Renato Pennisi, “Luce”, un poemetto “visionario”, un viaggio “che prende le mosse dal crollo del Muro di Berlino” spingendosi fino ai nostri giorni.  

tre domande, tre poesie

 

Renato Pennisi è nato a Catania nel 1957. Ha pubblicato Letture senza spartito (in 7 Poeti del Premio Montale, Scheiwiller 1987), La correzione del saggio (Tringale 1990), Mai più e ancora (Edizioni l’Obliquo 2003), La notte (Interlinea 2011), L’impazienza (Interlinea 2019) e Luce (Carabba 2023), volume sul quale ci siamo soffermati nella nostra intervista. Pennisi anche autore dei libri di poesia in siciliano Allancallaria (Prova d’Autore 2001), La cumeta (Edizioni l’Obliquo 2009) e Pruvulazzu (Interlinea 2016); e dei romanzi Libro dell’amore profondo (Prova d’Autore 1999), La prigione di ghiaccio (Prova d’Autore 2002), Romanzo (Prova d’Autore 2006), e Nel mio futuro non ti porto (Interlinea 2022). Per il teatro ha scritto Oratorio di Resurrezione (Edizioni Novecento 2015), e Alcibiade (Edizioni Novecento 2019). Con Gualtiero De Santi ha curato il saggio-antologia Dalle carte dell’isola-Il libro della poesia neo-volgare siciliana oggi (Carabba 2021).

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Luce”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Il libro nasce dalla necessità di comprendere il tempo, la fase storica, in cui ci siamo trovati, e di rivisitarlo criticamente nella nostra coscienza di esseri nati liberi. La poesia non deve ridursi ad una spietata autoanalisi, alla registrazione introspettiva e asfittica di un hortus conclusus minimalista, al semplice racconto del poco che siamo e che proponiamo nel nostro agire, ma dobbiamo tentare un passo successivo, dobbiamo cioè guardarci attorno reinventando una capacità di ascolto che avevamo dimenticato. La marginalizzazione, dovuta a scelte politiche scellerate, dello studio di storia e geografia ci ha collocati in un unico e indistinto tempo informatico privandoci della capacità di individuare le coordinate in cui collocarci nello spazio e nel tempo. Ecco quindi il tentativo, da opporre con forza, di posizionarci al di fuori dall’impalpabile melassa in cui hanno voluto piazzarci.  Molti, soprattutto tra i più giovani, non hanno la minima idea di dove si trovino i Paesi di cui sentono parlare in televisione o di cui leggono sui social, quali culture e quali tensioni li attraversino, e neppure sospettano che le ideologie divenute da noi un retaggio risibile altrove sono ancora il fondamento di quelle società. Da tempo sostengo che i poeti debbano sporcarsi le mani con la Storia. Ci ho provato a partire dal libro di poesia La notte che è del 2011, e attraverso le poesie siciliane di “Pruvulazzu”, dove registro le difficoltà e i disagi causati dalla crisi del 2007-2008, e ancora nel successivo L’impazienza dove scrivo, nella prima parte, dello strapotere disumanizzato dell’alta finanza e del lento declino dell’Occidente di fronte al nuovo ordine mondiale che si sta configurando. La poesia e tutte le arti hanno il compito di rappresentare questa fase di bruschi e traumatici cambiamenti, non possono limitarsi a narrare processi intimistici di fuga, bozzetti fugaci e marginali. Devono testimoniare delle nostre attuali paure, ravvivate da guerre che ci hanno catapultato in un contesto che ci sembrava concluso con il crollo del Muro e con la fine, apparente, della guerra fredda. “Luce” è un poemetto in questo senso politico, il racconto visionario di un viaggio che prende le mosse proprio dal crollo del Muro di Berlino, e che attraverso la palude dei nostri giorni ci introduce in un’Europa divisa e declinante con i popoli anestetizzati dalle nuove tecnologie, con il mercato del lavoro in nevrotica trasformazione, una classe politica ignorante e arrogante, una società dove ormai si fa poca distinzione tra illusione, apparenza e totale emarginazione. Per arrivare ai giorni della pandemia in cui la morte si è parata davanti a tutti come reale minaccia. Per esprimere tutto questo avevo necessità di un linguaggio irrequieto, improvviso, discontinuo. Il verso libero, con ampi slarghi prosastici, mi è sembrata una scelta coerente ed efficace. Il registro adottato ha rappresentato per me, che amo molto le forme chiuse e la metrica della tradizione, una forte sollecitazione.   

