“A questa vertigine”, l’irriducibilità della poesia di Pietro Russo

a-questa-vertigine-copertina

L’irriducibilità della poesia. L’inno «sottopelle» al capogiro dell’esserci, hic et nunc. L’insieme, “forma-contenuto”, intonato all’idea che lo permea: «non è uguale a se stesso il tempo». Il linguaggio, ricco di sotterranea lucentezza («Con movimenti rapsodici / dissemini il giorno di cubi, triangoli / e altre forme; è tempo, questo, per te / di quadrature mai viste»), di figurazioni («Non si muore a questa vertigine. La meta / per non sbagliare è stata strappata dagli occhi»), che afferra il senso “semplice” dell’esistenza, delle sue epifanie («Quando la sera / sembra più lontana e invece in qualche modo, / ogni volta ci sorprende.»), immenso nel suo divenire («quel puntino / che palpita nel centro del monitor»). Parliamo dell’eccellente raccolta “A questa vertigine” di Pietro Russo, edita da Italic. Tra le voci più interessanti della nuova poesia italiana, come sottolineato recentemente anche da Davide Rondoni, Russo è nato a Catania dove insegna materie letterarie nei licei e Lingua italiana agli stranieri presso il comitato locale della “Società Dante Alighieri”, di cui è responsabile delle attività culturali. È socio fondatore e segretario del Centro di Poesia Contemporanea di Catania. Tra le pubblicazioni, ricordiamo il saggio La memoria e lo specchio. Parole del Petrarca nella poesia di Sereni (Bonanno, 2013).

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Un quaderno a righe con il dorso spesso e io adolescente che cerco di mettere nero su bianco impressioni, sensazioni, umori del mio incontro quotidiano con la realtà. Naturalmente fallendo, e di molto. Fa un po’ romantico (e sfigato) ma credo che sia questo l’inizio obbligato, la ‘banalità della poesia’, parafrasando il titolo di quel famoso testo saggistico. Da questa banalità e da questo fallimento forse non ne usciamo mai veramente. Con il senno di poi, mi dispiace solo di averlo strappato e buttato, quel quaderno. Ma anche questo, in fondo, è ampiamente comprensibile.

Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?

In principio fu Kerouac e la beat generation, chiave di accesso per tutta la letteratura angloamericana del Novecento. Poi sicuramente Montale, Sereni, Raboni, il Pavese di Verrà la morte, Baudelaire e ancora gli americani Simic e Strand. Tra gli autori ancora in attività hanno avuto un ruolo molto importante Milo De Angelis e Maurizio Cucchi, e il Rondoni di Apocalisse, amore. Ma siccome la ‘formazione’ è un processo che non finisce mai, sempre in corso, in seguito sono arrivati molti, molti altri “incontri” (così come altri ne seguiranno). Tra questi vorrei citarne due per la loro duplice natura dentro e fuori la pagina: i conterranei Maria Attanasio e Angelo Scandurra.

Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. (Pavese)

L’idea che la morte non sia la fine. E che negli occhi di chi ci guarda moriamo continuamente per rinascere continuamente.

Codesto solo oggi possiamo dirti: / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. (Montale)

L’estrema negazione certifica lo scacco, certo, il fallimento conoscitivo che è un tratto del Novecento, ma allo stesso tempo rivela tutta la piccolezza/grandezza dell’uomo, per dirla con Pascal.

Con non altri che te / è il colloquio.

Siamo esseri relazionali e per tutta la vita non facciamo altro che ricercare questo ‘tu’ con cui colloquiare.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

Tutti i momenti sono buoni, purché siano davvero gravidi. Altrimenti è solo esercizio, tempo perso. E soprattutto, se può valere qualcosa la mia esperienza personale, non si deve mai forzare la mano.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

Mi piace molto la formulazione di questa domanda, calibrata sull’aggettivo ‘attuale’. In effetti, se mia figlia Maria, che ha 4 anni, mi chiedesse cos’è la poesia non saprei darle una definizione universale che vada bene per ogni luogo e per ogni epoca. Questo per due motivi: non sono molto bravo, in generale, a de-finire le cose e nello specifico l’oggetto poesia è troppo grande per comprimerlo, per ridurlo a dei limiti. Personalmente, mi faccio bastare questa idea: poesia è tutto ciò che esce da un testo scritto per provocare un cambiamento in chi legge/ascolta.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Quando dopo ore e ore, giorni e qualche volta (ma molto raramente) persino mesi di lavorìo ossessivo e logorante per far coincidere il testo con il ‘fantasma’ che ne è all’origine, la poesia comincia a parlarci, a interrogarci. In quel momento, dopo tutte quelle varianti accumulate e le infinite possibilità scartate, la poesia ci sfugge di mano. È ciò che leggo scritto su un supporto, ma anche ciò che eccede quel supporto.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

Personalmente diffido molto del termine purezza, a maggior ragione se accostato alla poesia. La parola ‘pura’ non esiste e se esistesse sarebbe autistica, autoriferita e autoreferenziale; quindi tutto l’opposto della realtà della parola che è, per sua natura, il luogo privilegiato della relazione, dell’incontro tra l’io e l’alterità.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

Non credo che la poesia debba avere mandati o incarichi attribuiti da qualcuno o da qualche ente esterno a essa. Piuttosto dovrebbe semplicemente farsi carico, nel senso letterale di portare sulle spalle, tutto il peso di quelle domande ineludibili, in ogni tempo e in ogni luogo, che vanno però necessariamente e storicamente tarate su questo tempo e su questi luoghi.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? / […] / Dove sono fissate le sue basi / o chi ha posto la sua pietra angolare, / mentre gioivano in coro le stelle del mattino / e plaudivano tutti i figli di Dio? (Giobbe 38, 4-7)

Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / intessuto nelle profondità della terra. (Salmo 139 [138], 15)

Diciamo che questi versi mi riportano alla giusta dimensione del mio essere.

Per concludere, ti invito a scegliere (riportandola e specificando da dove è tratta, o se è un inedito) una tua poesia per salutare i nostri lettori.

 Credere i volti allora / dentro i palazzi, nella sequenza familiare / di cemento e panni stesi. Quando la sera / sembra più lontana e invece in qualche modo, / ogni volta ci sorprende.  Dal mio libro, A questa vertigine (Italic, 2016). Con l’augurio di cuore di abitare sempre in questa sorpresa.

*

*

*
(una versione ridotta di questa intervista è apparsa sul quotidiano
La Sicilia, in data 12.12.2016)

Potrebbero interessarti