Stravolti da Cristo su l'estroverso emanuele lombardini

Parola d’Autore

Stravolti da Cristo perché la vocazione ti travolge, ti cambia la vita, cambia la prospettiva dalla quale guardi il mondo, con la quale fai le cose. Perché farle mettendo Cristo al centro non è la stessa cosa. Uno strappo deciso con la vita precedente o semplicemente “aggiustare il tiro” restando fedeli alle proprie passioni. Dentro a Stravolti da Cristo c’è tutto questo e anche di più: ci sono diciotto storie di vite tortuose, eppure di persone che nella vita si sentivano realizzate – o credevano di esserlo – e lungo la strada hanno incontrato una testimonianza che ha completamente sovvertito le loro priorità. Che si tratti del Vangelo “annunciato” da religiosi, o di esperienze di vita forti o ancora di incontri mistici, la figura del testimone è quella che lega un po’ tutti i personaggi che hanno accettato di raccontarsi. Stravolti da Cristo racconta storie di persone che non hanno avuto paura di lasciarsi alle spalle carriera, successo, passioni giovanili o semplicemente una vita già indirizzata o una identità professionale ben definita per rispondere alla chiamata a mettersi al servizio del Vangelo.
Vocazioni che – a prescindere dall’età nella quale sono arrivate – sono una rappresentazione chiara di quello che è la Chiesa oggi. In Italia, ma anche nel mondo, la vocazione che arriva “da piccoli” è quasi del tutto scomparsa. Oggi, la Vocazione, per quasi tutti rappresenta una “seconda carriera”, nella quale inevitabilmente c’è dentro tutto quello che si è stati nella “carriera precedente”, col proprio bagaglio di esperienze professionali e di vita ma anche in qualche caso con il proprio passato difficile. Gli “stravolti” raccontati nel libro diventano a loro volta dei testimoni forti, portano la Chiesa fuori dalle quattro mura dell’edificio religioso dando al proprio ministero una forte impronta evangelizzatrice. Una chiesa vicina ai lontani, che li chiama, propone il suo volto nuovo, spazzando via ogni stereotipo, che a sua volta “stravolge” e spiazza. E anche chi ha scelto una vita più di meditazione e di preghiera, come le testimonianze di vocazione claustrale, non ha rotto del tutto i ponti con la “vita precedente”, facendo dello studio e della ricerca un valore aggiunto alla propria scelta di vita, anche loro, in un certo modo uscendo dalle mura della Chiesa.
L’idea che sta dietro a Stravolti da Cristo è semplice: raccontare la vocazione e il volto nuovo di una chiesa in cammino. Raccontarla privilegiando storie di periferia o confinate a una notorietà locale, se non addirittura sconosciute, cercando di dare spazio alle vocazioni più diverse ed emerse dalle esperienze più disparate. E quando, come in un paio di casi, i testimoni hanno una maggiore notorietà a livello nazionale, il mirino è focalizzato sugli aspetti più nascosti del percorso di Fede, che i media hanno lasciato in ombra preferendo evidenziare il talento.
Raccontare la vocazione, che spesso passa anche da una iniziale conversione. Ma non solo. Raccontare come questa non sia un aspetto riservato a persone “particolarmente predisposte”, ma come invece possa intervenire in qualunque momento della vita, in chiunque. Perché la vocazione è un fatto straordinario, per come si manifesta, ma rivolta assolutamente a persone ordinarie. Così come successe a Saulo – San Paolo, persecutore della Chiesa folgorato sulla strada di Damasco e diventato “Apostolo delle Genti” o a Matteo Levi, pubblicano chiamato a diventare uno dei Dodici, le vite di questi testimoni raccontate nel libro ci dicono che tutti noi possiamo fare un salto di qualità e avere un colpo d’ala verso il cielo, se accettiamo la chiamata di Gesù non con la paura di una minaccia, ma con la meraviglia e la trepidazione di una benedizione che dona serenità, gioia