Parola d’Autore

Francesco Palmieri
Francesco Palmieri

Ho letto spesso in diversi autori, in libri diversi (ed io stesso l’ho pensato di frequente) che la ‘scrittura’ salva la vita, almeno quella di coloro per i quali la ‘scrittura’ si fa genio domestico, folletto amico, o demone inquieto e inquietante, invasione, possessione non esorcizzabile. Ed è così; non so se anche per chi lo scrive ancora nel presente, non so se con la stessa intensità di vissuto -e persino ossessività- di chi lo ha scritto in passato, ma per me è così da molto tempo e per tutti i giorni che io posso ancora ricordare. ‘Scrittura’ non solo come via di fuga, strategia di sopravvivenza, vocazione coattiva, esperienza individuale ora lirica ora filosofica ora narrativa, ma anche come forma di “resistenza”, pratica clandestina di un Io che nella opposività privata cerca di rimanere fuori dal coro di uno scrivere che, quando non è evasione, superfluità, si fa cicaleccio sterile, chiacchiera o gossip, mondanità da rotocalchi in bella mostra nelle edicole e persino nelle librerie. Scrivere oggi, nel modo in cui lo sto intendendo, è anche fare opera di “resistenza” (in senso intenzionalmente politico), essere un po’ come gli amanuensi medioevali che hanno preservato valori e cultura dall’irruzione iconoclasta della barbarie; scrittura, quindi, anche come impegno civile e sopravvivenza estrema e stremata dell’ umano. Mi è stato suggerito il motto “Nulla dies sine linea” (Plinio il Vecchio) e mi ci riconosco interamente: neanche un giorno senza una linea, non un giorno senza almeno una parola, un segno, un nero a tracciare lettere, sillabe, sintagmi a cui affidare almeno due intenzioni forti: incidere il divenire che cancella cinicamente l’esperienza soggettiva e irripetibile dell’esserci, tentare di lasciare traccia di un Sé vivo -ora e qui- nella Storia nullificante, e farsi sincronicamente ‘segno’ tangibile, specchio grafico, grammaticale, di un Io che è coscienza, consapevolezza, ricerca della svolta di pensiero e sentimento che possa restituire un ‘senso’ al vivere, un rispecchiamento identitario, una giustificazione esistenziale nel linguaggio degli uomini e non solo negli algoritmi neutri e necessari della chimica, della fisica, della biologia. Perché, sì, noi accadiamo come biologia ma restiamo, e presumibilmente rimarremo per sempre, biologia che pensa e sente. Soprattutto sente. Ed è dalla dimensione del sentire, del provare -intensamente, profondamente- che provengono gli Studi Lirici (solo parole d’amore), ossia da quella tonalità del percepire endopsichicamente che noi chiamiamo ancora amore, eros, sentimento, passione. Un’esperienza, il libro, di scrittura e vita in tempo sincrono, una sorta di istant movie dove l’io lirico è quella voce fuori campo che racconta quanto la macchina da presa (il fenomeno nudo) non può rendere, mostrare, far vedere: le immagini interiori, il pensiero, il guizzo emozionale, il sentimento di estasi erotica o l’ annichilimento, la disintegrazione, la perdita di sé. Studi Lirici è una silloge privata, intimistica certo (e la poesia resta ancora il rito privato per eccellenza e non ancora sostituibile), ma vuole anche essere l’eco di un dire collettivo, una voce che -avendo la sua genesi in un sentimento universale – possa farsi voce pubblica, sentire condiviso, parola comune e non solo mia, perché amore fa spesso rima con dolore, e il dolore ha un bisogno vitale di elegia, preghiera, di parole che sappiano in qualche modo lenire. E se proprio non potranno essere parole ‘di tutti’, spero che lo siano almeno per qualcuno. Mi basta. Mi basterà.

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