Sull’argomento fiumi di inchiostro sono usciti dalle penne di illustri scrittori, psicologi e psicoanalisti, eppure – o proprio per questo – risulta avvincente parlarne ancora con il presupposto che – a mio parere – ogni discorso non può considerarsi né esaustivo né risolutivo. Amore e Tradimento, due termini che si pongono istintivamente come antitetici e negatori l’uno dell’altro, il secondo caricato di valenze negative, tremendo anche nella memoria fonetica, un marchio infamante! Ma per comprendere il senso del verbo “tradire” nella sua generalità, non si può prescindere dal suo significato etimologico: deriva dal latino “tradere” e porta con sé il significato di “consegnare”. Tradire, in sostanza, significa modificare o abbandonare una consegna, un sistema, in nome di una nuova “consegna”, di un nuovo sistema. Si abbandona il vecchio e ci si “consegna” al nuovo. Questa azione decreta dunque il dramma del passaggio dal vecchio al nuovo, perpetuando l’eterno dramma del corso evolutivo. Il tradimento ha dunque sempre a che fare con l’abbandono di precedenti regole o configurazioni a favore della novità. Quando la nuova regola o configurazione si afferma, il tradimento si trasforma in tradizione: l’amore non muore ma si è spostato ed adattato al nuovo e, in virtù dell’adattamento operato, tenderà a conservare l’ultima consegna; l’amore tenderà a restare nel tempo aderente ad essa fino al prossimo ed inevitabile tradimento. Proprio questo è il significato etimologico della parola “tradizione”: essa è la storia dei tradimenti passati, fin qua consumati e sintetizzati nell’ultima consegna, fino a che essa resta “legalmente” in vigore. Amore e Tradimento rappresentano quindi i due momenti fondamentali del divenire. In “Amare e tradire” (con sottotitolo: “Quasi un’apologia del tradimento”) di Aldo Carotenuto appaiono illuminanti le parole: “Il tradimento porta traditore e tradito a confrontarsi con la morte: chi ha tradito ha compreso la necessità di intervenire per modificare una situazione attraverso una lacerazione penosa senza la quale non si dà trasformazione, né ricerca di un destino individuale”. E Umberto Galimberti: “Non si dà amore senza possibilità di tradimento così come non si dà tradimento se non all´interno di un rapporto d´amore. A tradire infatti non sono i nemici e tantomeno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire perché su di loro un giorno abbiamo investito il nostro amore. Il tradimento appartiene all’amore come il giorno alla notte” (“Le nostre anime così infantili e primitive”). Quello che vorrei sottolineare è la sostanziale differenza fra la situazione di una coppia in cui il tradito sa appunto di esserlo e quella in cui il tradito non lo sa. In quest’ultimo caso al “traditore” è consegnata tutta la sofferenza e il senso di colpa, oltre al compito di rimettere in gioco il rapporto esistente, dando vita ad una “revisione” della relazione che a volte può aver perso la ragione di esistere. Paradossalmente il tradito è quello dei due che maggiormente ha la possibilità, trovando ovviamente un referente esterno che lo aiuti in ciò, di elaborare la propria depressione in nuova consapevolezza. Il referente esterno in genere è importante perché è tale il vissuto di devastazione e di imprigionamento che da soli raramente si riesce a conservare la consapevolezza della dignità e della sacralità della vicenda estrema che si sta patendo. Come dice Gabriella Turnaturi nel suo libro “Tradimenti” quando lei o lui iniziano un viaggio fuori dal “noi”, e che prescinde dal “noi”, solo per le attese sociali, solo per i precetti religiosi, tradiscono, “in realtà salvano la loro individualità dall’abbraccio mortale del “noi” che non emancipa, non consente né crescite né arricchimenti, e neppure parole da scambiare che non siano già dette o già sapute prima che siano pronunciate. Amore è un gioco di forze dove si decide a quale dio offrire la propria vita: al dio della felicità
che sempre accompagna la realizzazione di sé, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla negazione di sé. Nel viaggio che si intraprende fuori dal “noi” e che prescinde dal “noi”, è il “noi” che si tradisce, mai il “tu”. Quel che si imputa al traditore è di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo. Soltanto se si accetta il cambiamento dell’altro e lo si accoglie come una sfida a ridefinirsi e a ridefinire la relazione, il tradimento non è più percepito come tradimento. Ma ridefinirsi è difficile così come accettare il cambiamento”. Per questo le vie più battute sono quelle della fedeltà, o in alternativa quelle del risentimento e della vendetta. Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato se stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in un’area protetta, dove il camuffamento dei nomi fa chiamare amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere mai davvero nati. Nella relazione amorosa tradito e traditore recitano un preciso copione in cui al traditore è assegnata la parte più importante. Anche Guido Savio recentemente alla presentazione del suo volume “Io tu” e Pasquale Romeo in “Tradire, l’altra faccia dell’amore” si sono espressi sulla stessa lunghezza d’onda parlando di “incontro nella libertà”. Potrei concludere queste riflessioni dicendo che il tradimento nell’atrocità della sua essenza è operato proprio in direzione di chi amiamo veramente e che veramente ci ha amato e per usare le parole di Carotenuto “tradire costituisce un modo del rinascere”.
(l’EstroVerso Maggio – Giugno 2011)