1Libroin5WPOESIA.: “Apprendistato alla salvezza” di Pasquale Vitagliano, Interno Libri.

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Chi?

Sono un poeta e un critico d’arti. Sì, d’arti. Non ho sbagliato. Penso che tutte le espressioni artistiche, dalla pittura al cinema, dalla musica alla letteratura, siano tra loro strettamente collegate. E dunque, che l’analisi e la divulgazione di questi sistemi formali, di questi veri e propri mondi culturali, possa ormai costituire un’auotonoma e specifica linea di interpretazione.

La poesia, tuttavia, resta la mia principale e intima forma di espressione. Quella che, come i sogni, mi permette di mettere in connessione il mio corpo con la dimensione del pensiero. Di questo circuito energetico la parola poetica è il portale, fatto di segni e di voce.

Alla fine, comunque, la definizione che più mi piace, perché più fedele alla mia identità è quella di scrittore. Penso a Roland Berthes e al suo saggio sul Piacere della Scrittura. È una funzione umana unica. Personalmente, mi piace constatare che dai saggi giuridici agli articoli su settimanali di cronaca rosa ho scritto di tutto e su tutto. Non è una forma di ossessione compulsiva ma una segno di devozione.

Cosa?

Il tema di Apprendistato alla salvezza conclude una triologia sul corpo, preceduta dalle altre due raccolte: Habeas Corpus e Del fare spietato. Come le pietre delle Cattedrali per il Medioevo, basti ricordare Victor Hugo, raccontavano ciascuna una storia, il corpo è diventato nella nostra epoca esso stesso un testo, talvota un intero palinsesto. L’esempio più banale è la moda dei tatuaggi. Sotto il profilo etico, poi, il diritto alla tutela del proprio corpo (anche da sé stessi) è l’estrema frontiera dell’evoluzione giuridica della nostra civilità. La pandemia ha reso drammatica questa questione. Ma ci sono altri dilemmi, più privati, ma altrettanto decisivi, che restano aperti e sfidano la nostra umanità.

All’interno della trilogia, questa raccolta, pur senza proporre sparanze illusorie o coltivare consolazione, chiude un cammino di formazione e consapevolezza rispetto al dolore, privato e collettivo. Ci si può salvare anche senza lieto fine. Ma non ci salva la parola. Ci salviamo attraversando in silenzio la notte. La poesia non salva ma ci accompagna.

Quando?

È nata come un’urgenza di chiudere l’atto scandito dalla raccolta Del fare spietato. Devo ammettere che è stata un’esigenza più umana che letteraria, in quanto questa raccolta ha increibilmente presagito la malattia. Ho sentito la necessità di aggiungere un tempo conclusivo. Per giunta, ho trovato conferma di quello dicevo, del dialogo misterioso e continuo tra mente e corpo. La poesia è il medium che mi ha permesso di parteciparvi e di comprenderne il linguaggio.

Dove?

Direi che il mare, viso sempre dallo stesso punto, è il locus della mia poesia. Il testo, come in genere tutta la mia poesia, cresce per stratificazioni e sedimentazioni continue. Come l’arte, come il corpo, anche la mia poesia è un palinsesto che è radicato nel dialogo tra corpo e mente, ma si alimenta perennemente e in modo circolare degli stimoli sensoriale e intellettuali di tutte le forme d’arte. Le categorie spazio-temporali di questo discorso, però, vengono dalla vita quotidiana: i luogi, gli oggeti, le figure, le parole.

Perché?

L’ho già detto. Questo libro è nato da un’urgenza. Il titolo fissa il tema di questo terzo tempo: la salvezza. Ma non come approdo finale, da acquisire una volta per sempe, magari. Ma come apprendistato. Formazione permanente. Penso sia utile leggerlo. Come si dice oggi? Leggerlo è un’esperienza esistenziale. La poesia non ci salva la vita. Ma ci salva l’esistenza. Solo le arti poetice possono farlo: toglierci dal piano dello spettatore-consumatore passivo e metterci su quello incandescente ma anche stupefacente dell’unicità. Una condizione esistenziale che abbiamo provato solo da bambini.

Scelte per voi

 

Ogni carnefice ha un cane
Oggi sono il cane di me stesso
Ci deve essere un posto
Dove la vittima non se la fa addosso
Quando vede il cane che va incontro
Dove la vittima sopravvive al carnefice
Anche questo è un uomo
Che sta steso sotto un sole a scacchi
Tutti dello stesso colore alluminio senza alternanza
Anche oggi ce l’ha fatta a non farsela addosso
Sono arrivati i nostri a liberare i campi dai cani
Hanno il camice bianco e non sanno dire ancora
Se sono un uomo.

