Lo scrutatore d’anime

 

 

Eventi personali

L’atto della scrittura ha avuto, nella mia vita, l’andamento di un fiume carsico, un fiume che scorre fluente sulla superficie della terra per inabissarsi fra le pietre, ricomparendo poi d’un tratto lontano dal luogo della sua scomparsa. I suoi tronconi, ad un occhio disattento, possono sembrare fiumi diversi; invece si tratta sempre dello stesso fiume, animato dalla stessa spinta, dalla stessa energia.
In seconda elementare, alla ripresa dell’anno scolastico, scrivevo le maiuscole rovesciate. Anziché guardare verso destra, come fanno nel nostro alfabeto, le mie lettere guardavano a sinistra, con le loro teste, le loro pance, i loro piedi. Me ne accorsi firmando col nome e cognome. Perplesso, mi chiesi come avrebbero fatto a tornare a posto. Avevano una loro autonomia e io non avrei saputo come governarle. Sapevo che andavano disegnate in senso opposto, ma non sapevo come, né se loro ci sarebbero state. Nessuno degli adulti ci fece caso o comunque gli diede peso. Oggi, una troupe di solerti inquisitori mi avrebbe diagnosticato una dislessia e non credo mi sarei salvato da anni di neuropsichiatria, logopedia, insegnanti di sostegno e magari qualche psicofarmaco. L’ossessione odierna di classificare ogni comportamento anomalo sotto la specie della “malattia” e di costruire equipe terapeutiche senza alcuna necessità avrebbe finito per creare la malattia distruggendomi. Ero un bel bambino snello e moro, dotato di una vitalità intrinseca e di due grandi occhi marroni – e sarebbe stato davvero un peccato! Sarei stato vittima della iatrogenesi il cui concetto è stato descritto per la prima volta dal sociologo Ivan Illich: il sistema di assistenza pubblica, parassitando la vita dell’individuo al fine di autogiustificarsi, genera malattia, deprimendo le capacità individuali naturali di fare il loro corso; infine, così agendo, quel sistema sanitario: «tende a mistificare e ad espropriare il potere dell’individuo di guarire se stesso e di modellare il proprio ambiente» (1) nonché il proprio destino. Fui graziato. Quella lieve disgrafia era solo un simbolo: era l’indizio precoce di una scrittura ribelle.
Il mio rapporto con la scrittura fu dunque, sin dal principio, sia normale – istituzionale – che oppositivo, e me ne avvidi quando scrivere mi servì a dare forma e sostanza a fantasie e visioni che non c’entravano nulla con l’apprendimento scolare. Cominciai a scrivere per passione personale già a undici anni. I primi scritti che ricordo furono brevi componimenti di fantasia che imitavano i romanzi di fantascienza che avevo scoperto quello stesso anno su suggerimento del mio fratello maggiore. Erano composti di capitoli brevi e shoccanti – sul tipo dell’attuale instant novel, da me gloriosamente anticipato – sul cui percorso scorreva una qualche storia fantastica, la storia di altre umanità apparse o trapiantate su altri mondi. Narrazioni oggettive, non egoiche, nelle quali il mio io era diffuso in una theoria di immagini fluide e consequenziali. In questi primi esperimenti letterario, grazie all’identificazione con questa diversa umanità, io ero altrove, io ero un altro. Altri mondi si disegnavano di fronte ai miei occhi.
A questi primi esperimenti fecero seguito, sempre tra gli undici e i tredici anni, ispirati componimenti poetici (perlopiù imitazioni di classici greci) e nuovi fulminanti racconti di fantascienza, che conservo tuttora, mentre i primi componimenti sono tutti andati persi. In seguito, circa un anno dopo, si materializzarono sulle mie pagine i miei primi saggi di natura scientifica, anch’essi brevi, in una scrittura fitta e densa su quaderni segreti che nessuno lesse mai.
Quella scrittura rimase a lungo nascosta come un Acheronte che si mostra solo al bambino che ero, morto in tenera età. Perché morto? Perché l’atto della scrittura pone una distanza fra sé e le cose che è simile a una morte. L’atto stesso di oggettivare la realtà, la ferma nel tempo, ce la restituisce come una cosa trapassata e morta, appunto. Arte come oggettivazione, quindi come distanza e riflessione, come distacco e libertà. Mentre la cosa muore, l’io se ne affranca e diventa libero. Tutto accade come di fronte a uno specchio: l’immagine riflessa è oggetto di quell’arte di riflettere mediante gli specchi che a partire dal Rinascimento si chiamò speculazione (dal latino speculum, specchio): a tal punto pericolosa da essere diffidata dalle autorità e abolita nei conventi, dove gli specchi vennero esplicitamente proibiti. Quando nasce dalla riflessione interiore, non da un comando sociale, la parola dà nuova vita alla realtà. Su questo punto seguo religiosamente Emily Dickinson, che dice: «Una parola è morta appena è detta, dicono alcuni. Io dico che comincia a vivere solo quel giorno» (2).
