Valentina Calista, “L’abbraccio che manca al giorno”, poesia come spazio “sacro” per riconnettersi con l’universo.

«Questa è la vita, attaccata ai denti / tra la mostra degli incisivi e i sogni. / E rifare il mondo è un dono da curare, / custodire e innaffiare. Come fiori in estate / l’acqua non basta, servono fiumi, / torrenti per dissestare mancanze, / riempire vasi di attimi dimenticati». Versi di Valentina Calista, scelti per introdurvi alla lettura di “L’abbraccio che manca al giorno”, libro edito da “Giuliano Ladolfi”, nella collana “Perle poesia” diretta da Roberto Carnero. La Calista beve alla sorgente del linguaggio donandoci un «canto d’amore, semplice / trasparente come veli di nuvole al passo / dell’orizzonte», donandoci immagini di una sapienza terrena raccolta («scolpita d’eterno»), donandoci l’idea che viaggiando in noi stessi, nelle trame nascoste dell’essere, («io sono dentro»), sapremo che un «poco di divino può salvarci» dall’«olocausto quotidiano del vivere». E, ancora, di verso in verso, donandoci di andare fino alla nudità, fino a farsi tornire dalla luce, «e niente, niente più cercare».

 Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Ricordo che le prime poesie le scrissi intorno ai dieci anni e che le conservavo in un quaderno sulla scrivania della mia camera. Non ricordo le poesie e le filastrocche che scrissi da bambina ma ricordo perfettamente un aneddoto che riguarda gli anni del liceo, ovvero il momento in cui iniziai a capire  che la scrittura, la poesia in particolare, avrebbe fatto parte della mia vita. La mia cara insegnante di Italiano, la poetessa Paola Malavasi, purtroppo scomparsa anni fa, ci fece creare il giornalino della scuola e, nella sezione “poesia”, io pubblicai timidamente il mio primo testo. Ero emozionata, spaventata. Tutta la scuola avrebbe letto quei versi. La poesia era un testo malinconico e triste, in quel momento stavo passando un periodo adolescenziale davvero difficile, avevo 15 o 16 anni. Ma il testo piacque molto alla mia insegnante e mi incoraggiò a pubblicarlo. All’indomani dell’uscita del giornalino, una professoressa di matematica della mia scuola mi avvicinò chiedendomi se stavo bene. All’epoca, quel suo non capire la mia poesia, le mie emozioni, mi fece molto arrabbiare. Mi sentivo non compresa. Non mi capacitavo di come quella insegnante non riuscisse a capire il mondo di un’adolescente raccontato tramite la poesia. Per me era incomprensibile. Questa è la grande metafora che, se vogliamo, spesso ancora divide la scuola dai giovani. L’incapacità di molti professori di ascoltare il mondo dei ragazzi e tutte le loro problematiche.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

