#1Libroin5W
Chi?
I personaggi di Opus Metamorphicum sono tratti dalla storia della letteratura, della filosofia, dell’arte, della religione. Si tratta di figure sulle quali si è fissata negli ultimi anni la mia attenzione e il mio studio e che rappresentano per me suggestioni simboliche multiformi. In genere, nelle figure che scelgo a soggetto, si condensano tutti gli aspetti della variegata natura umana, nella sua essenza di essere umano e di angelo fusi insieme, per parafrasare Kierkegaard. Come scrivo nelle Avvertenze al lettore preposte al libro, “alcuni personaggi mostrano la disperazione di una variegata condizione psicopatologica (come il depresso e dipendente affettivo Poe, il parafiliaco De Sade o il narcisista Rimbaud). Altri sono smaccatamente misogini (Nietzsche, con il suo antifemminismo maschilista, o Ciro di Pers, che mette peraltro in opera un vero e proprio trattato sul Tempo). Altri ancora evidenziano mali e storture della società contemporanea (Marx, nella sua critica sessualizzata al neocapitalismo; Il Joker, con la sua tirata sul Male Assoluto; Little Boy, che simboleggia la mostruosità della guerra e di quest’epoca figlia dell’Atomo). Maria e Maddalena sono gli unici due personaggi femminili della diade narrativa: significativamente, rimangono mute in quanto donne sopraffatte dalla Religione e da una cultura storicamente priva di matrilinearità che chiede riscatto. Ad apostrofarle sono infatti due principi maschili: Dio in persona e Cristo. In questi monologhi e in Stefano IX emerge l’odierna crisi del Sacro e l’ipocrisia convenzionale della Chiesa. Altri testi sono più smaccatamente filosofici, come Hegel, che si lancia in un’autoapologia per difendersi dai detrattori passati e futuri; Fibonacci, che tratteggia un microtrattato sull’armonia matematica del Cosmo; Michelangelo, che discorre di estetica dell’arte e definisce il concetto metamorfico di forma; Wittgenstein, che scopre l’ineliminabilità della metafisica sottesa alla struttura stessa del linguaggio.”
Cosa?
Attraverso il tentativo di perseguire la fusione tra elemento narrativo e riflessione filosofica, attraverso un linguaggio poetico e uno stile ormai perseguito scientemente sull’onda del massimalismo neobarocco (applicato però al testo breve come può essere un racconto o un monologo, non al tipico “romanzo-fiume” alla Pynchon, per intenderci) cerco di far emergere tutti gli aspetti della contemporaneità, dalla negatività all’estasi. Fin dal mio primo libro di racconti Opus Metachronicum, uscito per Corrimano Edizioni nel 2014, che in qualche modo può essere considerato il gemello più vecchio di Opus Metamorphicum, ho avviato una sorta di “carrellata straniante di mostruosità postmoderne nella forma del conte-philosophique” perché da sempre, in prosa, mi affascina il mistero indecidibile della devianza connaturata nell’essere umano, se è vero, con Lotman, che “niente nella natura può essere considerato estraneo ad essa”, men che meno nella natura dell’uomo, capace da sempre di voli eccelsi nel mistico come anche delle peggiori atrocità della storia. I personaggi del mio nuovo libro ragionano intorno all’essenza della storia, della patologia, del tempo, della società in tutte le sue sovrastrutture e nelle sue iporealtà fondanti. Una sorta di gioco delle perle di vetro continuamente ammiccante, tra la citazione continua e lo slancio meditativo.
Quando?
