MONET Glaçons à Bennecourt X ARTE BERNINI
Monet, Glaçons à Bennecourt

Dov’è finita la bellezza? In quale lontano e buio anfratto delle nostre menti si è accucciata, intimorita, tremante, solitaria come l’ultimo dei reietti, infreddolito ai margini di una lunga notte nera? Vivo nei luoghi quotidiani che ognuno di noi attraversa a piccoli passi, ripetendo da sempre i gesti e gli sguardi che chiunque porta con sé nel tenero e faticoso percorso della vita. Sono anch’io, come tutti, alla ricerca di quella bellezza che hanno surrogato in sterili obiettivi del marketing, in illusori aforismi pubblicitari, o ancora in più sberluccicanti icone di questa rigurgitante cloaca che chiamiamo “spettacolo”. Comincio a cercarla, allora, come faccio ogni giorno. Almeno ci provo, mi dico. Altro compito che mi restituisca con dignità alla vita, per chi ha desiderato darmi la vita, e ha intravisto in lei una possibilità di bellezza, sinceramente non trovo. Mi sveglio in un sabato mattina piovoso di metà novembre. Apro la finestra e accendo una sigaretta. L’esile tratteggio delle gocce riga il cielo sopra i tetti, sfuma l’aria lungo la strada umida e una impalpabile luce netta toglie la linea di contorno all’insieme. Da lontano una figura si muove compatta sotto il suo ombrello e porta una busta della spesa. Come un pittore colgo nei miei occhi questo quadro e per brevi istanti allungo ampie pennellate sulla tela della mia fugace e dolce impressione. Ci riduciamo troppo spesso a voler fotografare ogni cosa che vediamo, filtrando con gli occhi della tecnologia ciò che non vogliamo ci sfugga, magari usando anche effetti artificiali che ne modifichino i colori, spostando sul telefono ciò che in modo ben più profondo e vero, è già in grado di fare il nostro strumento in dotazione da quando siamo nati: la sensibilità. Ma, ahimè, ci limitiamo a delegare ai pixel, alle applicazioni, alla virtuale visibilità, ciò che ogni nostra cellula del corpo è già in grado di creare dentro di noi. Mi consolo pensando al pranzo che devo preparare per la domenica ed esco di casa. Passo prima dal mercato di quartiere e mi metto a passeggiare con le mani conserte dietro la schiena, con un passo lento e meditativo, che mio padre mi ha lasciato in eredità, per proseguire sul mondo l’occhio attentissimo e acuto che lui stesso posava sulla campagna, su quel simbolo che si ripete miracoloso a ogni stagione, dentro la natura, per ritrovare in ogni cosa, dalla carota dell’orto al succoso e pieno grappolo d’uva, l’unico senso possibile che ci affanniamo a ricercare dove già esiste: la vita è già il significato di se stessa. Così mi trovo a curiosare tra le policromie delle bancarelle, sgrano la vista ai fiammeggianti melograni, faccio un lieve sorriso alle cataste di noci brunite che formano un cocuzzolo su una cassetta di legno e mi fermo a sentire il profumo delle grandi verze che verdeggianti e lucide aprono le loro foglie come morbidi fiori autunnali. Proseguo quindi verso il banco dei formaggi e il gentile venditore mi invita ad assaggiare una scaglia di saporito parmigiano. Oh, come subito quel latte lavorato con cura, meticolosamente preparato per ottenere quella straordinaria “forma”, tipica di questo inimitabile formaggio, mi arriva fin nel sangue, mi percorre tutto, mi riconsegna a un gusto dell’origine, a un altro latte che prende la sua forma più bella nel bimbo che accoglie in sé la più grande sostanza di cui ha bisogno: l’amore della madre. Ma quante volte, mi chiedo, sulle corde del nostro palato gettiamo come una colata di asfalto, e quello che poi ci scorre sopra non è altro che uno scipito composto incongruo, cibi apparenti, allo scopo di mantenere un corpo convenzionato sulle misure di un’illusoria estetica, dove i muscoli, i nervi, le ossa, devono essere schiavi di una tortura che prende il nome di “linea”?

