Cos’è l’Intenzione? Coscienza del desiderio o incoscienza del divenire?

Fred Cuming, Studio Window 1986

Che si possa essere attraversati da tante intenzioni, mentre si cerca di prenderne una- chissà quale, poi, in fondo-, è una realtà più che reale. Reale e che appartiene di forza all’attimo, e alla serie degli attimi. Procrastino questa mia intenzione: io intendo, io intendo. Perennemente. L’intenzione è una sempiterna spinta della volontà d’esserci, e se Schopenhauer ne è stato profondamente colpito e interessato al punto da dedicarci un’opera d’arte massima quale è “Il mondo come volontà e rappresentazione”, allora il tema diventa ancora di più sensibile. Sensibile, perché? Perché riguarda la sensazione, riguarda il sentire, quel quasi “dover-essere”- rievocando ciò che aveva ben dipinto anche quell’elegante filosofo scozzese di David Hume. L’intenzione è un momento decisivo, e solo questo basterebbe a renderla una delle essenzialità dell’esistere: è il tracciare sulla sabbia del dubbio il messaggio delle proprie possibilità. Sembra qualcosa alla Cartier-Bresson, l’attimo di verità che viene immortalato con lo scatto di una “istantanea”, senza che il soggetto debba saperlo. Ma è stato colto, preso.

E tu, creatura, quando attendi di vedere qualcuno di cui sei (ancora) invaghita, quando vuoi ritrovare te stessa, quando sei in raccoglimento cercando di uscire fuori dal bosco fitto dei tuoi pensieri, nel momento in cui agisci, cos’è che fai? Tu intendi. E intendi sempre. Anche quando non capisci, intendi (di) capire, carpire, o prendere a te. Prendere per te. In un viaggio che rimanda sempre al dentro. Ma che è nondimeno legato con l’estetico, in un vero e proprio rituale di rappresentazione.

Forse, per questo, il più grande attore francese europeo del ‘900 Antonin Artaud, affermava che il teatro era quel rituale e quella magia che esprimevano l’irrappresentabilità della vita. La rappresentazione contro l’irrappresentabilità, e di mezzo? L’intenzione.

Perché se in un incontro si intende sempre qualcosa, un desiderio, una voglia, o qualcos’altro che muove dal dentro, è vero giocoforza che l’INTENDERE è lo stesso sciogliere l’enigma amletico dell’essere o non essere. Arrivo sempre ad Amleto, qualunque cosa io tratti: perché s’arriva sempre a quell’aut-aut di affermazione o di negazione. Ma l’intenzione è ancora una volta una voce, una voce che spinge ad agire, a farti “essere” TEATRO, in quel palcoscenico dove il porto d’approdo è l’altro. L’intenzione è anche intenzione di affermarsi, di radicarsi, di trovare una radice, come il vento che “intende” seminare quel che sarà un fiore, o chissà quale screziatura di natura: BECOMING.

Quale intenzione hai? La voce interiore lo chiede sempre, alla coscienza presente, o quasi sempre- dico. Anche quando è assalita dal dubbio, anche quando è fortemente sicura, diretta e determinata, indefessa, e completamente destinata, la voce interiore dialoga sempre col corpo, così come un pensiero dialoga sempre col battito del cuore, e con la temperatura del sangue. Quale intenzione hai? Sei qui, e vuoi farlo, hai intenzione di fare questo, di fare quello: è sempre un intendere. E allora possiamo dire: “cosa intendi?”, proprio per dire: “cosa vuoi dire?”. Questa è la chiave dell’intenzione, il “dire”, perché si dialoga sempre e sempre attraverso il dire, e si intende attraverso il dire, che il dire sia subliminale, tacito, silente, o estroverso e, acustico e presente, il dire è sempre là, cioè qua, in questo prodursi, in questo produrci, in questo “stare per essere”.

Proprio così, Oscar Wilde, nel suo profondo e inabissato saggio “Il critico come artista”, scritturato limpidamente in un ispirativo spirito di conversazione tra Ernest e Gilbert, afferma: “Sì, Ernest: la vita contemplativa, la vita che non si prefigge il fare, bensì l’essere, e non l’essere semplicemente, ma il divenire […]. E questa è la natura dell’intenzione: il divenire. E chi intende, irrimediabilmente diviene. Per sempre.  

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