Sergej Durasov: “Nel nostro animo scorre la sorgente della vera felicità”

INTERVISTA ANDREA 1

Sergej Durasov, nato in Siberia nel 1963, è un ex sacerdote e scrittore russo, che coltiva con grande entusiasmo e determinazione la passione per la poesia italiana, di cui è un ottimo traduttore. Personalmente lo ritengo un amico, e considero la sua disponibilità a concedermi quest’intervista un vero atto di amicizia.

Sergej, quanto ti è costato aver voluto “cercare Dio”, come tu stesso mi dicesti una volta, nella Russia ancora oppressa dal regime comunista? Com’è stato essere un sacerdote che ha sempre messo in discussione, forte della propria intelligenza analitica e di una grande cultura letteraria e filosofica, i dogmi ecclesiastici?

“Andrea, “cercare Dio” è sempre stato, in tutte le epoche, un viaggio drammatico. Io sono ancora in cammino e gli ultimi passi non sono meno difficili dei primi. La vita in Russia, sotto il regime comunista, era in fondo più semplice, più elementare, e tutte le nostre domande richiedevano risposte più facili rispetto a quelle attuali. Sono nato in una famiglia atea, mio padre era un ingegnere. I miei genitori avevano degli interessi culturali abbastanza vasti, nonostante le modeste condizioni di vita di allora e la contaminazione della propaganda comunista, che investiva ogni campo, anche quello della scienza, delle lettere e delle arti. Sin dall’infanzia ho avuto fame di radici culturali, storiche e soprattutto spirituali. La mancanza di queste radici mi tormentava quasi fisicamente. Persino a scuola il compendio di storia non era che un’esaltazione delle gesta sovietiche e della politica comunista. La Russia senza bandiere rosse, la terra perduta e quasi sconosciuta, le sue vestigia e le sue tracce, le vedevo nelle rovine delle chiese distrutte e spogliate, nelle icone antiche che ammiravo nei musei. Ricordo un paio di fogli gialli strappati da un Salterio scritto in slavo antico, che mio padre trovò non so dove, forse in mezzo alla spazzatura. Li leggevo continuamente, quasi in estasi, come se fossero una poesia misteriosa. Avevo otto anni, quando un bel giorno scoprii un frammento dell’Apocalisse: ricordo ancora il bagliore delle pietre preziose che vi erano citate, e quella vertigine, quella infinita estraneità alla vita quotidiana. A quindici anni mi sono imbattuto in “Vita dell’arciprete Avvakum”, la guida spirituale degli staroveri (”vecchi credenti”, “antichi ortodossi”), che rappresentavano l’opposizione tradizionalista nella Chiesa russa del Seicento. La lettura di questo libro mi fece provare orrore per l’esistenza umana e al contempo mi portò a riconoscere un mistero turbolento, a concepire la vita e la storia russa come se fossi in mezzo a un turbine nevoso, lo stesso che in seguito avrei trovato nelle poesie di Aleksandr Blok. Non fu una coincidenza se qualche anno dopo mi feci battezzare nella chiesa degli staroveri, seguaci di Avvakum. Poi si sono svolte delle vicende alquanto tristi: fui mandato in manicomio (tre volte nel corso di quattro anni), sono stato licenziato dal mio primo posto di lavoro, ed arruolato nell’esercito, nel “battaglione dei muratori”, che praticamente era una squadra di giovani operai trattati come schiavi. Verso la fine degli anni Ottanta la situazione religiosa in Russia è stata riformata, ma pure se formalmente abbiamo ottenuto più libertà, la condizione interna della Chiesa è andata degenerando, legandosi fortemente agli aspetti più amari della vita russa contemporanea: corruzione diffusa in ogni ambito del governo e della società, attività criminali dei potenti e degli stessi governanti, assenza di qualsiasi morale sociale, clima di violenza, disprezzo per i poveri e i deboli. La Chiesa, che da secoli esisteva in dipendenza del governo, e che mai aveva avuto un proprio punta di vista sui problemi sociali e politici, non è stata capace di resistere al degrado. Al contrario essa è divenuta, a mio avviso, uno strumento di politiche distruttive, mortali per il nostro Paese. Temo che oggi probabilmente non sia possibile sbarrare la strada al processo di criminalizzazione della Chiesa, per non parlare della sua complicità assoluta con il regime corrotto poliziesco e oligarchico. A proposito dei dogmi ecclesiastici, Andrea, devo dirti che i russi non possono essere considerati, da un punto di vista intellettuale, un “popolo europeo”. Da noi essere ortodosso non vuol dire acquisire tutto ciò che la “madre Ecclesia” predica, come diceva San Tommaso o il catechismo di Trento. La Russia non ha mai avuto dei teologi come Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio e Francisco Suárez e non avrebbe potuto averli, perché la nostra nazione non possiede questo talento. Perfino i gerarchi della chiesa russa non conoscono bene i suoi dogmi. Un russo contempla le verità religiose nella bellezza delle icone, nella liturgia, e ammira senza parlare, non è in grado di esprimere verbalmente queste idee e neanche di elaborarle in un ragionamento. Anch’io non ragionavo molto, piuttosto ammiravo. Mi lasciavo sommergere dalle onde delle letture bibliche. La poesia liturgica bizantina, molto più ricca e raffinata di quella latina, mi ha influenzato tantissimo. Ancora oggi mi capita di utilizzare, nelle mie poesie, alcune forme o cadenze dello slavo antico, poiché mi sembrano fortemente espressive; e poi non dimentichiamo che la grammatica slava antica conserva molti tratti greci, è elaborata sul modello greco. In un certo senso, la lingua slava ha avvicinato la cultura russa all’ellenismo, un fenomeno da noi poco conosciuto ma importante. Tornando alla mia vita, dopo la prematura morte di mia moglie, sono stato ordinato parroco in un paese dove ho celebrato per quindici anni, a stretto contatto con la gente, perlopiù povera. Ho vissuto una vita comune insieme a loro. Ieri come oggi credo in Dio e prego per questa gente, sebbene adesso la “sicurezza dogmatica” non mi protegga più come prima. Il mio servizio ecclesiastico è stato sospeso quando decisi di sposarmi per la seconda volta. Eppure non ho smesso di considerarmi sacerdote, poiché credo che tutti gli esseri umani siano votati alla dignità sacerdotale, e che tutta l’esistenza, in ogni sua forma, debba essere pensata come grande liturgia cosmica”.