 

L’idea di questa poesia nasce dalla constatazione, grazie al cinema, che la paura è associata alla minaccia di un cane scagliato contro da un carnefice, per esempio, nei campi di concentramento nazista. Ciascuno di noi, però, a volte è il carnefice di se stesso. Commentando questa poesia Valerio Magrelli vi ha visto un richiamo al mito di Atteone. Mentre Marino Magliano, recensendo il libro su Nazione Indiana, ne ha colto anche il risvolto benigno della solitudine della scrittura. “Dev’essere qualcosa che lega scrittori e poeti il bisogno di identificarsi in un cane solitario. In un mio libretto sul paesaggio olandese faccio chiedere a un camminatore con cane: Lei non ha un cane? La domanda è rivolta naturalmente a un camminatore senza cane. Uscire la sera in questo quartiere sbattuto dal vento e dalla pioggia è una forzatura, uno lo fa se deve portare fuori il cane”.

 

In questa poesia non ci sono alberi
Animali o elementi naturali
Neppure parti del corpo e
Neanche oggetti di uso comune
Che pure sono quelli che preferisco usare
In questa poesia ci sono soltanto
settanta parole che senza aspettarsi premi
Cercano di scrivere appena
Ciò che la vita non riesce a dire
Quello che dalla vita avanza
Perché possa smaltirsi il dolore
Per dare un senso alla salvezza.

 

Questa poesia è dichiaratamente contraria alla linea “della decrescita” che tende a confondere essere umano ed esistenza naturale. Si tratta di un filone molto recente e di grande popolaità che, magari senza volerlo, offre a noi una consolazione, se non un alibi alle nostre cadute, e dà della Natura una raffigurazione idilliaca. A questa linea oppongo un lessico scarnificato che per gettare un sguardo significante sul mondo si affida esculsivamente alla forza assertiva della parola poetica.

 

Mi accompagnava nello spazio terrestre
Un qualche animale simile a quelli che
Toccano col dito stralunato gli occhi dei morti
Quando i morti sono scomparsi di nuovo
Quanto è rivestito di corpo ha buttato
Sulle facce sempre uguali
I corpi usati dalle piaghe tutte diverse
I rapaci attendono pazienti
Le ombre che riflettono il sole
Non ho bisogno di rifugiarmi in esse
Porto dentro di me ogni riparo mentre
Dispiegano i corridoi notturni dei viventi
e piovono le sirene in giorni senza ora
dirette ciascuna ad un unico Dio senza tempio.

 

Esemplare di questo uso fantasmatico della parola è questa poesia. Se posso fare un po’ di ironia, ancora adesso la leggo e mi chiedo: cosa vorrà dire? Cosa l’abbia ispirata? Da quale mondo è venuta fuori? Ecco, la poesia possiede persino una propria misteriosa energia generativa di realtà prima inesistenti. Non capisco perché mi è ignoto, non perchè è difficile. Infatti, sono comunque attrattato da ciò che le parole evocano.

Ho bussato a tutte le porte
Qui non c’è più nessuno
Salvo i fantasmi dietro le porte
Che spiano furtivi dagli spioncini
Spaventati dal rumore della vita
Ora che s’erano acquietati
Dopo la prova che la parola non cura
Temendo invece la luce
Che quando sopraggiunge
Mostra la reale sostanza delle cose
Le parole scovate sterili
Sono state lasciate sgomente sull’uscio
La luce la luce è la luce.

 

Infine, questa poesia, che l’editore ha messo in copertina, nasce dall’invocazione ad immedesimarsi nell’altro, a provare nelle sue scarpe, come dicono gli inglesi. La percezione cambia con il punto di vista. Anche un fantasma può spaventarsi di fronte al rumore della vita che gli passa davanti. La luce assume così una forza ambigua che può mostrare la realtà delle cose ma può anche svelare inaspettate oscurità: Il punto più in ombra, infatti, è sotto la luce. Anche le parole “si fanno guardare”. Attraverso la forma e le strategie che anche il lettore può scegliere attirano l’attenzione su di sé, ma poi all’improvviso ci ricacciano nel mondo. Talvolta, si può anche restare smarrita nel mezzo di una nuova percezione della realtà. La luce, comunque, non ci salva, ma ci orienta.

*

Pasquale Vitagliano (Lecce, 1965) è un poeta, saggista e critico letterario. È tra gli animatori del Lit-blog Lapoesiaelospirito. Collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno e il Manifesto. È capo-redattore della rivista Menabò delle Edizioni Terra d’ulivi. Ha pubblicato numerose opere di poesia, narrativa e saggistica. È presente nell’Atlante dei poeti Ossigeno Nascente curato dall’Università di Bologna. In copertina nella foto di Melkiorre Carrara.

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