La poesia è un destino?   

A volte la vita para davanti a noi una strada del tutto inattesa e sconosciuta. La poesia è una delle infinite possibilità. Intraprendere il percorso della poesia è sempre un rischio. Il pericolo che i nostri tentativi si avvitino in una materia informe e fallimentare è molto alto. Scrivere in poesia per me è come distendere in un tapis roulant quanto ci è rimasto impresso nella coscienza degli ultimi cento anni. E quindi frammenti e cocci dell’esperienza ermetica e della neoavanguardia, di due guerre mondiali e della shoah, dell’olocausto nucleare, del ’68 e della Guerra Fredda, della riforma del diritto di famiglia e della introduzione del divorzio, del sogno europeo, del progresso scientifico e medico, della globalizzazione, dei popoli in marcia incontro a un futuro inesplicabile, del declino della politica e della supremazia del potere finanziario, delle nuove tecnologie, dell’evoluzione dei linguaggi, e chi più ne ha più ne metta. Anche gli ultimi anni sono stati pieni di eventi straordinari, persino due Papi abbiamo avuto e non accadeva dal Duecento. Impossibile affrontare un genere come la poesia, fondamentalmente l’essenza, il cuore misterico, di ogni arte, senza tenere in conto tutto questo, e verrebbe persino la voglia di toglierci mano subito. Ma i curiosi sono gente avventurosa, tirano dritto e accettano rischi. No, la poesia non è un destino, è una scelta, a momenti persino assurda, che si costruisce attimo per attimo, in silenzio e in solitudine ma con l’occhio sempre attento a scrutare ciò che ci circonda.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare un passaggio dal tuo libro, scelto per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha visto nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

Con piacere propongo la pagina conclusiva della prima delle sei parti di cui è composto il poemetto. L’idea di partenza, come mi si richiede, il prima della stesura, è la consapevolezza che la Storia non si arresta. Ritorno inevitabilmente al crollo del Muro di Berlino (a proposito, come mai un evento tanto fondamentale è stato così poco considerato dai poeti?). Ho immaginato di incontrare Pasolini nel momento in cui molti popoli stavano tentando di abbattere il Muro per varcare la soglia dell’Occidente. Nel mio sogno ho immaginato che Pasolini mi incitava disperatamente a opporre resistenza con le nostre sole braccia per evitare che il Muro crollasse. Il timore è che se i popoli vengono qui perderanno la loro identità, la loro primitiva innocenza, e diverranno come noi. Ma il crollo è inevitabile, e già, poco distanti le due Torri Gemelle sono in fiamme.

 

[…]
Le braccia stese
a reggere tutte le fessure
gridando «Corri!» e le infinite voci
indistinte in una burrasca
crescenti e irose
«Corri non rinnegarti!»
e l’esortazione giunse così imperiosa
che sostenni anch’io il muro.
Lo temevo e con la mia generazione
il sogno era il suo crollo
la fine dei blocchi
delle cortine del mondo
separato in due.
«C’era un ordine» gridò Pier Paolo
«lotta con me ma non cedere»
mentre il mondo tutto
era lamento, tremore
«Non è ancora il tempo
diventeranno come noi»
mi sembrò di sentire
ma gli eventi piegano
i ragionamenti le contraddizioni
il muro e il mondo tutto
esplose e folle e lingue remote
e abiti colorati e diverse religioni
da tutte le parti
quelle letterature
che non avevo imparato a nominare
tutta la povertà del mondo
le malattie e tutte le violenze
le nostre certezze così umili
di fronte ai nuovi paradossi
le generazioni vocianti
euforiche e gli stermini
i tiranni che sostituivano
i tiranni servi dell’occidente
le nuove leggi
così estranee alla nostra civiltà
i ragazzi alcolizzati
fatti di fumo
tutte le paure in quell’oceano
di popoli e di confusione.
Non c’è neppure un poco d’aria
che soffi su tutto questo bianco
che s’è fissato sugli occhi e sui bronchi
una nuvola gigante scesa
sulle macerie e nata dalle macerie
sul volto e sulle mani insidiosa
e su ogni campo e casa della Terra.
Lì nella foschia incerta
una anzi due torri ma arriva
un lampo e il fuoco
e dopo un altro lampo
percepivo nel fragore di voci
agonizzanti e anche la mia
di voce tra quelle s’è acquietata. 

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