Molti sono gli autori che reputo per me significativi. La mia formazione accademica mi ha permesso di studiare, conoscere e apprezzare sia i classici che i contemporanei. Partendo dai primi, indubbiamente grande influenza ha avuto la grande letteratura delle origini della nostra tradizione letteraria. Possiamo iniziare con San Francesco d’Assisi. Indubbiamente poi Dante, Boccaccio e Petrarca. Soprattutto però, dall’800 in poi la letteratura è stata per me rapimento. Leopardi è stato colui che mi è entrato dentro negli anni dell’adolescenza (e ancora oggi non smette di rapirmi) e con lui i poeti romantici inglesi, Keats e Shelley, Coleridge, Wordsworth, Blake. Poi Foscolo e altri romantici europei. Ecco, il Romanticismo è stato il fuoco che ha acceso la mia poesia degli albori. Più tardi il grande Oscar Wilde, Emily Dickinson e molti altri.  Successivamente sono arrivati grandi del Novecento. Tra loro sicuramente Dino Campana e Sibilla Aleramo, Ungaretti, Pier Paolo Pasolini, Montale, Pavese. Poi è arrivata la passione per la poesia femminile e per la poesia di ispirazione mistica: Cristina Campo, Margherita Guidacci, Alda Merini. Rimanendo in tema di poesia d’ispirazione religiosa sicuramente i miei due grandi fari sono stati la Merini e David Maria Turoldo. Li ho studiati entrambe per molto tempo. La mia prima tesi di laurea fu sulla poesia religiosa della Merini. Successivamente mi sono occupata di Turoldo anche durante il mio Dottorato di ricerca all’estero, in Inghilterra, per cui ho approfondito la ricerca sulla poesia di ispirazione salmodica di padre Turoldo. Dei poeti contemporanei viventi la mia preferita è Mariangela Gualtieri. Mi piacciono molto anche Franco Arminio, Erri De Luca (forse non molti lo conoscono come poeta), Cesare Viviani, Roberta Dapunt, Patrizia Valduga e Chandra Livia Candiani.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Sono troppi i versi e i poeti che non dovremmo mai, e dico mai, dimenticare. Però, rimanendo attaccata alla nostra tradizione classica, credo che i versi che non dovremmo mai dimenticare come popolo, come nazione e come individui siano quelli di Dante del Canto XXVI dell’Inferno. Forse una scelta banale ma mi pare idonea per questo momento storico che stiamo vivendo di folle contemporaneità: Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e conoscenza. Ecco, credo che non dovremmo mai dimenticare che la vita andrebbe vissuta nello spazio delle virtù, che elevano, e della conoscenza del mondo, dell’altro.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Solitamente la scrittura poetica, ma in generale la scrittura, occupa la seconda metà della giornata, in particolare il tardo pomeriggio e la sera. Questo mi accade da sempre e la spiegazione è nel fatto che quando la giornata volge al termine subentra per me una fase di calma e riflessione in cui mi dedico, quando posso, alla pura contemplazione, alla riflessione e al raccoglimento. In questi momenti scrivere è un flusso che mi aiuta a dare un senso di compiutezza alla giornata e a canalizzare l’ispirazione mettendomi in ascolto di me stessa.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Non darò spiegazione o definizione di poesia dal punto di vista razionale del critico letterario perché non mi appartiene. Pur avendo fatto studi filologici e tentato la carriera accademica – che ho deciso di abbandonare per tornare alla mia vera passione lavorativa, l’insegnamento a scuola, la relazione con i ragazzi – il mio rapporto con la poesia e la scrittura nasce da uno spazio diverso, da quello intimo dell’umano, della persona in relazione con l’universo. Perciò la poesia è per me quello spazio sacro e incontaminato in cui mi riconnetto con l’universo, con la mia anima. Anima, una parola che fa quasi paura oggi, una parola che se pronunciata rischia anche di essere sbeffeggiata dai cinici dell’intellettualismo. Come diceva Leopardi, o si è filosofi o si è poeti. Diciamo che ho scelto da che parte stare. La poesia è un mezzo che ci eleva a qualcosa dal sapore sacro. Non è un caso se il mio secondo libro l’ho intitolato Carne sacra. Noi siamo “carne sacra” e la poesia ci permette di sentirlo, di percepirlo e di ridarlo all’esterno, al lettore, agli altri, che leggendo si sentiranno anche loro avvolti in uno spazio sacro.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Personalmente sento che una poesia è compiuta quando dopo il labor limae sento che il testo ha una sua indipendenza, una sua vita e mi convince della sua completezza attraverso la sua musicalità e il suo corredo. Ci sono poesie che nascono già compiute e quando ciò avviene è un miracolo vero e proprio, un inno all’ispirazione e alla creazione. Poi ci sono poesie che faticano di più ad arrivare alla compiutezza e che richiedono maggior lavoro, che a volte significa tagliare drasticamente, per esempio, o gettare via. Non bisogna aver paura di gettare via.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

