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Albert Marquet, Notre Dame temps de neige

 

 
Al mio amico, Luigi La Rosa,
che mi ha guidato in questo vagabondaggio per le vie di Parigi.
 

Si può vivere Parigi in una quotidianità di giorni, ore, mesi, anni, e di stagioni, senza lasciarsi stordire da quel suo vertiginoso verticalismo che spinge in alto sguardi ed emozioni sino a togliere il fiato? A Parigi anche il più normale degli esseri umani, se si allontana dagli itinerari turistici e si guarda attorno con occhi sgombri da immagini di cartolina, cade in uno stato di straniamento, di stupore, di irrealtà. Se osserva i palazzi dai tetti d’ardesia, i balconi merlettati, leggiadri e severi come il ferro in cui sono battuti; se indugia sotto un lampione, di quelli che si stagliano solitari sullo sfondo violetto del cielo; o sosta a un bistrot, a una brasserie dalle insegne smaltate di rosso e di blu – i colori di Francia -; vede scorrergli dinnanzi i fantasmi di tutti i déraciné che nell’Île-de-France si davano convegno spinti da una febbre interiore indomabile, ebbri di illusioni e di forsennati sogni di gloria. Se fissa a terra lo sguardo, lo sgomenta il pensiero dei passi e delle orme che vi hanno lasciato poeti, artisti, scrittori, pensatori che a Parigi confluivano a stormi come uccelli migratori; se passeggia per parchi, antiche corti, secolari cortili, sente sotto i piedi un crepitio di foglie secche, accartocciate, e rabbrividisce al pensiero di quante anime dannate vi hanno trovato disperazione e morte. Sopraffatto, con il cuore in fibrillazione, risucchiato in un gorgo di suggestioni da capogiro, si rende conto che a Parigi, sarà sempre uno straniero. Essere straniero a Parigi vuol dire avvertire l’inafferrabilità, il mistero di un luogo, pur in tutta la sua fisicità di luogo. Dei suoi giardini, che pur ridenti di primaverili fioriture, per quanto risonanti di voci, di allegria, di spumeggiante eccitazione, sebbene brulicanti di movimento, di rumori, di vitale espansione, li vedi ripiegati, chiusi in una loro vita nascosta, intima, assorta, impenetrabile a ogni umano sentire. Dei suoi boulevards, che sfilano lungo gallerie di platani, corridoi di ontani, viali di ippocastani popolati di uccelli neri, battuti giorno e notte da frettolosi passanti, che corrono verso non si sa dove, senza guardarsi attorno, dritti alla meta, con la foga contenuta e la determinazione di chi va, spinto da venti sicuri verso approdi insicuri. Dei suoi Passages, valichi chiusi che attraversano la città da un punto all’altro, coi soffitti a vetrate o affrescati come cupole di basilica, e i pavimenti a intarsi geometrici di lineare essenziale eleganza, dove pare concentrarsi l’esprit de finesse di un popolo e dei suoi costumi. Delle sue vetrine, siano di futili negozietti e anguste mercerie, siano di lussuose, frivole boutiques o di austere, antichissime librerie, di ottocentesche case editrici per dove è passato il fior fiore della letteratura di Francia, d’Europa, e d’Occidente, così originali, eccentriche, briose, e sobrie, mai appariscenti, mai  kitsch. Dei suoi Café, da quelli storici di Montparnasse-La Rotonda, La Closerie des Lilas e di Saint Germaine des Prés il Café de Flore, le Duex Magots dove i bohémiens, gli esuli russi, da Anna Achmatova a Nina Berberova; i maudits, da Rimbaud a Verlaine, a Mallarmé; gli artisti squattrinati, da Cezanne a Toulouse- Lautrec, a Modì; gli sradicati senza altra patria che la scrittura, da Hemingway a Rilke, si ritrovavano la sera, dopo aver svenduto per un pasto caldo, o un sorso d’assenzio, chi un dipinto, chi un manoscritto, chi un taccuino fitto fitto di versi, per ritornare all’alba nelle loro pensioni sbronzi, senza un soldo in tasca e ad attenderli come una sentenza di morte l’ennesimo avviso di sfratto; a quelli anonimi, che s’affacciano sui viali, coi tavoli e le sedie disposti come in un teatro, rivolti verso l’esterno, perché i parigini possano godersi lo spettacolo permanente della Ville Lumière. Dei suoi romantici piccoli cimiteri, Passy, Montmartre, Montparnasse dove i corvi sono di casa e le foglie morte sulle tombe anche d’estate. Dove accanto al solenne monumento funebre di Maupassant, una cappelletta fiorita di un emaciato roseto custodisce i resti misconosciuti di una Silvia leopardiana, morta nel fiore degli anni, senza un nome, né un poeta a cantarne i sogni spezzati e le speranze tradite. E dove la piccola lapide di Baudelaire, battuta dal vento o dalla pioggia, o all’ombra di un pallido sole, profuma di rose a ogni stagione. Delle sue Piazze, piccole o grandi, salotti all’aperto che racchiudono spazi di solitudine e di conversazione e la notte s’illuminano di una luce discreta, morbida, accogliente. Dei suoi lampioni slanciati, esili e cortesi come antichi cavalieri. Di quel fiume immenso, mai placido, ribollente di gorghi e tormenti. Dei suoi cieli, luminosi anche nei giorni grigi, delle sue nubi sfilacciate, candide come merletti, dei suoi dorati tramonti che non declinano mai, dei suoi crepuscoli viola che annegano nella Senna tra i bateaux-mouches e le chiatte alla deriva, delle sue ombre che calano sui ponti protettive, complici di amori furtivi. Del profumo di lillà che arriva a zaffate dalle aiuole del Luxembourg, di quel sentore di muschio e di erbe marcie che esala dalle vesti di marmo di George Sand, Angelo tutelare di spiriti ribelli. Essere straniero a Parigi vuol dire, rimanere schiacciati dalla sua bellezza. Non abituarsi mai a conviverci, non riuscire a smagarsi dalla sua fascinazione, a mettersi al riparo da quelle trafitture di nostalgia che rendono dolorosi anche i momenti felici di adesione alla sua più segreta essenza. Come un mal d’Africa, colpisce il mal di Parigi. Ma forse anche chi c’è nato e cresciuto non la possiede la sua città. Ne è posseduto. Questo non luogo, senza altra giurisdizione che quella conferitagli dalle grandi anime che l’hanno scelto come porto a cui ancorare l’inquietudine del proprio disancoraggio esistenziale, rimane straniero anche a chi lo abita. Lo straniamento e l’impossibilità di radicarsi in un luogo che è un’idea di luogo, qualcosa di immateriale e sfuggente, è la condizione tormentosa di chi non può vivere a Parigi in uno stato di normalità lontano da esaltazioni e abbattimenti e nello stesso tempo solo in essa può trovare alimento alle proprie follie. 

 

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