l’Autore Racconta
Come un sole curioso, che si affaccia timido a sbirciare e illuminare la vita oltre la montagna, era la mia gioventù. Una gioventù come tante. Ricordo che difficilmente memorizzavo i sogni della notte, mentre invece di giorno mi piaceva fantasticare a occhi aperti e di sogni ne avevo quanti ne desideravo; immaginavo scene eroiche e il mio futuro lo vedevo pieno di successi, costellato di gloria e onore.
Fu alle scuole elementari, per merito di una maestra che mi lodò perché leggevo molto bene, che con piacere mi avvicinai alle parole scritte. Da lì il passo fu breve. Iniziai a divorare ogni tipologia di fumetto e nei primi momenti di malinconia adolescenziale non fui sorpreso di trovarmi con una penna in mano a trasformare le mie emozioni in canzoni. Anche successivamente, quando la gioventù stava per finire e le distanze aumentavano, scrivevo lunghe lettere per cercare di affievolire il dolore di quei tagli di cordone ombelicale affettivi. Alla fine della terza media però mi fermai: il lavoro in casa (papà aveva una ditta) e io che non amavo andare a scuola, decisi di non continuare gli studi.
Poi la notte s’impossessò totalmente della mia vita e i sogni e la scrittura smisero di esistere. Un periodo in cui la droga si mangiò tutto di me: affetti, stima, orgoglio, denaro, figli, genitori, tutto! Finii in carcere più volte e persi il conto delle comunità di recupero in cui provai a smettere. È stato in uno di quei rari momenti di lucidità obbligata, che mi ritrovai di nuovo con la penna in mano. Un po’ per necessità: scrivevo lettere per tenere i contatti esterni, un po’ per un percorso interiore: iniziai a scrivere un libro, incominciai dal primo ricordo che avevo, volevo analizzare tutti i momenti della mia vita che ricordavo, per cercare di capire cosa e dove avevo sbagliato, per vedere se potevo “aggiustarmi”. Ora non voglio raccontare tutta la storia, ma se leggerete il mio romanzo, vedrete come la scrittura, in un momento di disperazione estrema, m’impedì di suicidarmi. Perciò posso veramente affermare che la scrittura mi ha salvato la vita!
Scrivere mi piace un sacco, quando scrivo mi estraneo, il tempo vola, a volte le parole escono velocemente, altre volte meno, mentre scrivo incontro piaceri e difficoltà e sotto questo punto di vista, scrivere in fondo è un po’ come vivere, anzi, meglio: se il giorno dopo non mi piace qualcosa che ho scritto il giorno prima, lo cambio, nella vita questo non sempre è possibile. Ecco, posso asserire che nello scrivere trovo piacevoli anche le difficoltà, forse è questo il semplice motivo per cui mi piace così tanto scrivere. Purtroppo ho studiato solo fino alla terza media e non ho letto molto, perciò la mia scrittura è così com’è, un po’ diversa dai più che scrivono libri. È abbastanza sobria, ma io mi faccio coraggio dicendomi che forse la gente la capisce meglio.
Ora sono riemerso. Sono sposato e padre di quattro figli, la mia vita è totalmente cambiata, oltre che scrivere, ho altre soddisfazioni che mi fanno amare la vita più che mai, per esempio questa: io, mia moglie e i miei figli stiamo realizzando un nostro sogno, con le nostre mani abbiamo quasi finito di ristrutturare una vecchia cascina del 1800. È bellissima, ma l’abbraccio vero, che ci da questo sogno, è il fatto di averlo realizzato con le nostre fatiche.
Anche con la scrittura non tutto è venuto da sé, nel senso che per pubblicare ne ho provate di tutti i colori. È curioso scoprire come ci sono arrivato. La prima strada che ho tentato è stata quella di andare a suonare il campanello di casa a Aldo Busi, vi dico solo che non pubblicai. Poi mi misi in testa di farlo leggere a Vasco Rossi. Seguendolo su Facebook divenni amico della sua guardia del corpo, che in seguito mi presentò a Gian Paolo Serino, il quale apprezzò subito il libro. Lo mandai a vari editori ma la risposta, quando c’era, era sempre e solo una. È su consiglio di Serino che lo mandai senza tante speranze alla Rai: un talent per aspiranti scrittori, cercavano persone con un romanzo inedito nel cassetto. L’ultimo giorno valido per la chiamata mi arrivò una telefonata: mi convocavano per un provino a Torino. Passai tutte le selezioni e per merito di un ripescaggio votato dal pubblico, arrivai in finale. I concorrenti erano tutti (o quasi) laureati e in entrambe le gare a cui partecipai venni subito eliminato. La critica di alcuni blog fu abbastanza feroce sia con me che con la trasmissione stessa. Io speravo di fare come Vasco e confidavo nella sindrome di San Remo.
