daniela andreis ok

Parola d’Autore

La casa orfana nasce da un’assenza. Ogni mia scrittura nasce dal tentativo di riempire uno spazio vuoto che però ha al suo interno una presenza invisibile e presente. In questo caso, le mura della mia casa – in senso metaforico, sì, ma anche reale – sono rimaste prive della figura del padre, di quella presenza silenziosa eppure loquacissima nel mio cuore, e a lui, alla sua mancanza, e in fondo, ad ogni mutilazione d’amore, è dedicata questa raccolta (che l’editore di LietoColle, Michelangelo Camelliti, con grande generosità, mi ha permesso di pubblicare e mai finirò di essergli grata) di poesie. Mio padre da tempo, per una malattia, non poteva parlare e fu allora che cominciammo a discorrere con gli occhi, con i gesti, senza più alfabeti precostituiti, ma con una nostra lingua, unica, come tutte le lingue in cui si comunica chi si ama. Ce ne sono milioni, se ci pensate. E nessuno potrà mai decodificarle. La poesia è il parlare consono a questa sorta di silenzio scevro di forzature e reso scarno e semplice, come un ramo che lo muove il vento, lo spezza la bufera, è una preghiera, e una evocazione/invocazione. La poesia ha stanze vuote, in cui si può sistemare un nostro respiro, una commozione, un sussulto, una illuminazione ed esse hanno costituito la Casa, la mia nuova casa, orfana di lui, ma piena di piccole cose affettuose, di ore vedovelle, di muri come vesti e fogli, di vibrazioni, piccoli scalpiccii dell’anima e tremori della pelle. Oltre a questi motivi, ce n’è un altro per cui ho scritto questo libro: a mio padre, contadino, fu tolta l’unica casa che riuscì a comperare per la sua famiglia. Un libro non è una casa, certo, ma solo così potevo restituirgli una delle sue perdite più dolorose. E forse non è abbastanza. Ma come figlia sentivo un dovere di ricostruire, mattone dopo mattone, la Casa. La scrittura – iniziata molto presto e gattonando versi e prose, tentativi di dare forma ad una imprecisata età e realtà, repliche di rumori familiari, di colori e odori della campagna, dove sono nata, elementi che ancora adesso tornano – per me è il disvelarsi di qualcosa, e quasi mai ad opera mia perché spesso è l’altro che apre la botola, che ci trova (nel mio caso, Cristina Annino, che ha curato la prefazione, è stata un’ottima e carissima scovatrice di senso) e nello stesso tempo lo scrivere è un continuo raspare, come diceva Zanzotto, per comprendere la realtà. È davvero una zappa, una raspa, la parola, e quando scrivo ci metto tutti i muscoli che mette il contadino per dissodare e tirare fuori e togliere lo strato indurito che nasconde la realtà, il suo umore, la sua fecondità. Cerco la parola feconda, insomma, il bulbo, il senso. E scrivo anche per traboccamento: perché non posso contenere tutte le parole che mi fanno folla e che mi soffocherebbero, mi sommergerebbero. La parola è invasiva, per me, certi giorni, ma è anche il suo contrario, è una compagnia unica, indispensabile, l’amuleto contro la solitudine. In fondo, come diceva Carver, non abbiamo che la parola. Vivo nella città bianca della parola – non solo la mia, anzi – e aspetto, come nel racconto di Calvino, l’apparizione, la meraviglia, e intanto costruisco e preparo ogni cosa, ogni giaciglio, ogni strada, ogni nido, ogni riparo, ogni pane, per poter un giorno dire: ora puoi riposarti, posati qui. È la tua casa. È la mia casa.

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