al cuore e gusto di vivere. Fidarsi di Gesù, del suo messaggio salvifico e mettersi completamente nelle Sue mani, per diventare “strumenti di pace” e “messaggeri” di una Fede che sempre più parla quotidianamente il linguaggio dei giovani ma che soprattutto – ed è questa la forza maggiore che i testimoni evidenziano – sa mettersi in ascolto dei bisogni e delle esigenze della gente, anche di chi dalla Chiesa è più lontano e trova invece in questi testimoni porte e cuori aperti. Perché “in fondo Gesù e Gioia, cominciano con la stessa lettera”, dice uno dei testimoni.
“Stravolti da Cristo” si rivolge a tutti: a chi crede perché può riconoscersi nel rapporto stretto con Dio, nella bellezza messaggio e nella testimonianza; a chi invece si avvicina con diffidenza alla Fede e alla Chiesa per scoprire come nessuno si possa sentire estraneo alla Vocazione e come la risposta con la scelta della consacrazione arrivi spesso senza bussare. E come nonostante tutto e nonostante il processo di secolarizzazione che la nostra società sta attraversando e il costante tentativo di far passare come “fuori moda” la Fede e la religione Cattolica e i valori che veicolano, questi siano ancora tremendamente moderni e di attualità. La vita di vocazione, lungi dall’essere privativa, è invece una vita forte, fatta di esperienze da condividere. Ma anche semplicemente costruire una famiglia che vive pienamente il messaggio cristiano ed essere testimoni del Vangelo ogni giorno, in tutti gli ambiti della vita sono vocazioni altrettanto forte di quella della consacrazione.
Raccontare la vocazione attraverso la voce dei testimoni serve anche a questo, a capire che per raccogliere questa sfida e non lasciarsi sopraffare da una Fede “tiepida” e “per abitudine”, spesso piegata alle proprie esigenze, serve anche un po’ di coraggio: se oggi c’è crisi di vocazioni e se sempre più c’è chi si costruisce la Fede come fosse un mobile dell’Ikea, è anche perché c’è crisi di testimonianze forti. Allora non bisogna smettere mai di annunciare il Vangelo. Forse chissà, fra cento anni si tornerà ad essere cristiani per scelta e non più per tradizione.
“Di fronte a queste narrazioni vocazionali, sorge spontanea una domanda: quale forza misteriosa agisce perché un uomo o una donna consegni totalmente la speranza della propria vita a quella «coinvolgente e dolente Luce» che si chiama Dio, come con sofferta intuizione afferma Sant’Agostino d’Ippona? Queste narrazioni vocazionali mi fanno venire in mente il racconto della chiamata di Levi Matteo, così come ce lo presenta l’evangelista Marco (2,13-17). Credo che ogni profondo cambiamento di vita non sia mai il risultato di una pura casualità, improvvisa o fortuita. Già prima esso si preannuncia come una breccia aperta in una diga, che per troppo tempo ha represso l’impetuoso desiderio delle acque di fuoriuscire. E paragonabile a quella vena d’acqua, nascosta nella profondità della terra, che da secoli attende di essere scoperta per scorrere all’esterno, in un rivolo sempre più crosciante e gioioso. Se il pubblicano Levi fosse stato pienamente soddisfatto della propria vita, non avrebbe prestato la pur minima attenzione alla chiamata di Gesù; proprio non se ne sarebbe accorto! In lui (ma credo che questo valga anche per tutte le esperienze vocazionali qui raccontate) si è stabilita quella concentrazione di alta tensione, tipica di nubi che si condensano e danno luogo alla scarica luminosa e abbagliante del tempo. Quelle che ci raccontano fra Marco o frate Alessandro, suor Tosca, suor Maria Chiara o suor Cristina, don Graziano, don John o don Firmin, solo per citarne qualcuno (ben sapendo che ogni storia ha una sua valenza originale e insieme universale), sono vicende a specchio del cammino di Levi Matteo – scrive nella prefazione Mons. Nico Dal Molin”.