Quando e come hai cominciato ad occuparti di letteratura, e soprattutto di poesia? Cosa ti ha portato a diventare un autore?

Ho iniziato a comporre versi all’età di cinque anni ed ho smesso quando sono giunto all’adolescenza. Diventando prete, ho preso ad assorbire in modo particolarmente forte la sofferenza umana, ed ho sentito il bisogno di scaricarmi, di liberarmi. Allora ho ricominciato a scrivere, annotando le storie vere delle vita dei miei parrocchiani e delle persone che conoscevo, spesso molto tragiche. Ho pubblicato due libri di prose. Alla poesia sono tornato quando ho lasciato il servizio ecclesiastico, nel momento in cui soffrivo la mancanza della vita liturgica.  Essa mi dà lo stesso sentimento del Reale, del Vero, dell’unione tra Uomo e Dio che percepivo mentre celebravo le messe.  

Otto anni fa conoscesti la poetessa russa Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, ed è stato grazie a lei che hai cominciato a scoprire l’Italia, un Paese che hai visitato più volte, e delle cui grandi capitali culturali ti sei innamorato. Se non sbaglio hai molto a cuore la città di Napoli, a cui hai dedicato alcuni versi fortemente suggestivi.

“Ringrazio infinitamente Ol’ga Aleksandrovna. La sua conoscenza è stata uno dei più grandi miracoli della mia vita, posso dirlo senza la minima esagerazione. Davvero, è stato grazie a lei che ho cominciato a provare amore per l’Italia. Ho visto Napoli per la prima volta nel 2010, periodo molto difficile della mia vita: mi trovavo senza quasi alcun mezzo materiale, senza un lavoro (alla mia età, con una salute non propriamente buona, è molto difficile trovare un impiego), ed anche la prima esperienza amorosa dopo la mia fase ecclesiastica si era risolta in modo spiacevole. Napoli non solo mi ha dato un nuovo impulso vitale, infondendomi coraggio, ma è riuscita a rivelarmi dei nuovi misteri esistenziali e religiosi. Precedentemente ho parlato di un turbine nevoso nella mia visione della vita e della storia russa: bene, pensando a Napoli mi riferisco allo stesso turbine esistenziale, sebbene diverso da quello russo, ma allo stesso modo stupendo e strabiliante. Non tutte le impressioni napoletane sono state luminose, ovviamente, pur tuttavia, vi torno ogni anno per un mese o due, e posso dire che senza quella città ormai non riuscirei ad immaginare la mia vita”.   

Mi parleresti del tuo profondo amore per due grandi della nostra poesia, Dino Campana e Ungaretti, di cui hai tradotto gran parte delle opere?

“Si, li amo, e spero sempre di riuscire a percepire le loro anime, le loro personalità. Mi lega a loro una profonda compassione, sia poetica sia umana. Ho completato la traduzione integrale dei “Canti orfici” (che ho realizzato a Marradi, paese natale di Campana), ora debbo cercare qualcuno per finanziare la prima edizione di quel grande libro in lingua russa. Anche gli acuti, penetranti versi di Ungaretti, così vicini alla tragedia umana con cui io stesso ho avuto un contatto quotidiano per tanti anni, voglio con impazienza farli conoscere ai lettori russi. Ho tradotto più di cento sue poesie”.      