L’essenza della psiche umana è il suo essere metaforica: il vedere una cosa come univoca e ambigua allo stesso tempo. Non vediamo mai la realtà priva di connotazioni fantastiche. Vediamo la rosa attraverso la parola “rosa”, che evoca quell’oggetto naturale, ma anche la famiglia generale dei fiori, l’amore, il sangue divino, uno stemma araldico, una poesia, il regalo che vogliamo portare a una donna, il titolo di un libro e di un film… e mille altre cose che restano implicite, in un processo metaforico che, anziché bloccare il pensiero con un significato unico, ci rende liberi. La scrittura ci insegna a sottrarci, a riflettere sulle cose, a fantasticare, ad essere liberi. Anch’io scrivevo per riflettere sulle cose e per essere libero. Nel farlo, non ero più in esse, le avvertivo in tutta la loro impotenza, assaporando nel contempo il potere della mia fantasia e della mia libertà. A volte la scrittura taceva ed io allora potevo vivere nello smarrimento di me stesso, del mio io, immerso nella realtà. Altre volte usciva dal suo piccolo Ade sgorgando rigogliosa alla luce del sole, ma nascosta agli occhi di tutti, eccetto che ai miei.
Tra i quindici e i ventidue anni la scrittura proliferò irruente come un torrente in piena, rigogliosa come una pianta tropicale. Ho ancora centinaia di quelle pagine, alcune delle quali molto belle e rimaste inedite, salvo una quindicina di articoli di critica d’arte e alcune prove letterarie comparsi su riviste. Per una poesia, quando avevo diciotto anni e vivevo ancora a Brindisi, ottenni un premio che avrei dovuto ritirare a Roma. Incaricai la mia zia romana di farlo per me. Tra queste pagine inedite, conservo anche la minuziosa redazione diaristica di decine di miei sogni e dei primi tentativi di interpretazione.
Superati i vent’anni, infine, con l’avvento degli studi alla facoltà di Psicologia e ancor più col successivo lavoro di psicoterapeuta, la scrittura tornò ad essere esigua come a tredici anni, infine s’inabissò. In verità non scomparve mai del tutto. Rimase viva negli appunti che prendevo per mettere una distanza di cautela e riflettere sul mio lavoro clinico. Ma non mi attenni solo al dovere oggettivo: coltivando un lusso prezioso, mi dedicai a me stesso e tenni ampi e minuziosi diari che mi accompagnarono per almeno dieci anni, ricchi di speculazioni e riflessioni; inoltre, redassi con minuziosa pazienza un paio di raccolte di racconti surreali che attingevano al materiale dei miei sogni e delle mie fantasie.
La pratica della scrittura teneva viva la necessità dell’autoanalisi e del rispetto per il dio interiore, il dio dell’individuazione. La necessità di dare gli esami e di lavorare, senza disperdermi nella vita da bohémien che – nonostante i miei buoni propositi – assorbì una parte considerevole della mia vita universitaria, mi costrinse a reprimere la mia antica passione. Ma, mentre studiavo e davo gli esami, frequentavo lo studio del mio analista per la mia analisi di formazione, avevo amici filosofi, poeti e musicisti e leggevo Baudelaire e Mallarmé, Borges e Frost, e tutto ciò teneva vivo l’intimo dialogo con me stesso e col mio inconscio… Quando poi, nell’82, fui prima ad Asti poi a Milano per il sevizio di leva – deportato come un prigioniero di guerra in campi di concentramento governati da colonnelli decerebrati – il ricordo della cultura si rarefece come l’ossigeno in un deserto di ghiacci. Ma anche lì la fata Morgana dei simboli non cessò di mormorare. Ricoverato oltre un mese in ospedale militare, l’amico Francesco Cataluccio mi portò in lettura mucchi di libri, fra cui i Cent’anni di solitudine di Marquez e le poesie di Ceslav Milos (cosa per la quale gli sarò eternamente grato). Così, non avendo fogli disponibili, imparai a scrivere sul foglio della mente…
Tornai a Roma e dopo aver lavorato coi lungodegenti del Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico cittadino, avviai la mia attività clinica privata. Ero un giovane psicoterapeuta di ventisette anni. Mentre in pubblico, il lavoro clinico mi spingeva a compiere una sorta di ascesi nella quale solo il discorso scientifico poteva ottenere cittadinanza, in un luogo della psiche più intimo e segreto, accanto ai diari personali, allevavo una fitta popolazione di poesie, di racconti più o meno surreali, di aforismi e piccoli saggi di natura psicoanalitica che univano l’osservazione clinica all’evocazione simbolica. Sicché mentre una parte della mia mente osservava e analizzava la realtà, accettando di essere prigioniera del dato contingente (di fatto ero chiuso in una stanza ad ascoltare individui ossessionato dai loro sintomi a da un dolore isolato da ogni contesto) l’altra parte della mia mente scivolava lungo fitti e rigogliosi sentieri ermeneutici. Le foreste di simboli di Baudelaire – evocate nelle Corrispondenze – si animavano di vita propria.

