Tommaso Di Dio, “Verso le stelle glaciali”, un’esperienza radicale di libertà.

«Viaggio / questo eterno inizio e penso / alla terra mia nuova, terra / che sempre sarà / più in là di me / senza me.». Versi di Tommaso Di Dio (nella foto in copertina di Dino Ignani), scelti da “Verso le stelle glaciali”, edizioni “Interlinea”. Dei giorni che «attraversano la mente», la mancanza è il pieno perpetuo di un viaggio che ci prende, ci assembla, ci tramuta in parole (perdute, cadute, nuove, possibili, impossibili, terminate), ci asseta,  ci sconfina. Un viaggio costellato di “mappe” tanto più potenti quanto più (noi) lontani dal “loro incanto”. Di Dio innesta il dubbio (magrittiano) che la nostra percezione (anche visiva) è sempre colpevole di un’infedeltà, «la creduta terra era semplicemente / il cielo». 

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Il mio primo ricordo è legato ad un momento privato, privatissimo: un frammento di solitudine tipicamente adolescenziale, fra il ridicolo e il mistico, com’è sempre l’età dell’adolescenza. In casa non c’era nessuno ed ero insolitamente nella camera dei miei genitori, da cui si può ancora vedere un grande parco di provincia che, fra rogge e viali, termina con alcuni brutti palazzi anni ’70. Nella camera dei miei genitori c’è, a fronte della finestra, un grande specchio: il sole stra tramontando in una luce carnale. È inverno, ho una gamba ingessata. Qualche settimana prima mi sono slogato malamente la caviglia giocando a basket. Immaginate la scena: sono solo, probabilmente in tuta, seduto comicamente con una gamba dolorante su di una sedia mentre mi struggo di fronte ad uno scenografico tramonto riflesso nello specchio. In quei giorni, chissà perché, stavo sfogliando un libro che girava per casa, regalato a mia madre da qualche conoscente. Quel libro era Il violinista pazzo di Fernando Pessoa, in una edizione anni ’90 della Mondadori, con la copertina di un incredibile color pesca. In una poesia di quel libro, Lycanthropy, si parla di un desiderio del paesaggio di «essere di più» e di rendere «il sogno completo» («Into the black-tree’d shore,/ Where the unknown woods meet/ The lake’s wish to be more,/ And make the dream complete»); come se la scrittura poetica rispondesse all’esigenza di completare il sogno della realtà, di renderlo compiuto e verificabile anche dagli altri, anche a costo di trasformare la sua verità: di diventare mostruosa licantropia. Lì, di fronte a quella scena e al suo riflesso, immobilizzato per la caviglia slogata, ho sperimentato per la prima volta l’esigenza di un movimento diverso, interiore. Ricordo l’imbarazzo di sentire affiorare sulle labbra alcuni suoni; ricordo la vergogna e l’urgenza poi di andare, zoppicando, verso la camera per scrivere su carta a quadretti quei suoni che erano apparsi chissà da dove. Da quel momento non ho più smesso.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Uno l’ho già nominato. Ma la mia formazione è stata devastata dalla sacra trimurti Ungaretti-Quasimodo-Montale; a cui devo aggiungere il nome fondamentale di T.S. Eliot: ho praticamente imparato l’inglese traducendo parola per parola The Waste Land a diciassette anni. Poi tanti altri autori si sono aggiunti: da tutti i grandi si può rubare qualcosa di decisivo. Sicuramente riconosco in me ancora oggi l’impronta di due scrittori a cui ho voluto bene: Vittorio Sereni e Antonio Porta. Il primo mi ha insegnato che la lingua di un’epoca torna disponibile per la poesia, solo se calata nel corpo della tradizione, solo se è stata costretta a scendere negli inferi e ad incontrare fino a contaminarsi con le ombre della lingua morta. Ad Antonio Porta, invece, devo l’idea della poesia come progetto infinito e il legame che per lui era fondamentale (e lo è ancora per me) fra scrittura e desiderio, fra scrittura e voce.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Non possiedo un vero e proprio verso-amuleto, ma molti mi hanno accompagnato, in diverse fasi della vita. Un verso (che è poi già una poesia) a cui in questi ultimi anni ho pensato spesso, quando avevo bisogno di una direzione, è di Amelia Rosselli e recita così: «Cercatemi e fuoriuscite». Di questo verso amo la contrapposizione insolubile e paradossale di energie motorie: da un lato l’arco centripeto del «Cercatemi», dall’altro la forza centrifuga del «e fuoriuscite». Mi sembra raccolga il senso profondo di una poesia che voglia essere innanzitutto ricerca di sé, dentro di sé, ma soltanto per sfuggire alla trappola di essere solo se stessi e provare a toccare una terza persona, qualcosa che è di tutti, che nondimeno non ceda al ricatto di una comprensibilità facile, a tutti i costi. La Rosselli per me rappresenta una poesia che ha accettato il buio, ma non ne ha fatto sfoggio: se è oscura, lo è solo per condividere infine con il lettore un’intensità che è pura forma, mai pedante formalismo.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Non c’è un momento speciale che dedico alla scrittura. Può capitarmi di notte all’improvviso o mentre sto leggendo a casa sul divano oppure ancora mentre cucino. Per anni, ho scritto soltanto su carta senza quadretti e soltanto con la matita. Poi è passato, come tanti piccoli riti, piccole ossessioni. Ora scrivo dove capita e quando capita. Ho notato però che c’è una relazione fra il camminare e lo scrivere. Mentre cammino mi è più facile iniziare a lavorare ad una poesia: uso il cellulare, mi fermo, digito un verso; poi cammino e scrivo ancora e così via. La mia poesia sempre più spesso nasce in strada, all’aperto, a contatto con qualcosa che succede, con qualcuno che incontro. Prima che sia scritta, c’è però una fase iniziale in cui i primi versi devono “suonare”, impastati nel corpo delle cose che faccio e rimanere nella memoria, tornarmi spesso a galla: è un’esperienza antica, vicina a quella che i monaci dicevano ruminatio e i pagani meditatio. Se resistono per qualche giorno così, poi li trascrivo in un file-faldone al computer e inizia il vero e proprio lavoro di scrittura.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

