“Vèss òm e vèss puèta”, inizia una poesia particolarmente bella e famosa di Franco Loi. Sia “vèss òm” che “vèss puèta” mi sembrano qualcosa di infinitamente più grande di me: una responsabilità con cui ricominciare ogni mattina a prendersi di peso.

Già “vèss òm” non è cosa da poco. Anche Montale l’aveva scritto: “Essere vivi e basta non è cosa da poco”. Vero. Ma, anche, la vita non può ridursi a un frigorifero pieno o vuoto; non può esaurirsi nei fenomeni. Dentro ogni uomo si alimenta, in chi più e in chi meno, una domanda che urge: che attiene al tragitto da percorrere su questa terra. E al suo termine. Da dove si viene e dove si va.
Anche la poesia si fa carico di questa urgenza, anzi potrei dire che se ne alimenta come il più prezioso dei cibi. Essa chiama ad un’assunzione di sé – e del mondo in sé – che spesso esubera le capacità e le possibilità di un uomo solo.

Non si nasce poeti: si impara ad esserlo. Certo: se ne avverte in sé la vocazione, per così dire. Ne appaiono le tracce in una predisposizione all’ascolto e all’attenzione degli altri, della natura e delle cose; se ne segue come in un impeto primordiale il bisogno di provarsi a scrivere; ma – anche – ci si si sente a disagio per quello che, nel nostro tempo soprattutto, non riscontra più alcun carattere di soprannaturalità (e in questo c’è senz’altro del bene), ma neanche di utilità (e in questo c’è senz’altro del male). E così, la strettoia sociale che risospinge nella turris i poeti, costringe a che venga alla luce se questa “chiamata a dire” è reale oppure si tratta di un fuoco fatuo.
Un versificatore che non abbia familiarità con la biblioteca, poi, difficilmente imparerà a diventare poeta. Così come un uomo che non acquisti familiarità con la vita concreta.

Personalmente, dalla vita ho imparato poche cose ma certe: anzitutto il coraggio di non attaccarsi ai beni di questo mondo. Di servirsene, sì. Ma di non caricarli di un potere che non hanno, di non chiedere loro la vita, la propria realizzazione. Fossero anche i propri libri, la propria casa. Tutto serve, tutto è buono, ma tutto passa.
Alla fine ci si ritrova soli di fronte a uno spazio sterminato, dove riaffiora solamente ciò che siamo o che abbiamo imparato ad essere. Niente di ciò che abbiamo. In questo esserci dell’essere, “vèss òm e vèss puèta” è qualcosa che mi supera. Anche se mi è toccato in sorte.

Sono cresciuto a “pane e Pratolini” (ma anche tanta musica). Dagli scaffali sporgevano anche le poesie di Ada Negri e quelle di Saba e Sereni. Luzi è invece una conquista dell’età tardo-adolescenziale, sfociata poi – con la soggezione e l’ammirazione della mia giovane età – nell’incontro personale con lui, grazie al trait-d’union dell’amico Guido Garufi.
Ma una delle figure cardine della mia vocazione alla poesia è stata senz’altro quella di Franco Loi. Nato a Fermo, sono tuttavia maceratese tout court. Sono felicemente sequestrato da queste pietre a faccia vista; ancorato al pennone di questa barca che apre alla vista sul grande mare d’erba della campagna, sul meraviglioso moto ondoso delle mie colline.
Quando Franco mi invitava ad aprire il verso, a sciogliere il metro nell’amor che ditta dentro di dantesca memoria, sempre gli ribattevo che io non vengo dal grande fiume, non vivo nell’immensa pianura padana, mi manca quell’energia vigorosa e pragmatica. Io vivo in collina: il mare lo intravedo dall’alto, lo immedesimo nel verde impazzito dei colli, nel loro digradare dolce verso il litorale. Ma resto lassù, dentro le mura:

Di là dal mare, nella terra antica
segregata tra i monti, sono forti
gli uomini che ci vivono, non temono
nemmeno le pallottole. Nei campi
l’arsura fa da sfondo a quella scorza
che li fa irredimibili.
Terra capriccio che li tiene stretti
ai suoi costoni, ripidi e selvaggi.

Di qua dal mare è diverso ma non dissimile.
Radico nell’aratro come la ruggine,
brillo al canto del sole tra i colli verdi
dove la vita a ogni istante si ricompone.
Guardo il mio oriente, io deposto al margine.

Credo che la geografia abbia una parte consistente nella vita dei poeti – e nella nascita delle loro poesie. La stessa orografia incide, a mio parere. E sebbene al dunque, sia gli uomini che non temono le pallottole che quelli inchiodati al proprio borgo abbiano al fondo del proprio esistere la medesima urgenza e domanda (sia essa affrontata a cuore aperto, sia essa rimossa come possibile), rimane il fatto che ogni uomo nasce in uno spazio e in un tempo preciso, e di quelli precisamente porta lo stigma irrinunciabilmente.

