ARTE. Scalamatrice33. “Alchimie degli elementi” di Maria Buemi ed Ezio Cicciarella.

Scalamatrice33 organizza la mostra “Alchimie degli elementi” di Maria Buemi ed Ezio Cicciarella. La mostra, nasce da un’idea di Giuseppe Puglisi e sarà arricchita da una preziosa documentazione fotografica dei bravissimi fotografi Gaetano Gambino e Antonio Vacirca, che racconteranno il rapporto che Maria ed Ezio hanno con la loro arte. Vernissage, a Scalamatrice33, Sabato 2 luglio alle ore 18,30. La mostra resterà aperta fino a tutto agosto. Photo courtesy Gaetano Gambino / Antonio Vacirca.

“Parafrasando un testo di Carlo Levi  “Paura della pittura” qualche tempo fa era stata inaugurata al Museo del Novecento di Milano, una mostra dal titolo” Chi ha paura del disegno?” con un’ampia selezione di opere su carta di artisti italiani del ventesimo secolo provenienti da una importante collezione privata. Ho sempre avuto l’impressione che il disegno, in Italia, nonostante ormai dal lontano rinascimento sia divenuto cosa autonoma rispetto alla pittura, non abbia la giusta considerazione che invece ha in altri paesi soprattutto del nord Europa. Maria Buemi non ha paura del disegno, anzi lo affronta con passione e dedizione come dimostrano questi splendidi disegni presenti in questa mostra dal titolo suggestivo di “Alchimia degli elementi”. Tra i primi ricordi che ho dei suoi lavori mi è rimasto nella memoria un piccolo disegno di natura morta eseguito con penna a inchiostro nero; mi colpì allora l’attenzione al dettaglio e soprattutto alla luce che era riuscita a rendere in modo limpido nonostante la difficoltà del mezzo. Negli anni successivi ho imparato a conoscere la sua pittura di grande sensibilità che si è espressa con il tempo in una visione sempre più astratta sebbene ancorata al reale. Eppure credo che il disegno sia il suo linguaggio ideale, la sua dimensione più centrata, silenziosa, che collega senza mediazione attraverso la mano, la matita allo spirito. Inoltre la scelta del bianco-nero, della grafite su carta bianca come unici strumenti per raccontare le proprie impressioni del mondo e della propria esistenza, hanno qualcosa di eroico. Buemi trasforma la carta in levigata pietra, accarezzata dallo sguardo oppure ferita da una mina tagliente: Geografia e geologia del cuore. Penso che i suoi stati d’animo si muovano su queste superfici di grafite come onde che portano alla luce frammenti di materia o li inabissano nel buio profondo del mare o, ancora, come fratture che sono ferite e rendono visibile il senso di precarietà mentre linee di bianca purezza le attraversano e come un sismografo raccontano di altre tensioni. Ecco allora apparire, quasi per compensazione e desiderio di quiete, nei suoi disegni, altre geografie, altri luoghi. La materia incontra lo spazio, il vuoto, il silenzio e nell’oscurità bagliori improvvisi di luce bianca ci vengono incontro come stelle nel cosmo o vita pulsante e misteriosa osservata al microscopio che ci fa sentire come sospesi in un tempo e uno spazio ancora da conoscere eppure familiare. Fratture della materia e materia nascente sono i due estremi in cui opera Maria Buemi: il nero e il bianco, il buio e la luce, la paura e la speranza e infine la bellezza che solo l’arte, come in queste opere, per vie misteriose sa donarci.”

(Giuseppe Puglisi)

 