Eccomi finalmente giunto dove una ressa di donne si arrabatta concitata, pescando su un banco, e facendo volare alla rinfusa, vari e variegati capi d’abbigliamento: pantaloni stretti, maglie, magliettine, copri spalle, giacche, calze, gonne…È uno sbracciarsi continuo, tutti gli indumenti volano sopra le teste delle clienti, si alzano quasi a cercare una fuga, risospinti però sul banco, ammassati confusi, quasi che, come saltimbanchi che eseguono giochi di agilità, di forza, di destrezza, stessero lì per esibire le loro qualità meritorie per essere acquistate. E allora tutto mi pare una festa, pure questa ricerca femminile dell’abbigliamento, che affonda le mani alla ricerca della cosa adatta, che vada bene, che sia accettabile come prezzo, che riesca a essere in armonia con le proprie possibilità fisiche ed economiche, come quando i bambini prendono un pugno di coriandoli dal sacchetto e lo lanciano in aria, per vedere come tutti quei colori si compongono nell’allegria del loro volo. Purtroppo la moda odierna ci vorrebbe definire nel mondo, là dove le passerelle hanno sostituito a un’identità istintiva quella più impellente di un riconoscimento superficiale, dove lo specchio non è più proiezione conoscitiva, bensì maschera e insieme terribile strumento di controllo che ci priva della libertà di poterci apparire davvero. Conclusa la mia spesa culinaria mi dirigo felice e impaziente in libreria, dove mi piace passare del tempo immerso in una accogliente quiete silenziosa, prendendo in mano e sfogliando i volumi che mi capitano a tiro. Andando a caso noto subito il secondo volume della recherche proustiana: All’ombra delle fanciulle in fiore. In copertina spicca un bellissimo dipinto di Giovanni Boldini, Sulla panchina al Bois, dove una graziosa fanciulla parigina di fine Ottocento è seduta di trequarti su di una panchina, un cestino appoggiato al suo fianco, e guarda qualcosa o qualcuno alla sua destra, al di là dello spazio rappresentato sulla tela, con la mano appoggiata sul mento e il mignolo leggermente staccato dalle altre dita che si appoggia sulla bocca rossa leggermente aperta e sensualmente attratta. Apro il libro e leggo qua e là l’elegante prosa di Proust, così sinuosa e immediata, nella superba traduzione di uno dei nostri più grandi poeti del 900: Giovanni Raboni. Poi mi muovo fra i vari scaffali e mi lascio trasportare dai titoli o dalle vesti grafiche delle collane delle case editrici, osservando attentamente le persone intorno a me, come per una curiosità affine, per cogliere negli altri cosa crea quel legame misterioso e affascinante con la lettura. Una ragazzina al mio fianco legge la quarta di copertina de Il processo di Kafka; vorrei dirle di prenderlo, di non pensarci su nemmeno un istante, che è un capolavoro! Ma poi penso che ognuno debba muoversi liberamente tra le sue letture, che sono delle esperienze, fermamente convinto che siano i libri a scegliere i propri lettori, e non viceversa come crediamo, perché nel libro è già contenuta la possibilità di essere scelto, e questo, prima o poi avviene sempre. Più avanti, nella sezione dei saggi scientifici, un uomo sulla cinquantina impugna deciso cinque o sei volumi che raccontano dell’universo, e io immagino tutto uno studio particolare su un argomento ancora così sconosciuto e attraente. E mi domando quanta parte di mondo, dal più piccolo al più infinito, conosciamo davvero? La libreria stessa, un libro, o una parola soltanto non sono già un mondo o un’infinità di mondi? Sprofondato nei miei pensieri mi ritrovo però davanti la nefasta classifica dei libri più venduti. Ah, sospiro, com’è però difficile leggere qualcosa di bello, oggi. Sommersi e annegati da uno tsunami promiscuo di spazzatura, formata da biografie superflue, velleità cantautoriali, baggianate paratelevisive, il povero lettore deve compiere la sua ricerca (e il suo spreco di soldi) in un mondo librario-editoriale che lo ammalia con promesse da paese dei balocchi, dove entrerà attirato dal divertimento e si sveglierà somaro, tutto rigorosamente a sua insaputa! Ma in fondo, io non stavo cercando la bellezza? La poesia! Baudelaire! Cosa diceva? Aspettate…non ricordo…dannazione! Qualcosa sulla bellezza, sì! Lo ricordo, o meglio, mi ricordo ma non mi ricordo le parole! Allora mi precipito alla sezione di poesia, cerco deciso I fiori del male, scorro l’indice eh…ecco! L’inno alla Bellezza: “Vieni dal cielo profondo o sorgi dall’abisso/ tu Bellezza?”. Ah, com’è vero! Come da ogni cosa può sorgere la bellezza! Dove la si può trovare! E allora, prima di tornarmene a casa, penso che se anche questa società ci ruba un po’ di bellezza, se è vero che è difficile non farsela togliere, se è altrettanto possibile perderla, è altrettanto vero che possiamo ritrovarla sempre, in ogni modo e forma, anche dal fondo dell’abisso.

 

 

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