La Natura è un tempio dove colonne vive
lasciano a volte uscire confuse parole;
l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.

Come echi lunghi che da lontano si fondono
in una tenebrosa e profonda unità
vasta quanto la notte e quanto la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono. (3)

Percepivo allora, nella nuda realtà del momento, seducenti connessioni coi grandi miti collettivi della nostra civiltà e dell’umanità intera. Questi miti mi si rivelavano d’un tratto come le metafore giuste per sbloccare la vita del paziente, chiusa in un’automatica obbedienza a un tirannico sistema di valori. Scoprivo allora che con quello sblocco liberavo anche la mia mente, la mia vita, serrate nella camicia di forza dell’identità professionale e condannate all’ascolto. Laddove una fobia, per esempio una grave inibizione allo studio e al pensiero in una giovane ragazza, imponeva la fine di una carriera universitaria e un decorso depressivo, l’evocazione semionirica del martirio di Ipazia o del rogo della Biblioteca di Alessandria mi suggerivano che il destino della mia paziente giocava la sua partita su un campo di gioco infinitamente più grande della sua e della mia piccola esistenza: il campo di gioco era l’immane terreno di una battaglia epocale, che riguardava la liberazione della mente femminile, l’esegesi filosofica decostruttiva, la libertà di pensiero, la liberazione umana dal dettato religioso. Ed ecco che la ragazza diveniva Ipazia stessa, la filosofa greco-romana massacrata dai cristiani, e la Biblioteca di Alessandria era lo spazio della psicoterapia, nel quale io salvavo lei, e con lei i cinquecentomila volumi ivi contenuti, dalla tirannica devastazione di un futuro di silenziose tenebre.
L’obbedienza assoluta imposta dal sintomo implicava la scomparsa della metafora, l’annientamento delle possibilità alternative e per ciò spesso della libertà di pensiero. Io avevo la funzione sciamanica di riattivare il processo ermeneutico e di evocare la metafora giusta. Interdetta alla mente del paziente, la metafora riavviava il processo ermeneutico: l’immersione della vita personale nel grande bacino dei problemi e delle soluzioni del mondo, depositate nella sconfinata rete dei simboli.
La fitta scrittura segreta di quegli anni, non pubblicata e tuttora inedita, ebbe la stessa funzione che le pecore di Polifemo ebbero per Odisseo e i suoi compagni. Aggrappati al vello dei loro ventri come cuccioli al pelame di una madre, i prigionieri elusero la sorveglianza del gigante accecato e infuriato, che avrebbe voluto divorarli, e fuggirono dall’orrida spelonca. Allo stesso modo io mi aggrappai alle parole e ai simboli dell’inconscio per eludere l’occhiuta sorveglianza del dovere sociale.

 

 

(1)  Illich I. (1976), Nemesi medica, Red Edizioni, 2013, Como-Milano. 

(2) Dickinson E., Tutte le poesie, I Meridiani Mondadori, Milano, 1994.

(3) Baudelaire C., I fiori del male, Rizzoli, Milano, 1980, traduzione di Luciana Frezza. 

 

la foto in copertina è di Paola Rosati

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