebbe salito il fungo. Uno dei palloni del gelataio scoppiò, gli altri si afflosciarono impercettibilmente. Trascorsero mezz’ora, quaranta minuti, cinquanta, un’ora: una pioggia sottile come rugiada cominciò a scendere lentamente sul piazzale, su colline e parchi. I palloni si posarono lucidi sul tetto del carrettino dei gelati, la barba del fotografo Diotisalvi e i suoi lunghi capelli d’artista divennero presto la pelliccia gocciolante di un cane. I frati, finito di rincorrersi e di pizzicarsi, s’erano coperti col cappuccio. Passò un’ora e mezza e la folla si mosse rabbiosa e lenta; alcuni si diressero verso il santuario per ripararsi dalla pioggia, altri verso la città, il capo coperto con fazzoletti annodati. Una lunga fila di automobili scese lentamente strombettando e sorpassandosi. Alla curva a “S” il cieco suonatore di armonium fu investito e ruzzolò per alcuni metri insieme al cassone tutto suoni.
Lo scoppio atomico, rimandato a causa del tempo, avvenne alle quattordici del giorno seguente: una nube di proporzioni modeste, a forma di fungo, bianca e vaporosa in superficie, dallo stelo rossastro, si alzò in silenzio dal campo di aviazione svaporando nel cielo sereno in 6 minuti.

Gli articoli 1a e 1b, siglati F. M. R. (giornalista che non sono riuscito a rintracciare), apparvero su “Il Giornale di Vicenza” del 5 e 9 marzo 1957; il racconto 2 è di Bruno Chiaranti, friulano inurbato con la famiglia a Vicenza per tutta l’adolescenza, dopo la laurea in fisica addetto ai sistemi di automazione in ENI (Roma) e in Pirelli/Solari (Udine), ora consulente per sistemi informativi aeroportuali e vicepresidente dell’Associazione Italiana di Aeromodellismo Storico; 3 è il terzo capitoletto de Gli Americani a Vicenza di Goffredo Parise, uscito nell’agosto 1958 su “L’Illustrazione Italiana”.

 

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