#1Libroin5W.: “Rivolti al monte” di Gandolfo Cascio, Marsilio.

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Chi? 

Come per altre miscellanee, potrei dire che il libro conosce due categorie di protagonisti: e cioè da una parte i personaggi dei vari canti del Purgatorio (il testo ha, o dovrebbe avere, la precedenza), e dall’altra gli autori dei saggi.

Casella e Matelda, Forese o le ninfe, Virgilio e Beatrice – e lo stesso Dante – oltre alla propria “biografia” largamente reale, dico documentabile storicamente o culturalmente, portano con sé nella finzione letteraria pure una buona misura di fantastiche invenzioni che, di volta in volta, servono agli ingranaggi della narrazione, ai ludi delle rimerie o, come ci si può attendere da un testo medievale, alla definizione e perfezione di una serie di simboli metafore allegorie, significati e temi cari al poeta. Mi rendo conto che ciò vale anche per gli altri libri della Commedia, ma mi pare che qui appaiano più onesti; e questo, sono persuaso, è dovuto al fatto che sovente si tratta di amici e colleghi di Dante: poeti, musici, artisti con cui ebbe a che fare e di cui conosceva benemerenze e ombre: tant’è che, fraternamente, benché non li consideri pronti al paradiso (ne hanno combinate non poche!), non se la sente di abbandonarli alle tenebre e perciò se li porta in questo luogo della speranza.

Si può concordare con Garboli e pensare che il critico sia uno «scrittore-lettore»; e ancora, assecondando la teoria della ricezione, proprio perché lettori (sebbene per niente comuni), gli studiosi in qualche modo hanno la possibilità di divenire comprimari del libro. In fondo, quantunque non si creda al sillogismo, resta che ogni critico entra nel “racconto” che propone con la scelta del tema e del metodo di indagine, la lingua e, sommamente, lo stile; ma, perfino attraverso la nazionalità, età, genere, convinzioni politiche o religiose… La critica, insomma, non dovrebbe essere faziosa, ma non è neutrale. Colleghi – dantisti, teologi, storici dell’arte, musicologi – con cui è stato un piacere e un onore collaborare.

Cosa?

La Commedia, si sa, affronta diversi temi che la rendono senz’altro uno dei testi  fondanti e quello fondamentale del patrimonio occidentale (con buona pace di Harold Bloom che, invece, consegnava la palma a Shakespeare). Uno di questi argomenti è senz’altro la libertà, che si manifesta già nella struttura morale, perché si viene castigati o premiati a seguito delle proprie scelte; ma in modo più esplicito è nominata nel primo canto: «libertà va cercando, ch’è sì cara» (Purg. I 71) e poi nel XVI: e non può certamente trattarsi d’un caso se i versi dove se ne parla con  più precisione (70-84) si trovino nel mezzo del canto, della cantica e della Commedia, a segnalare, in questa perfetta geometria architettonica, il peso della questione. Poi Dante continua a indicare la razionalità come valore guida delle azioni; la gentilezza, che possiamo pensare come un’invenzione italiana; esalta e rimpiange l’amicizia; conferma il ruolo, politico e morale, dell’Italia, contribuendo alla costituzione dell’identità nazionale. Si conversa parecchio di letteratura, della propria e quella degli amici/nemici; della preghiera: intesa come momento di comunione tra i vivi e i morti; e poi c’è l’argomento inerente all’esistenza stessa di questo regno, ovvero il fatto che ogni persona meriti una seconda opportunità alla felicità.  

Quando e Dove?

Nel novembre del 2021 l’Observatory on Dante Studies dell’Università di Utrecht, che dirigo, e l’Istituto Italiano di Cultura di Amsterdam hanno organizzato un convegno di due giorni in occasione del 700° anniversario della morte di Dante Alighieri. Questo libro raccoglie una serie degli interventi proposti in quell’occasione e di cui ora sono testimone.

Perché?

La prima ragione è, come accade, personale. In poche parole, per me il Purgatorio è la cantica più bella. Mi rendo conto che è meno affascinante della prima e meno ardente del Paradiso; ciononostante, è quella che rileggo non solo per lavoro ma perché soddisfa la mia curiosità di contenuti e di stile.

