Bernard de Clairvaux scriveva ‘troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà’. Pensando alle tue pubblicazioni, e alla più recente L’Italia è un bosco – Storie di grandi alberi con radici e qualche fronda, chiedo: quali sono gli insegnamenti accolti in dono dai luoghi in cui ti rechi a «collezionare meraviglie»?
La natura non insegna, non pensa, non ragiona, non sente. La natura vive. Noi umani sentiamo, pensiamo, ragioniamo (talvolta troppo, o non abbastanza), insegniamo e apprendiamo. Il mio sguardo s’è focalizzato sui comportamenti della vita animale già da bambino. Non badavo i miei compagni di scuola, non li capivo, sembravano conoscere e praticare regole di comportamento che non ho mai capito, nemmeno ora che sto raggiungendo i quarant’anni. Al contrario ero affascinato, rapito, dagli insetti, dagli anfibi, dagli animali che mi trovavo intorno. Poi c’è stato lo scombussolamento degli anni dell’adolescenza, l’università, il naufragio della mia famiglia naturale, a trent’anni, durante dei viaggi, sono arrivato in California dove ho incontrato le mie prime sequoie millenarie. Lì sotto, all’ombra della loro “canopy”, hanno fermentato alcune parole che hanno trovato ordine nel concetto di Homo Radix: una persona che percepisce un’unione spirituale coi grandi alberi, con le foreste vetuste. Mi sono divertito a creare un neologismo con una vera definizione alla Treccani:
Uomo radice – s. m. [lat. hŏmo radix] (pl. uòmini radice). – 1. Uomo o donna che vive quotidianamente un rapporto di stretta connessione con la terra e gli elementi naturali e vegetali, con particolare attenzione alle proprie radici locali, valorizzando i beni e le risorse della terra in cui vive e lavora. – 2. E’ uomo o donna radice anche quell’individuo che sa girare il mondo costituendo nuove connessioni con il paesaggio che si trova ad attraversare. Elemento centrale della connessione è l’albero, in particolare l’albero secolare e/o l’albero monumentale.
Ho iniziato a spostarmi nello spazio per incontrare gli alberi secolari e monumentali, a studiarli, a documentarli, ho iniziato a scriverne. S’è spalancato un universo, fatto di luoghi che continuo a conoscere e a visitare, e di libri: viaggiatori botanici del Sei e Settecento, poesia, narratori che agli alberi e alla natura hanno dedicato riflessioni e lunghe digressioni, filosofi, camminatori, naturalisti di vario ordine e grado. Conoscendo i grandi alberi ho conosciuto meglio me stesso e viceversa. Curiosamente, avvicinandomi ad un mondo naturale ho trovato una collocazione nel mondo degli adulti, nella società degli uomini. Sono arrivati i libri, la rubrica su La Stampa, le mostre fotografiche, gli itinerari che ho cucito in giro per l’Italia, le passeggiate che amo condurre per condividere con altre persone le forme di bellezza che ho modo di conoscere. La natura, come dicono alcuni naturalisti, esiste per farsi ammirare. E noi umani ci siamo evoluti in questo modo, da specie a specie, anche per poter ammirare con consapevolezza ciò che la natura ha messo sulla pedosfera di questo piccolo pianeta marginale nella Via Lattea. Per ammirare e per provare a preservare. Conosciamo il potere distruttivo della nostra azione, che negli ultimi anni abbiamo rinnovato con le trivellazioni petrolifere e col fracking. Ma per fortuna siamo anche diventati più consapevoli dell’importanza di proteggere, di tutelare. Non soltanto la natura che ci circonda, ma anche le nostre stesse abilità, come i cibi che abbiamo perfezionato e coltivato. L’Expo del prossimo anno dovrebbe essere manifesto di queste abilità e potenzialità. Cosa mi hanno insegnato gli alberi annosi e contorti? I millenari del nostro pianeta? Che vive più a lungo chi è morigerato, chi si conserva, chi si sa adattare, chi non procede per rivoluzioni bensì per evoluzioni. Ma questo, chi ha avuto modo di guardare a fondo gli abissi dell’esistenza, lo conosce bene. Penso a Primo Levi e, in generale, ai testimoni che hanno toccato la morte ad Auschwitz e in tutte le declinazioni della parola lager che la storia ha confezionato. Leggo e sento diversi autori e pensatori che propongono visioni animate dei grandi alberi, che parlano della loro intelligenza, della loro anima. Per non parlare di coloro che ci vanno ad abitare dentro: l’hanno fatto anacoreti ed eremiti, ma anche boscaioli, fuggitivi, disperati. Io non so se le anime degli “spenti”, degli avi, dei nostri cari, migrino lì dentro, non so se un grande larice plurisecolare abbia dentro di sé una forma di sensibilità animante, se possa essere davvero vivo nel senso che noi siamo abituati a sentire e a pensare. Non sono ancora riuscito a costruirmi un’idea in merito. Camminando nelle vastità verticali dei boschi delle alpi o di certe pinete in Sila, fra le foreste di sequoia della California o nei querceti mediterranei, risulta evidente quanto sia stupido pensare di farcela da soli: circondarsi di altri viventi è necessario, è l’unica forma di eternità che possiamo tentare di imbastire finché respiriamo e siamo lucidi. Lo scrittore svizzero Jeremias Gotthelf l’ha scritto chiaramente: «Guarda come si fa scuro il mondo quando l’uomo vuol diventare il proprio stesso sole.»