Andrea De Carlo era uno dei giudici del programma, la prima volta che lo vidi mi disse che la vita non ero riuscito a viverla, ma che però l’avevo scritta. Prese a cuore il mio romanzo che piacque anche ad Elisabetta Sgarbi e così la Bompiani lo pubblicò, anche se non aveva vinto.
“Amo troppo la vita per riuscire a viverla” è difficile da classificare: romanzo, testimonianza, confessione, saggio. Nello specifico sembra non essere nessuna di queste cose, forse perché è tutte queste cose assieme; la tragedia; la speranza; l’avventura; l’amore; l’informazione; la prevenzione. È difficile giudicare il proprio lavoro: si rischia d’ingrandire o di sminuire… Mi attengo ad alcuni giudizi di chi lo ha letto e che corrispondono al mio: “è un romanzo che aiuta a capire cosa può accadere ai nostri figli, anche se sono dei bravi ragazzi”. “Dovrebbero leggerlo tutti: ragazzi, genitori, insegnanti.” “Riesce a cambiare la visione, che tu hai, di quel mondo”
Il romanzo è nel progetto scuole (che dura tutto l’anno scolastico) di Bookcity 2015. Ed è lì, davanti ai ragazzi, quando vado a fare prevenzione nelle scuole che esce tutto il senso del romanzo: quando senti che ti ascoltano in silenzio, quando le domande continuano a fioccare con entusiasmo ben oltre l’orario prefissato, e quando alla fine qualcuno, anche con le lacrime agli occhi, viene a dirti: io ho un fratello che…, cosa posso fare…
“Amo troppo la vita per riuscire a viverla” non è una pozione magica ma è però, sotto le sembianze di un romanzo, un valido aiuto, per cercare di comprendere: il prima, il dopo e il durante – visti sotto tutti gli aspetti: da adolescente, da drogato, da genitore e da comparsa -. E se io riesco a far comprendere prima, a più ragazzi possibili, cosa può loro accadere se… (la mia vita, questo libro, sono lì a dimostrarlo), per me è il successo più bello.
Prologo da “Amo troppo la vita per riuscire a viverla”,
prefazione di Andrea De Carlo, Bompiani.
La svolta
Vedevo i fuochi d’artificio in lontananza. Salivano in alto nel cielo scuro, la gente a Brescia stava festeggiando la fine del millennio.
Da piccolo avevo immaginato molte volte la mia vita nel 2000: avrei avuto quasi trentun anni, sarei stato nel pieno delle mie forze, ricco e realizzato. Avrei sviluppato la ditta di papà fino al punto di assumere degli operai per fare il lavoro di manodopera, il mio compito sarebbe stato solo quello di amministrare e gestire il tutto. Guidato dal disegno del destino, mi vedevo felicemente sposato e papà di molti bambini. I bambini mi piacevano, fin da ragazzino ho avuto con loro un rapporto particolare, andavamo d’accordo, ci capivamo. Avevo sempre creduto di essere nato per fare il papà, che quello fosse il mio compito, il mio senso di essere al mondo.
Ora ero arrivato, avevo quasi trentun anni: ero lì, nel bel mezzo della fine del millennio. Ma i sogni non erano più quelli che avevo da bambino. Anche le emozioni erano diverse, tutto era più amaro, la dolcezza era svanita, come l’aroma di un profumo tenuto male. Guardavo i fuochi d’artificio, e attraverso le lacrime che mi velavano gli occhi i loro bellissimi colori risultavano allo stesso tempo offuscati e splendenti, come il riflesso di un diamante illuminato nella nebbia. Dove erano finiti i miei sogni?
C’erano le sbarre del carcere di Verziano a ricordarmi che la realtà era un’altra, durissima. Quelle sbarre formavano piccoli quadrati d’aria da cui passavano solamente il mio sguardo e le mie braccia. Tutto il resto veniva fermato, a volte anche il pensiero. Non avevo nulla di quello che sognavo, avevo distrutto tutto quello che possedevo, compresi i sogni. Intorno a me dolore e macerie, avevo un figlio che non vedevo, ero pieno di debiti, avevo distrutto anche la vita di chi mi voleva bene. E mi trovavo in carcere.
Fu in quella sera che mi resi conto di avere sbagliato ogni cosa. Non bastava più credere che alla fine tutto sarebbe andato a posto perché i miei sentimenti erano veri e sinceri. Le mie lacrime erano molto più che diamanti per la mia vita. Fu in quella sera che compresi.