Schegge in cornice, cromie su pietra, legami effimeri…ossimori. Questo il nome scelto da Ezio per inquadrare il suo nuovo lavoro, che segna una novità importante nel percorso creativo dell’artista. Ossimori dicevamo, perché scultura e pittura sono due linguaggi quasi antitetici nell’immaginario generale, eppure la ricerca di unità visiva e formale tra materia e colore è antica quanto la storia dell’uomo, dai fregi del Partenone di Atene alla Cappella Cornaro del Bernini. Ossimori nasce un pomeriggio di gennaio, quando mi recai nello studio di Ezio per discutere di una possibile mostra e ascoltare le proposte di cui mi aveva accennato telefonicamente. Mi parlò di legami affettivi interrotti dal Covid, di un isolamento forzato che lo aveva portato a ripensare la sua figura di scultore e della sua esigenza di conquistare le pareti, di confrontarsi con il colore e con la superficie bidimensionale, pur volendo restare fermamente ancorato al precipuo linguaggio della scultura, al quel rapporto fisico, tattile, quasi erotico, con la materia. Una materia – prevalentemente Pietra pece o Pietra di Comiso, ovvero iblea come le sue origini – che per Ezio è anzitutto metafora della vita e del sudore versato per conquistarla, addolcirla. Artista autodidatta, di animo sensibile, naturalmente incline al dialogo, Ezio – come evidenziato già agli esordi dal regista Ivano Fachin – ha un “rapporto passionale con la pietra”, che vive come simbolico incontro/scontro con la propria terra natia, le proprie inquietudini, la propria essenza. Un rapporto intimo, organico, in cui pensiero ed azione sono due aspetti del tutto, un tutto che da tempo l’artista ha trasposto in chiave semantica nella figura della fascia, eletta a suo motivo formale prediletto per esprimere la dicotomia insita nel concetto di “legame”: vincolo opprimente o dolce interrelazione. “La scultura – afferma l’artista – ha illuminato la mia vita, ma esigendo dedizione assoluta, coraggio e sacrifici infiniti”. In questo travaglio tutta la tradizione italiana della scultura “per forza di levare”, da quella classica a quella concettuale, intesa come capacità di restituire attraverso la modellazione della materia una tensione emotiva. Nel guardare le sue opere, infatti, la mente corre al “non finito” michelangiolesco, a quell’idea rivoluzionaria del togliere per svelare il contenuto già insito nel blocco lapideo. Allo stesso modo Ezio scava la materia per trovare la sua fascia, una fascia ora larga ora stretta che si avvinghia alla pietra e che rappresenta la consapevolezza della necessaria quanto faticosa ricerca di quelle relazioni che ci aiutano ad affrontare le nostre paure derivate dalla frammentarietà dell’esperienza umana. Talento, spiccate capacità di modulazione, sensibilità luministica, padronanza tecnica, istinto e raziocinio si incontrano in un personalissimo “ductus” ormai apprezzato anche all’estero (Amsterdam, Londra e New York alcune delle principali città in cui ha esposto), che non guarda a mode o linguaggi del momento ma che si sostanzia in una ricerca del tutto autonoma eseguita con la passione di chi ha ancora qualcosa da dire. Le opere in mostra documentano lo spaesamento vissuto dall’artista in questi mesi e il mutamento concettuale del suo linguaggio creativo. Da due piccole sculture a tuttotondo (Untitled #018/05 e Untitled #019/02), esempi della sua produzione antecedente alla pandemia, si passa ad Attesa, opera nata nel pieno di una crisi interiore in cui la fascia non trova alcun appiglio e resta lì poggiata sulla pietra sbozzata. Seguono poi undici quadri che potremmo definire “sculture da parete”, una sorta di microcosmo cicciarelliano composto da piccole schegge di pietra rappresentative degli ultimi sviluppi della sua ricerca formale. Nel febbraio 2022 Ezio fa letteralmente a pezzi due sculture, le fraziona con il flex, come a rimarcare la rottura di quei legami affettivi subita durante i giorni del lockdown, ma anche la paura che il linguaggio adottato sino ad allora non fosse più attuale. Da qui nasce la prima serie, un trittico su pietra pece, in cui l’autore si limita a fotografare l’attimo, ovvero a dare risalto al gesto distruttivo tramite l’adozione di una cornice che ammanta di significati simbolici il frammento scultoreo in essa collocato. Poi, dall’idea iniziale, da quel processo di catarsi, ecco sopraggiungere nuovi stimoli, una nuova positività e così nella serie successiva quei legami spezzati tornano a nuova vita, si colorano ora di delicate tonalità pastello ora di cromie accese. L’incontro con una dimensione altra non potrebbe essere più gioioso e il testo figurativo più esplicito. Il cerchio si chiude con due opere montate su acciaio Corten (Untitled #022/16 e Untitled #022/17), uniche ad esser state concepite appositamente per lo spazio del quadro. Siamo di fronte a veri e propri assemblages, sculture in miniatura dove la fascia in pietra si compenetra, o addirittura si inchioda, nel bruno arrugginito del metallo, dando vita a un dialogo diretto e inaspettato tra i piani spaziali dei vari elementi, i materiali adottati e il differente trattamento delle superfici. Eseguite quasi per gioco durante la preparazione della mostra, queste opere estemporanee nascono dall’urgenza – tipica dello schizzo, del bozzetto – di fissare un’idea frutto di riflessioni (ancora in itinere) sull’essenza stessa della scultura e sul concetto hegeliano di “tesi, antitesi e sintesi”: qui il pensiero si riappropria della tridimensionalità (tesi), la suggestione verso la spazialità del quadro è ancora viva ma la fascinazione per il colore è già superata (antitesi), l’atto creativo torna ad essere il risultato di un rapporto esclusivo con la materia, una materia variamente modellata, assemblata, manomessa sino a raggiungere in parte inediti effetti di astrazione pittorica (sintesi). Mostrandomi le ultime opere Ezio dice soddisfatto: ho completato il mio processo hegeliano, sono tornato alla scultura. E a ben guardare non servono troppe parole per comprendere le tappe di questo processo circolare: il fare scultoreo ha ripreso il sopravvento sul fare pittorico, eppure affiora una nuova sensibilità, una nuova esigenza di unità … sperimentazioni che forse proseguiranno o che forse si concluderanno con questo evento. In definitiva Ossimori è una riflessione sul se, un racconto emotivo sulla propria interiorità, che solo la sensibilità di un animo puro come Ezio poteva concepire e narrare attraverso la ruvidità della pietra. Un omaggio alla libertà ritrovata che lascia aperti molti quesiti e in cui – come sempre nell’arte – ognuno può trovare le proprie risposte.

(Ciro Salinitro)

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