Quella professionale è stata però altrettanto determinate, visto che, nella pur sterminata bibliografia, ai personaggi del Purgatorio, oltre alle eccezioni di Pia e Matelda e Belacqua, non è stata data l’attenzione, critica e creativa, che meritano; lo stesso discorso si può fare per certe tematiche. Allora, in un ininterrotto confronto con la storiografia, abbiamo provato ad approfondirle, rivederle sulla base di nuove acquisizioni o recenti innovazioni di metodo. A volte, infatti, la prospettiva da cui si guarda un oggetto può fargli mutare forma, sollecitare a riformulare giudizi. A seguito del convegno ci è sembrato utile condividere con la comunità scientifica e quella dei lettori colti quanto abbiamo discusso durante il convegno.

Per esempio, io ho riflettuto sullo stile del Purgatorio. Ogni studente sa del plurilinguismo e del pluristilismo della Commedia, e in questi casi si mettono spesso a confronto gli abissi dell’inferno o le altezze vertiginose degli ultimi canti, e si evidenzia la mescolanza, superando le norme della convenientia. Ora, per quanto questi 33 canti mezzani partecipino alla realizzazione del complessivo progetto formale, essi sono essenzialmeneti portatori di uno stile mediano: sia per il “carattere” e lo status dei personaggi che s’incontrano, sia per la posizione narrativa, geografica ed etica del regno. Uno stile, supremamente elegante, addirittura squisito che ho voluto definire – con un calcolato anacronismo –“petrarchesco”, come si legge nel passo dall’Introduzione che riporto di seguito.

Scelti per voi

dall’introduzione:

L’estetica della Commedia e indispensabilmente gotica: nei segmenti diritti che a piombo si rovinano fin oltre il fondale del pianeta e dove pallidissimi fantasmi incarcerati in foschi fondachi grottescamente horror degenerano in fiabeschi bestiari; e in quelli verticali dall’andamento solenne e ardente della teoria degl’imperturbabili campioni della fede e della carita, sollevati fino alla periferia del roseto inalterabilmente immacolato; ma ciò s’invera malgrado queste stesse linee che, per capriccio, s’infiammano e si slabbrano nelle baroccheggianti e frolle curvature degli anelli – gironi, vallette, cornici e cieli – del maestoso retablo.

Viceversa, il purgatorio, quantunque all’indentro di quest’istituto pianificato come un tutt’uno infrangibile, si esibisce più prossimo a una fine dimenticanza romanica. Movente di questo convincimento sono la “prospettiva” ampia e ragionata, la postura delle cose e dei defunti che si leva sobria e salda nella montatura della messinscena; e quest’ultima non ritiene nulla del fantastico incubo da cui l’actor è evaso, ha niente del caparbio, ostentato e «indeterminato microscopismo nordico»; né è ancora l’estatica e ineffabile, visione dell’(e)utopia a venire.

Con signorile assestamento stilistico lo raccontò De Sanctis come «un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all’arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a’ profani». Un’intelligenza, m’immagino, tenuta a mente da Tomasi di Lampedusa, quando in un suo ragionamento spiana una perplessità, credo, di parecchi:

Tutti noi conosciamo ed amiamo il Purgatorio dantesco. Quanti di noi però hanno riflettuto che esso rappresenta un luogo di pena, che in esso le anime soffrono dei tormenti paragonabili a quelli infernali? Ogni lettore, credo, voglio sperare, giunge all’ultimo canto con l’impressione di aver attraversato una regione di pacata serenità, sempre illuminata da un benigno sole. Così non è, liste dei tormenti alla mano. Così è, per la maggior parte dei lettori, in virtù dell’arte di Dante.

E, infatti, gli ambienti e i momenti sono coinvolti d’una prepotente sensualità pittorica, in un clima di araldica quiete, come distesi in un invidiabile rosa mentale; dove i morti si compiacciono delle calde norme dell’elegia – nelle dimensioni, nell’“arredamento” o teatrini campestri, le luci meridiane, le fragranze per niente aspre, nella sequela tra le vacanze di silenzio e i pieni musicati – per raccogliersi in una composta solitudine, indugiando, ognuno per il tempo che gli serve e che è opportuno, a studiarsi, a fare di conto, a ponderare la caratura della propria biografia; e, di seguito, avviarsi, avanti e in alto, disperdersi in un coro a pregare liturgie e lodi per riconciliarsi con Dio.

