Voce di là che chiama

Ivan Lalic, idea grafica di Nino Federico ZIZZA2
Ivan Lalic, idea grafica di Nino Federico

a S. Z., nuovo respiro nel tempo

 

 «In che lingua | parlano le dolci labbra di là dalla saggezza?». Questi versi di Ivan Lalić (1931–1996) tratti dalla poesia Il pianto del cronista sembrano riecheggiare quelli di Osip Mandel’štam della celebre Tristia: «O gramo ordito del vivere nostro, | che povera è la lingua della gioia!». Consapevole del «limite del vuoto» dove può arenarsi la parola, «la linea dove esita il canto» (Orfeo sul bastione), Lalić non si stancò mai di cercare la bellezza salvifica. Sebbene avesse trovato guerra e miserie umane nel suo cammino, «persino nei momenti più dolorosi e nelle perdite più drammatiche c’era il suo sì alla vita, […] riponendo fiducia nel mondo» (Jovan Delić).

La sua visione è intrisa di un lirismo epico e narrativo insieme; un respiro evocativo si leva con una naturalezza simile al canto. A tal proposito bisogna rimarcare l’attitudine del poeta a generare tutta una simbologia di contenuti tramite la melodia, voce spontanea come il verbo degli uccelli al mattino, «voce che adesso canta nello spazio verde | dei giardini di là dall’udito, tramutata in uccello» (La voce che canta nei giardini); pertanto voce che ambisce ad una grazia naturale, un richiamo, questo, individuabile nel popolare mito di Filomela mutata dagli dei in usignolo.

In Lalić possiamo scoprire una ricchezza e una varietà di argomenti confluenti in ampi filoni tematici: tradizione classica, figure di miti, storia antica, un forte interesse verso luoghi per lui significativi (l’antica Bisanzio, Roma, Venezia per citarne alcuni), rappresentazioni di boschi e selve, tutti questi elementi si fondono nel verso libero in un soffio immaginifico che valsero alla sua penna la denominazione di postsimbolista. Poeta dei vivi e dei morti, dal linguaggio raffinato teso al recupero della memoria, Lalić esce dai confini della sua terra per narrare una geopoetica in cui momenti e spazi acquistano unicità. In riferimento a questa poesia dei luoghi, in un convegno a Belgrado di qualche anno fa dedicato al poeta serbo (La poetica postsimbolista di Ivan V. Lalić, Belgrado, 25–26 aprile 2007), la studiosa Š. Dimitrijević ha ricordato che all’estero Lalić viene spesso definito «poeta mediterraneo», dovuto proprio al suo interesse per quel punto di incontro fra diversi popoli, luogo culturale e spirituale, Mediterraneo quale geografia interiore di un’origine e di una destinazione. Il recupero dell’origine viene affidato al mare perché nel mare risiede uno dei suoi temi caratteristici. Ebbene Lalić assegna alla parola una virtù paradigmatica, il simbolo diventa una barca che solca il mare delle parole, illuminandole. Notiamo inoltre che la raccolta intera è attraversata da una riflessione metapoetica volta a concepire la scrittura come edificazione della coscienza, simile alla costruzione di un tempio, e quindi «si deve costruire il tempio, | illuminarlo dall’interno, come una parola» (Sulle proporzioni). Molte parole-chiave suggeriscono la necessità di fornire una semantica delle immagini, le più ricorrenti sono fuoco, fiamma, fumo, lingua, e le già citate voce e mare, incontriamo espressioni tipo fuoco e voci e fumo di voci. Per restituire l’appropriato valore ideologico, potremmo così definire la sua arte: «il coraggio che forse incomincia | con la scelta esatta dell’immagine» (Sulla strada di Esfigmen). Scegliere l’immagine è aderire al contenuto, all’esperienza da questa dischiusa. L’esperienza dell’immagine è l’esperienza dell’invisibile, quell’invisibile evocato da S.T. Coleridge nell’epigrafe alla celebre Ballata dell’Antico Marinaio e che Lalić propone con una discorsività malinconica nella Elegia, ovvero il Danubio presso Donji Milanovac, «L’invisibile, quello che ci sfugge senza posa, | e ci sussurra la presenza sua e costringe tenace | ad agire, a tradurlo in immagini…» (nella poesia è presente il riferimento al giorno in cui venne a mancare Montale). La poesia di conseguenza non viene mai separata dalla vita e qui possiamo scoprire una corrispondenza anche con Rilke del quale Lalić fu traduttore. In sintesi, presso il nostro poeta serbo, lingua e voce traducono una visione del mondo – la lingua fornirà la sua dimensione universale comprensibile all’uomo, la voce quella più personale –, sensibile all’esperienza umana.

Cosa ci assicura l’eredità poetica e morale di Lalić? La poesia è un «buon conduttore di dolore» (Nota sulla poetica), ma è sicuramente quello più adatto all’emancipazione della coscienza, a difesa della bellezza. Armonia di una voce per riscattare la vita.

 

Poesie tratte dalla raccolta Ivan Lalić, Poesie, Jaca Book, 1991

La voce dei morti

Nella notte, lontano, avvampa un fuoco. E un altro.
Farfalle di fiamma calano all’orlo della notte.
Un terzo fuoco. E presto una netta linea di fiamma.
Anello attorno al fuoco. Ecco. Non passerà nessuno.

Per lo spavento cadono le foglie ai castagni davanti casa
E dice la gente: autunno. Melissa, è l’accampamento
Del grande esercito morto, accantonato sui lontani colli.
Da solo, porto orecchio al trombettiere, tutto teso, senza fiato.

Ma invece dell’eco di rame sento le prime nevi
Nelle selve abbandonate. Ma i fuochi non si spengono.
In certi luoghi crollano le città se la terra spiana le rughe

Sulla fronte pensierosa. Ma i fuochi non si spengono.
Anello attorno al sonno. Ha udito qualcuno il trombettiere?
La tromba è al di là del silenzio, e il silenzio è più forte.

*

Orfeo sul bastione

Ecco la line dove esito il canto,
Ecco il vento che sputa sopra la lucerna, rovescia
L’uccello in volo, rompe le ossa,
Ecco la mia eco spezzata, le sillabe accecate
Al tocco dell’aria feroce di paese straniero –
Di nuovo è il tempo della morte;

Mi strapperanno la lingua inturgidita
In bocci amari, mi svelleranno dall’omero
Il braccio con la lira,
troppo tardi –
Sono già dall’altra parte,
Già in terra natia, dove le radici ci sciolgono,
Già mi drizzo, riconosco il corridoio –

O cammino circolare, spaventoso, perfetto,
Ecco il tempo del canto.

*

Note sulla poetica

Serbare l’inespresso, come il midollo.
Apprendere dal pomo: terra, calce e pioggia
Lavoran solo per il frutto, e trovano espressione
In questa palla imperfetta, e tuttavia matura
Che non si assomma con la pera.
Esercitare l’arte di rinuncia.
Calpestare la traccia.

Stare innanzi allo specchio, privo di timore
Dell’immagine riflessa; essa rende l’espressione,
Imperfetta, di uno sforzo tenace
Di vestire di carne l’astrazione,
In un buon conduttore di dolore.

Eppure, senza scrupoli,
Dire pane al pane e vino al vino
Ed alla donna amata: io ti amo.

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