La poesia non segue il tempo dell’orologio. Per essere compiuta ha bisogno di un istante oppure di giorni, a volte di anni, dipende. Una poesia trova la propria compiutezza quando raggiunge una dimensione formale tale da poter andare via. È difficile da spiegare con le parole, ma è una sensazione che fisicamente sento con estrema chiarezza: la poesia mi diventa estranea, è come se fosse stata scritta da qualcuno che non sei più tu. A quel punto è pronta a raggiungere qualcun altro. È lì che la poesia può dirsi veramente compiuta: nel momento in cui qualcuno se ne appropria.

«Mi fermo. Queste stelle / nessuno mai / le ha viste prima.», con i tuoi versi per chiederti: la poesia è la lente o, se preferisci, qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Non c’è una definizione che valga una volta per tutte. È in gioco un cammino dentro la poesia che nondimeno trova stazioni temporanee, appigli, testi, momenti di sintesi precaria. Oggi direi così: la poesia è uno degli strumenti che la tradizione umana ha lavorato per fermare il discorso. L’uomo parla, scrive, produce segni, lo fa in continuazione; la poesia invece è quel segno che interrompe lo scorrere inavvertito dei segni: produce il silenzio dei segni, potremmo dire. Qui in questa sosta, in questa radura che si apre solo se si è letta per davvero una poesia, si può tendere l’orecchio e ascoltare qualcosa più in là, che i segni non sanno racchiudere mai una volta per tutte, ma che pur nasce e origina grazie ai segni.

E, ancora, oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Impossibile pensare che la poesia serva qualcosa, o peggio: serva qualcuno. Amare la poesia (che si badi: precede la letteratura la quale è un fenomeno molto più recente) significa amare un’esperienza radicale di libertà. Significa essere nel mondo, ma liberi dal mondo: una parola affondata nella storia, che però stacca e ricollega l’uomo ad un’esperienza perenne, che pertiene ai fondamenti antropologici: all’homo sapiens più che all’uomo umanisticamente inteso. Questa esperienza che non ha prezzo e non ha guadagno, è per lo più espulsa dal circolo della società contemporanea che invece tende a calcolare il valore di ciò che viviamo in termini esclusivamente economici; ma è altresì significativo che la tradizione della poesia nondimeno affiori e continui a parlare a milioni di persone in tutto il mondo. Non ha dunque un compito né un ingaggio vero e proprio, ma è certo che chi si mette dentro questa tradizione cerca qualcosa, cerca una dimensione umana di intensità e verità: a questo, sinceramente, credo che la poesia non debba rinunciare.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Riporto qui un brano di un grande poeta italiano, scomparso da poco: Mario Benedetti. Oltre che in versi, ha scritto anche alcune prose molto belle. Una mi è cara, in particolare, ed è l’ultima della sezione Prose del suo libro del 2004, Umana gloria. Si conclude con queste frasi: «Le macchie dei colli, in fondo agli occhi, hanno il colore delle giornate riassunte nello sguardo meno conosciuto. E incantami con il volo dei carri, e mandami sulle azzurre piste dei lupi. Meno guardato nella scura cucina, sulle sfoglie inzuppate nel latte della scodella, masticate nell’angolo sbalordito dalla candela.» Pur avendo vissuto esperienze totalmente diverse da quelle descritte da queste righe, ogni volta che le leggo, sono come trasportato in una dimensione che conosco a memoria, che mi è prossima, come se mi precedesse, ma dentro di me. Intorno ad una simile luce «sbalordita», in un angolo senza sguardo, sento che può accadere di sentirsi vivi.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia da “Verso le stelle glaciali” (riportala gentilmente) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

 Le poesie hanno sempre storie strane alle spalle, a volte interessanti, a volte no. Penso sia sempre più importante cosa accade dentro il testo, mentre lo si legge, più che quello che è accaduto prima di un testo. Se l’aneddoto che scatena la scrittura è più importante di un testo, allora è il caso di buttare via quella poesia: meglio scrivere il racconto dell’aneddoto. Proprio pensando a questo, vi propongo un testo che non ha una storia importante, ma è stato scatenato da un piccolo momento personale che però forse dimostra come procedo nel lavoro della scrittura. Questa poesia è nata in nave, all’alba, mentre con un traghetto stavo attraccando al porto di Catania. Quindi innanzitutto c’è quella strana ancestrale emozione che sempre provo quando arrivo in Sicilia. Però subito il fatto reale e vissuto si è mischiato ad un altro fatto, un fatto non meno reale e, sopratutto, non meno intenso: l’arrivo di Enea in Italia, così come è stato raccontano da Virgilio. L’aggettivo «basso» mima, alla mia maniera, l’humilis latino del poeta romano. L’esperienza della poesia, per me, è un modo per tornare alla vita, per sentirla più intensamente, più estesamente. Spero che questo passi attraverso le mie parole.

*

Quando viene a noi
la terra. Quando viene cielo
e basso orizzonte di case. Siano braccia.
Siano occhi, occhi a moltitudini, sono mondi
nel mondo ricevuti. Apro il cassetto.
Apro la bocca. Apro l’anta lo spacco la porta.
Fra le cosce, il libro la pagina la lettera
la rinuncia, la povertà. Ovunque
e dappertutto; in ogni dove io trovo
terra. E ancora

terra mi manca.

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 14.06.2020,  pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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