Ho scritto nel corso degli ultimi dieci anni questi racconti/monologhi/saggi, con intenzioni che bypassano completamente la dimensione facile e confortante di un genere letterario riconoscibile per andare a parare in una dimensione metagenere. Sono da sempre una lettrice accanita e provo un amore passionale per i testi e per gli autori che considero colonne portanti della mia coscienza e della mia struttura interiore. In Opus Metachronicum i personaggi, presi di peso dalla loro epoca e catapultati nella contemporaneità, erano, tra gli altri, Van Gogh, Pasolini, Proust, Jack Lo Squartatore, Marguerite Yourcenar, Dorian Gray, il marito cornificato di Madame Bovary, Gaio Curione (colui che in un singolo istante di storia condensata suggerì a Giulio Cesare di passare il Rubicone cambiando così irrimediabilmente la storia di Roma e del Mondo). Ognuno di loro puntualmente rappresentava un raggrumo condensato del senso dell’esistenza colto nel momento dello stallo, nella sospensione temporale, istante preciso in cui avviene il dis-velamento veritativo degli archetipi in quanto tali. In Opus Metamorphicum, seguendo lo stesso schema ma estremizzando in esso il momento teoretico ed estetico, sono passata dall’indagine del tempo a quella della forma e della sostanza cangiante della materia, in una sorta di diade del Cronotopo, passando dall’indagine del tempo a quella dello spazio.
Dove?
Ho scritto questi testi nello stesso metro quadrato, tra l’angolo della libreria a muro e il monitor del computer della mia casa-rifugio, come se quello spazio ristretto possedesse una particolare energia tensiva della creatività, a differenza di quanto mi accade con la poesia, che butto giù su veri e propri taccuini senza righe, con carta e penna, portandomeli ovunque. Tuttavia, lo spazio contenuto nell’Opus è senza confini netti e stabiliti, l’elemento metamorfico attua un continuo trapasso tra lo spazio e l’identità dei singoli personaggi, che perdono inevitabilmente la propria determinazione storica per reincarnarsi in un qui-ed-ora indeterminato e sospeso, rappresentando pertanto, simbolicamente, i nostri aspetti mutevolmente nascosti, dal più vile e meschino al più nobile ed elevato, in una sorta di summa metalogica dell’esistenza stessa.
Perché?
Perché credo fermamente in uno stile narrativo che definisco da anni “neomassimalismo barocco”. In un intervento sulla rivista di ricerca letteraria Diaforia, sostenevo già qualche anno fa che i miei narratori italiani preferiti sono riconducibili alla Sacra Trimurti Gadda-Morselli-Manganelli (con deviazioni verso il Volponi romanziere e Stefano D’Arrigo, Savinio e Landolfi), tutti autori in cui è ravvisabile “del massimalismo letterario l’attitudine viva alla continua digressione, al pastiche, alla citazione pseudoplagiaria, ovvero taciuta perché data per scontata; ne possiedono l’attitudine all’espressione del personaggio visto come allegoria o simbolo che rimanda ad altro e, nella fattispecie, all’unico appiglio che rinnega la società dei simulacri, nell’istituzione salvifica del narrabile come unica via per catturare, nella finzione, un barlume di reale; ne possiedono la captazione dell’insolita difficoltà unidimensionale del verumfactum, nell’impossibilità concreta e concrezionale di dire vero o falso; come anche l’anelito al narrare per il narrare, in virtù del tentativo indefesso di cortocircuitare il dicibile per renderlo iconico, non tanto nell’inesauribile fluide di pagine e pagine come accade in Gravity’s Rainbow, quanto nel frammento, nello scorcio, nella misura della pagina, che nel massimalismo propriamente detto, si incastona all’interno del fluire inesauribile della narrazione, e negli italiani, invece, fa da sé, divenendo autotelico e autodeterminante: come accade appunto ad una pagina di poesia” (Diaforia). In questo senso, la filosofia per me è una domanda paga del suo svolgersi senza mai poter ricevere una risposta definitoria e definitiva. Un po’ come la vita. E come la vita, spesso, si fa arte, e quindi letteratura. Ovvero poesia.