La poesia è per me un mezzo già puro anche quando è profano. Per questo dico di sì, la poesia può restituire purezza alla parola perché è già pura. La poesia, innalzando la parola a una tensione verso l’indicibile, verso qualcosa di irrazionale, verso il mondo delle passioni e del divino, dona purezza alla parola, la eleva.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Mai come oggi la poesia ha, secondo me, la funzione di ricordarci la nostra umanità. La poesia, quella vera, ci ricorda, quando glielo permettiamo, che siamo sempre alla ricerca di bellezza, che ne abbiamo bisogno per vivere e sopravvivere in questa contemporaneità che lascia indietro le cose più belle della vita a favore del superfluo, dell’ego e del capitalismo. La poesia oggi ha l’incarico di farci fermare, pensare, sospirare ancora, farci guardare alla nostra vocazione umana, ai nostri sentimenti, quelli veri, profondi, che nella frenesia quotidiana si fanno da parte schiacciati dai nostri atteggiamenti di sopravvivenza. Ecco, la poesia oggi ci ricorda il valore del silenzio, di uno spazio intimo nel quale ancora possiamo permetterci di Essere.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Amo Leopardi e quando ho necessità di rifugiarmi mi piace farlo in questi versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Una poesia che è nata per l’uomo, che raccoglie in sé tutte le nostre fragilità e le domande che l’esistenza ci impone di farci. Non c’è da aggiungere altro, questa poesia parla da sé (e per tutti) da duecento anni a questa parte.

E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

Un’altra poesia che amo moltissimo e alla quale ricorro spesso come una preghiera è Ringraziare desidero di Mariangela Gualtieri. In particolare questi versi:

Ringraziare desidero il divino
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione,
che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto
e l’uccello leggero che vola oltre, più in alto, più su.

Ringraziare desidero per l’amore,
che ci fa vedere gli altri come li vede la divinità,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede.

 

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal recente libro (riportala gentilmente) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere?

Le Altre

Salgo le scale della nostra casa
esco allo scoperto lascio i vestiti
le scarpe e le Altre. Sono aria sono
aria sparsa per il mio intorno e di più.
Seguo il volo di una gazza, io ladra
di particelle di vita fermentata.
Bevo dalla foglia ciò che finalmente
sono. Non Io ma io.
Esco allo scoperto lascio i libri e le sentenze
le lagnanti storie della monografia, i vestiti
della giustezza sociale che avevo cucito.
Nuda. Come presenza bellissima di neve
silenziosa come l’adorazione, come la sete.

 

Ho scelto questa poesia, intitolata Le Altre, perché è il simbolo di un cambiamento, di una consapevolezza per me molto importante arrivata un paio di anni fa quando ero in Inghilterra, dove ho vissuto, studiato e lavorato per svariati anni. Rappresenta una svolta importante, arrivata dopo una crisi, un mettermi in discussione in toto, che mi ha portato a riabbracciare, come già accennavo prima, il mio vero io e non l’Io, quello dell’ego in prima linea, autoreferenziale e che in quel momento, ad esempio, la società in cui vivevo (quella inglese) e l’ambiente accademico (sempre quello inglese) andavano a stimolare. Le Altre sono le molte parti di noi, quelle che indossiamo come vestiti nella quotidianità e che nascondono e talvolta proteggono il nostro vero io, quello della nostra materia più vera, quello dove risiede la nostra vocazione, il nostro brillare, il nostro splendere. Non si può splendere indossando l’altro Io, quello gradasso che scazzotta per farsi spazio a tutti i costi, quello prepotente. Ecco, questo ritorno alla propria “casa” è un passaggio che è stato alimentato da una realtà che stavo vivendo, che ho scelto io e che inizialmente credevo andasse bene per me. Con il tempo, invece, mi sentivo perennemente in conflitto con quella realtà fin quando mi sono rimessa in ascolto di me stessa, grazie alla poesia, grazie al suo potere salvifico, catartico. Una purificazione, un nuovo inizio. Questa poesia è il simbolo di una svestizione che riguarda tutti: significa togliere il superfluo, abbandonare le complessità inutili, le altre nostre facce, lasciar andare ciò che non ci rappresenta più e avere coraggio di cambiare. Accettare la nudità, la purezza, e godere di ciò che siamo davvero, nel bene e nel male.

 

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 05.04.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

 

 

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