stralci dal libro Stravolti da Cristo – Storie di vocazione, Paoline Edizioni, 2015

 “Non era un anticlericalismo di facciata, quello dell’adolescente Roberta. Era un odio vero, profondo, talmente tanto da sfociare in atteggiamenti che soltanto a nominarli, fanno gelare il cuore. Come quello del 13 maggio 1981, il giorno in cui Karol Wojtila, allora Papa Giovanni Paolo II, resta gravemente ferito, ma vivo, a seguito di un attentato in Piazza San Pietro per mano del killer professionista turco Alì Agca, per motivazioni non ancora chiarite a quasi dieci anni dalla sua morte e dopo la sua canonizzazione: “Ricordo che ero tornata da poco a casa, avevo acceso la televisione e c’era un’edizione speciale del telegiornale, che a quei tempi andava in onda proprio in casi veramente eccezionali – racconta – Quando mi sono resa conto di cosa fosse successo, sono scoppiata a piangere. Ho pianto di rabbia tantissimo, perché l’attentato al Papa era fallito. Per me il Papa rappresentava il capo di quella istituzione inutile e dannosa che consideravo essere la Chiesa e il fatto che fosse rimasto vivo provocò in me grandissima rabbia. Poi, tanti anni dopo, il Signore è stato davvero stupendo con me, perché quando Giovanni Paolo II è morto, subito dopo la sua traslazione, ho avuto la fortuna di essere tra i primi a poter entrare in Basilica. Mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto perdono. Per me era come chiudere un conto aperto, ma davvero in quel momento ho visto di nuovo la misericordia di Cristo(…).Una chiesa di periferia, un parroco come tanti, in un giorno normalissimo. Il cuore di Roberta cambia verso all’improvviso, nello scenario più normale del mondo, complice sua sorella: “Lei aveva da poco ritrovato la Fede e voleva che in qualche modo la ritrovassi anche io – racconta – così con l’inganno organizzò questo incontro con un sacerdote, senza dirmi che avrei incontrato un prete. Mi disse: “Devi accompagnarmi, perché devo vedere una persona, mi serve un aiuto”. Quando mi ritrovai davanti a don Giuseppe ero davvero arrabbiatissima, perché per me era una cosa fuori dal mondo. Lui però aveva capito tutto, aveva capito la mia ribellione interiore. Mi disse: “Roberta, in tanti anni di sacerdozio, non ho mai visto una persona con gli occhi così pieni di odio”. Ed era vero, aveva ragione: io odiavo la vita perché non riuscivo a venirne a capo: sino ad allora io avevo vissuto bene, ma con la rabbia. Alla fine però questa rabbia finisce per spaccarti dentro ed era quello che mi stava succedendo. Don Giuseppe però sapeva tutto di me, era stato istruito da mia sorella su che tipo di persona si sarebbe trovato davanti e non esitò un secondo: mi prese sottobraccio per entrare in chiesa e una volta entrati mi disse: “Sai Roberta, Dio ti ama”. Per me quella era una notizia nuova. Nessuno me l’aveva mai detto prima. E’ lì che è cambiata la mia vita”. Per la prima volta dopo 15 anni (a parte l’episodio del Papa), Roberta scoppia a piangere”.