La vita – i traffici in città e nell’agro, il batticuore, le inquietudini feriali – non è scordata, ma viene corretta, a partire dallo sguardo che non deve essere fuori di sé, come sarebbe nell’inferno, dov’è atrocemente e stupidamente teso ai petites romances, all’onorevole nome, alla custodia d’un forziere, al vanto effimero d’una

picaresca ma scriteriata gita; o, come sarà, in riverenza all’enigmatica Trinità.

Ora ogni guazzabuglio si scioglie nel petto, in un’insuperata corona di immagini accuratamente malinconiche. Una cognizione inaudita, perché accessibile da chiunque e non solo dai beniamini, e per di più mai imitata, se si pensa che contrasta anche le altre idee che via via le si sono costruite attorno: dacché è tutt’altro che un demonio che mal dirige, un morbo del cervello o la cenciosa apparizione di Ripa, il quale suggerisce di fuggire «come cosa dispiacevole la conversatione de gli huomini malinconici». Dante rende i purgandi uomini e donne dignitosi, garbati e, segnatamente, fiduciosi del loro futuro; e con loro si trattiene volentieri, manco fossero nel forum in Fiorenza.

L’equilibrio tra l’isolamento della concentrazione e della penitenza, da un lato, e della convivenza dall’altro, rassomiglia alla dimensione monacale; e magari anche per questo, se la cantica prima e dei padri, questa può ritenersi quella dei germani, dei pari. Una simile confidenza consente a Durante degli Alighieri, tra inni e litanie, di attendere a certi suoi dubbi e, con gioia, di ritrovare i compagni, Stazio e la sua donna, l’ardita giovinezza e il «vert paradis des amours enfantines»: un tempo recuperato ma che non si può trattenere perché bisogna correre al monte, e che si è disposti e pronti a perdere nuovamente e, stavolta, per sempre (Purg. VIII 1-6):

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo di c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more.

Versi penosi che Elsa Morante con scialo ricalco nel proprio taccuino d’oro:

Segreta, lo so, e la stanza del prezioso cuore ch’io cerco.
Lungo e incerto il viaggio fino al nido
di questa civetta-fenice.
Inesperta son io,
compagno ne guida non ho,
ma giungero alla camera felice
del mio bell’idolo.
Addio, dunque, parenti, amici, addio!

È qui, inoltre, che Dante trionfa e della poesia ci rammenta il talento balsamico, aggiorna il proprio – e non solo! – pregevole repertorio. Sicché, per dare soddisfazione all’urgenza stilistica, che peraltro l’organizzazione del poema consente, il Purgatorio si risolve in un’elezione formale per niente sismica o obliqua: né umile, mostruosa, scapigliata e superbamente sub limes com’era stato l’idioma avernale; ma nemmeno angelica e dottorale come nei trentatré canti ultimi. Essa e novissima e dolcissima, conveniente a gente perbene, o che tale sta tentando di divenire. Il carattere, i gesti, il tono della voce, l’andatura si adeguano all’attuale condizione. I signori e le signore, illustri o borghesi, raccolti in sé o in riunione o al passo se ne vanno con un contegno modesto ma lieto, mai austero, o guastato dal malumore, corrotto dall’avvilimento. Pari pari al benessere interiore si conforma la parlata, perché le «categorie di “buono” e “cattivo” sono, prima e prima di tutto, estetiche, e almeno etimologicamente precedono le categorie di “bene” e “male”».

Insomma, per l’inclinazione alle confessioni del proprio secretum ma, massimamente, per l’impeccabile mediocrità espressiva il Purgatorio appare come un foglio dato fuori dalla stamperia di Francesco Petrarca […].

Gandolfo Cascio (nella foto in copertina di Piero Messineo) è docente di Letteratura italiana e Translation Studies all’Università di Utrecht, dove conduce anche il progetto Observatory on Dante Studies. Le sue ricerche si concentrano sulla ricezione di autori canonici e sulle loro reciproche influenze, soprattutto stilistiche. Ha pubblicato le monografie Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori (Marsilio, 2019; traduzione inglese: Brill, 2022); Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti (Marsilio, 2021; Premio Nino Martoglio); e la raccolta di saggi Le ore del meriggio. Saggi critici (Il Convivio, 2020; Premio G.A. Borgese).

 

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