Il 17 luglio è stata presentata a S. Pietroburgo la tua traduzione dell’opera poetica di Antonia Pozzi. Si tratta di una pubblicazione corposa (240 poesie), corredata da molte foto realizzate dalla stessa poetessa, alcune delle quali inedite in Italia. Per realizzare questo grande progetto di traduzione, hai assaporato l’atmosfera degli ambienti vissuti da Antonia Pozzi, su tutti il paese di Pasturo, nella provincia di Lecco, dove tra l’altro ella è sepolta. Come è nato questo progetto e quanto è stato impegnativo portarlo a termine?

“Tutti i miei progetti italiani realizzati fino ad oggi (eccetto “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, quel capolavoro brillante della letteratura barocca napoletana, che però è ben altro affare), sono nati dalla lettura del libro “La poesia italiana del Novecento”, acquistato tre anni fa in una strada di Napoli. Sono nati dallo stesso profondo sentimento di dolore, che penetra e unisce tutti e tre, per quanto siano dissimili tra loro: parlo di Dino, Giuseppe ed Antonia. La traduzione di 240 poesie è stata realizzata tra il dicembre 2011 e il marzo 2013. La maggior parte del lavoro ha avuto luogo da aprile a maggio 2012 presso Milano, dove ho trascorso un bel soggiorno grazie al generoso sostegno della curatrice dell’Archivio Pozzi, Onorina Dino, e della professoressa dell’Università degli studi di Milano, Silvia Morgana. Suor Onorina (è una monaca preziosina che per tutta la vita ha lavorato come insegnante di scuola media) è stata un aiuto costante per me: ha seguito, corretto e migliorato tutto quello che facevo. Ho potuto trascorrere qualche giorno a Pasturo, presso casa Pozzi, studiando nella biblioteca della poetessa, immergendomi nell’atmosfera della sua vita e della sua arte, contemplando i paesaggi alpini, talmente cari alla sua anima. Questo è stato possibile grazie all’ospitalità e alla cortesia del comune di Pasturo, nella persona del sindaco Guido Agostoni. Tutte le informazioni sulla vita di Antonia di cui necessitavo per il mio articolo biografico e i commenti alle poesie, sono tratte dal consistente e dettagliato libro “Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia” della prof.ssa Graziella Bernabò, con cui ho avuto contatti fraterni e calorosi. Onorina Dino mi ha prestato delle foto rarissime, per lo più realizzate dalla poetessa stessa, che hanno arricchito e decorato il libro, e che faranno assaggiare al lettore l’Italia dell’epoca. Insomma, tutto questo lavoro mi ha lasciato una gioiosa sensazione di fratellanza umana e di cooperazione in nome della Bellezza, che non potrò mai dimenticare. Un simile clima amicale attorno al progetto del libro, l’ho sentito anche durante la preparazione del testo alle stampe (è pubblicato dalla casa editrice di Ivan Limbach, di S. Pietroburgo): Irina Kravzova, la capo redattrice, ha trattato ogni verso della mia traduzione con grande attenzione, e con una profonda simpatia nei confronti della poetessa. Adesso il lavoro è completamente realizzato, e mi sento felice”.

Per chiudere questa intervista, per cui ti ringrazio profondamente, vorrei chiederti cosa augureresti alla Russia e all’Italia, il tuo paese d’origine e il tuo paese d’elezione.

“Grazie a te per avere ideato questa conversazione, molto piacevole e, a mio avviso, utile. Per me è difficile fare un augurio alla Russia parlando ad un cittadino straniero, perfino a un amico così sincero e sensibile come te, perché finirei comunque per farmi fraintendere. Noi, italiani e russi, siamo vestiti allo stesso modo, usiamo gli stessi mezzi tecnologici, ma le nostre identità storiche e sociali non sono affatto simili. Più conosco l’Italia e più vedo le differenze, sento i contrasti. Ma come sappiamo, i caratteri più dissimili sentono maggiormente una mutua attrazione. È forse a causa di questo contrasto che mi sono innamorato dell’Italia. Per adesso mi accontento di dedicare alla Russia questa sola speranza: le auguro di “esistere”, e di non sparire, non crollare in un abisso. Agli italiani auguro di essere ancora più felici, oggi come non mai (tutto il mondo crede che l’Italia sia una nazione capace di essere felice non solo in tempi sereni ma anche in condizioni difficili). Nonostante la crisi, i problemi economici e politici, la maggior parte delle difficoltà risiede dentro di noi, eppure nel nostro animo scorre la sorgente della vera felicità. Vorrei rammentare a me, a te, e a tutti i lettori, queste splendide parole della mia Antonia (credo di non sbagliare chiamandola “mia”):

  

… bontà
 a cui beve il suo canto
 il cuore
 e di cantare non può più finire –
 perché sei la sorgente che rifà
 il sorso bevuto
 ed il suo fondo
 non si tocca mai”.    
 
INTERVISTA ANDREA 2
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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