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“Conobbi Manuela, che aveva undici anni meno di me. Ci piacevamo moltissimo ma io capivo che non la potevo sporcare, era troppo giovane per me. Non era come con l’altra ragazza, con quella ci eravamo educati ad un amore di un alto e altro livello, qui c’era una differenza d’età forte. Lei si sentiva in imbarazzo e cercava di capire se aveva realmente voglia di stare con una persona molto più grande, io la vedevo come una purezza nelle mani e non potevo giocare con lei. E’ questo punto che io decido di andare ad Assisi, dovevo fare un po’ pace dentro il mio cervello. Ed era lì che mi aspettava il Signore.”.
Per essere più precisi, più che “andare” decise di “tornare”. Ad Assisi Marco Capecci c’era stato undici anni prima, di sfuggita, per accompagnare un’amica che andava a dei corsi di formazione: “A me stava di strada e potevo gestirmi il tempo come volevo, così l’accompagnai – racconta – in quei giorni ascoltai degli insegnamenti che non pensavo avrei ritrovato poi tanti anni dopo”. E invece… “Invece il Signore dopo undici anni aveva rimesso insieme tutti i fili della mia vita: lo scoutismo, l’esercito, la Rai, l’Unitalsi e tutto il resto, proprio perché dovevo fare un po’ d’ordine nella mia testa. E aveva deciso che dovevo farlo lì, nella terra di San Francesco, quello stesso santo che durante il periodo dello scoutismo a me creava più di qualche problema, mi lasciava dei sassolini nelle scarpe. Perché lui era uno che aveva saputo decidere, aveva saputo trovare la felicità nonostante tutto e aveva capito tutto. Io invece avevo tutto, ma non ero soddisfatto. A Lourdes mi sono reso conto che erano felici i semplici e non quelli che stavano bene. E io a quel tempo oltreché avere una bella posizione in Rai ero anche abbastanza ricco”. (…) La scelta era compiuta. I viaggi ad Assisi erano serviti a Marco per capire dove dovesse tendere la sua vita per trovare la piena di felicità. Per compiere questo passo adesso non restava che chiedere l’aspettativa alla Rai. Una cosa normale. O almeno così credeva: “E invece non fu così perché per il ruolo e le mansioni che ricoprivo, l’aspettativa non volevano darmela – racconta Marco Capecci – Però io decisi che sarei andato sino in fondo (anche per conto di Valerio Rivelli) e così chiesi ed ottenni un incontro con il direttore della radiofonia, Maurizio Braccialarghe, con l’intenzione che, se non mi avesse ricevuto o non avesse accettato la mia richiesta, sarei andato dal presidente Giorgio Celli. Braccialarghe mi ricevette, ma l’atteggiamento era quello di tutti i direttori, che danno poco ascolto a quello che dici. Io m’imposi e presi l’iniziativa, dicendo che l’aspettativa mi sarebbe servita perché volevo entrare in convento e che la stessa cosa valeva per Valerio. Ricordo ancora la sua reazione: la pipa gli cadde dalle mani insieme a tutto il tabacco…” (…)Alla famiglia invece, sceglie di comunicarlo nel giorno di Ferragosto: “Era l’occasione ideale perché la famiglia era tutta riunita – spiega – C’erano anche le mie zie suore le quali quando io dissi loro della mia decisione sul momento pensavano che stessi scherzando. La reazione peggior però la ebbe mio padre: aveva una cassetta di pomodori in mano e la stava portando a mia madre per il pranzo e quando gli dissi che sarei entrato in convento lasciò cadere la cassa e fece partire verso di me un sonoro “vaffa”…. L’aveva presa malissimo perché vedeva spegnersi tutti i miei sacrifici fatti per acquisire una posizione ed un lavoro sicuri. Soltanto molto tempo dopo, quando mi ordineranno sacerdote, allora arriverà alla consapevolezza di quanto la mia scelta fosse la migliore che potessi fare per la mia vita”.

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(…) Sono andata a Bratislava insieme ad un’amica con il pullman organizzato da una parrocchia vicina. Durante la Messa, pur vedendo il Papa da molto lontano, ho avuto la percezione dello sguardo di Dio su di me, mi è sembrato in quel momento di comprendere che la mia vita avesse un senso solo all’interno di quello sguardo. Ed ero certa di questo, perché non avevo mai visto una suora o un frate, perché se mai ce ne fossero stati, nel mio paese, certamente erano in borghese perché consacrati segretamente, in quanto la vita religiosa era ufficialmente sospesa: avevo la sensazione che lo sguardo di Dio sulla mia vita coincideva con la certezza che la mia vita doveva appartenere a Lui. Tornando verso casa, ancora in aeroporto, incontro per la prima volta una suora in abiti religiosi, mi faccio coraggio, l’avvicino e le chiedo come avesse fatto a diventarlo. Lei mi risponde: non ti preoccupare, se il Signore vuole, saprà farti capire il modo migliore. Così sono tornata a casa con la certezza che il Signore mi avrebbe guidata”. Non sbagliava, Renata. Il Signore l’aveva già scelta e l’aveva scelta nel modo più grande e profondo, nella pienezza della vocazione: “Durante uno spettacolo sulla vita di San Francesco organizzato nella mia città dai frati Francescani di Bratislava, faccio la conoscenza delle suore Francescane di vita attiva, l’unica congregazione sopravvissuta al regime in forma comunitaria. Dopo il primo incontro con loro avevo già preso la mia decisione: mi licenziai dalla fabbrica dove lavoravo ed entrai a far parte di questo istituto. Era quella la vita che volevo, donarmi interamente a Dio”.

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