Scelti per voi da Opus Metamorphicum (A&B Edizioni 2021)
da Ciro di Pers
[…] Mi permetto codeste meditationes metaphysicae perché io, in fondo, sono un esperto del tempo. So come nasce e come muore un uomo. Piangendo e sospirando, si chiude il circolo vizioso dell’alfa e dell’omega, senza un aleph di riferimento, senza un Dio, un Unicum, un bue cornuto da sacrificare sull’altare della specie. L’azione del tempo sugli uomini si chiude nel cerchio senza scampo della nascita e della morte con una precisione al millesimo di secondo, che può essere imputata solo all’invenzione di un tourbillon metafisico, un intervento meccanicistico che riduce al minimo gli scarti di marcia del bilanciere del cosmo. Un’azione è sempre ponderata da Dio, si è soliti dire, stabilita a tavolino nel gioco di carte in solitario di cui in fondo parla Platone nel Timeo. Demiurgo chirurgo. Demiurgo che agisce. È Dio il supremo attore del cosmo, e un attore è sempre e solo compiutamente una persona, in senso letterale, etimologico. Un attore, hypokritès per natura e per definizione, può nascondere le sue fattezze dietro la maschera del personaggio che interpreta. Non altrettanto si può pensar di fare con il quadrante di un orologio, il cui volto è lo specchio manifesto e lampante dell’anima del tempo, la cui ruota dei minuti, posta al centro centrato del mondo, compie un giro completo in un’ora, ma sempre e solo se ingranata con la ruota intermedia che trasmette il movimento alla ruota dei secondi, la quale a sua volta si concentra nel sacrale sforzo del pignone di centro per accordarsi alla lancetta coassiale all’asse delle ore e dei minuti e che a sua volta muove la ruota di scappamento fra i cui denti è morsa in tenera tenuta la leva dell’àncora, che per l’appunto non si decide, in questo dannato orologio che mi giace deceduto nel palmo della mano, a funzionare.
È un bel problema, ma ho tutto il tempo di risolverlo, in fondo. Ci sarà tempo, ci sarà tempo… […]
da Il Joker
[…] La mia vita è la testimonianza scabra e secca della coincidentia oppositorum, caricata di malasanità e di divino. Sono ciò che sono, e sapete che c’è? Ho tutto il diritto di esserlo. Se io non ci fossi, se la mia sostanza concrescente non spargesse le sue larve fecondatrici sul mondo dei bravi ragazzi che mi leggono sui fumetti ogni mese, allora nulla sarebbe. Se non esistesse il Bello platonico, ideale, il modello paradigmatico della bellezza coalescente, se fosse vero che essa è un mero accidente, che si connette alla bisogna a qualcuno o qualcosa in quanto qualità categoriale, allora non si capirebbe come mai le qualità si differenziano, e su quale base si fondano.
Io sono un sinolo di materia e forma in cui la materia vince ed emerge dal letame del concetto. Io sono un assassino del senso e del significato, che sparge la peste su villaggi, paesi e città, talmente connaturato all’essenza dell’essere umano da risultarne la crosta impastata d’argilla, la stessa sostanza della costola d’Adamo. Io sono il male di carne, io sono l’Antidio. Io sono la negazione, l’immane potenza del vuoto, e come vuoto mi perdo nel vostro perdervi quotidiano e sovrano. Abbandonatevi a me, sono la via della perdizione, il perdersi che è un ritrovarsi, nella propria natura reale e razionale. Non sono l’accidentale, io consisto nel sostanziale. Non sono la sottrazione, ma il riempimento. E la mia vita è divina, divina perché malata, divina perché luciferina, checché D’Annunzio ne pensi, rimbrotti, schiumeggi e protesti, nella logica del caos, nel meriggio ottenebrante di quest’immensa luce di tenebre che avvolge e avvolgerà per sempre Gotham City e tutta la Terra.
da Wittgenstein
[…] Appunto disordinato, numerato alla rinfusa. Scritto per puro caso. Con il filo di sangue che macchia ogni giorno il mio rasoio di Occam.
Giorno: corrente. Rilettura: infinite volte, e con sfumature metaforiche sempre diverse. Le sfumature le ha operate il barbiere di Occam. Come la zigrinatura obliqua della capocchia di uno spillo, come la tonsura circoscritta di un chierico vagante, un circolo di senso e significato mi vortica danzando nel cervello. La soluzione più giusta è sempre quella più semplice. Così si risolvono davvero i problemi: scoprendo che non ce ne sono mai stati.
Lettori posteri presunti: il maggior numero possibile. Perché è bene che quanto di ovvio vi sia in queste pagine venga rimuginato.
Perché è bene che se ne parli.
Perché è nell’ovvio che c’è davvero la meraviglia.