Macerata, ad esempio, è una città che favorisce la rêverie di bachelardiana memoria. Un luogo di viuzze dove, quando meno l’aspetti, si aprono slarghi e scorci straordinari.
Col favore della notte può parlarmi da dentro, tutta questa vita: non sempre si dà, ma quando si dà non si può raccontare; si può solo scrivere. E nasce la poesia:

Sono uno che scrive. Ci lavoro
spesso di notte o quando viene buono.
E’ un dolore che chiama e che conquista
noi gente strana che ci tocca scrivere.
E servirà? Lo ignoro. So soltanto
che devo. Sono solo un operaio
che la voce ha legato al mondo e agli uomini.
La mia catena di montaggio è un cuore
che ascolta il fondo e lo riporta in alto.

Innegabile che la scrittura svolga anche una sua funzione lenitiva, nella capacità che le è propria di oggettivare ma anche di eternare ciò che dal fondo viene riportato in alto, alla sua giusta luce. Resta tuttavia la certezza, in me, che si tratti di un “canto di ritorno”, di una prossimità, di un accostamento alla luce.
Una sorta di segnale di ricognizione, con la funzione – appunto – di indicare la strada più certa. Il Vero Incontro della mia vita è avvenuto anche attraverso la poesia, ma illuminando quella all’interno della mia quotidianità e della mia esistenza. Niente di miracoloso o miracolistico, ma indubbiamente la riconciliazione profonda con tutta la mia vita – anche nei nodi irrisolti più oscuri – ha saputo modificare la mia visione delle cose (e ricomprenderle in un bene più grande):

Lampada ai miei passi è la tua parola,
i suoi riflessi accecano la terra
presso il fiume che suggerisce la promessa,
la dolce fedeltà che va compiendosi.
Sento che è come se il cuore si scardina
ma lo catturi Tu, come un prezioso
bottino, un anelato corrisponderti
che non giungeva mai.
Andiamo, il giorno è alto. Il turbamento
arioso. Grande fuoco al Giordano.

Sono convinto che sia un grave errore vivere per la poesia, schiacciarsi sul ruolo di poeti, chiedere identità a questa identità: la poesia non salva. Anzi, vivendo così, si finisce per strumentalizzarla, per pretendere di piegarla alla propria volontà di dire. Come lo Spirito, sovente, a quel punto la voce se ne va.

Rileggo spesso Remo Pagnanelli e mi dispiace che abbia troncato la sua giovanissima vita prima di darmi il tempo di raggiungerlo anagraficamente. Forse non avrei saputo dirgli nulla, ma almeno ci avrei provato senza subirne – nonostante la bella amicizia che c’era – la granitica discrezione, la pudica grandezza versificatoria e critica. Ho rivisto pochi giorni fa l’unica videointervista esistente, che aveva concesso proprio al sottoscritto, in cui – a riguardo del come si possa arginare il problema della morte ed evitare il suicidio (col senno di poi, un argomento terribile) – Remo risponde che si tratta di un combattimento che ricomincia ogni volta, e che di certo non ha soluzioni nella poesia. In lui la voce non se n’era andata, ma se ne è andato lui. Ripensandolo sovente, mi rendo conto di quanto sia seria la vita, e quanto la più rigorosa militanza poetica sia tuttavia inferiore all’esistenza; quanto, vorrei semmai dire, la responsabilità che ne consegue sia interamente a servizio dell’esistenza. E per questo richieda – e imponga – la più severa delle educazioni, ma anche la più umile delle disponibilità e, soltanto dopo, la più ricca delle solarità:

Sanciscono il fallimento di Prevert,
gli innamorati del 2019. Le colonne
vedono solo ombre nei giusti istanti,
come lancette al passaggio sul quadrante
destinate a sparire in un alcolico.
Bandita la tenerezza, li trovi a un tavolo
immersi nel cellulare. Soddisfatti
di quella grama chance.

Negli ultimi anni, vengono a visitarmi molti ragazzi che mi chiedono un aiuto per capire se può avere un qualche valore quello che scrivono: ce l’ha comunque, ovviamente. Ma quando mi par di riconoscere un tratto comune, sempre rivedo in loro ogni tempo di me stesso, e finanche tutti quei ragazzi stranieri a cui insegnavo l’italiano, che non avevano parole da buttare al vento e ti strappavano la carne con domande semplici e assolute:

Non scampa al rigore
il primo lembo di settembre. Invano
tornano le giornate chiare
ma un brivido acuminato le percorre
e ne allontana il cuore dell’estate.
Le spiagge aperte ormai
alla assolata solitudine, l’acqua
di nuovo impraticabile e gelida.
Se le raggiungi con lo sguardo trema
dentro di te la vita, t’infuturi
nella linea sperduta dell’orizzonte.
E già sei oltre, nei nidi.

Si salverà anche la poesia, come qua e là chiacchierando mi disse una volta Lorenzo Gobbi? Non lo so. Mi preme soltanto la mia rettitudine nel servirla ogni giorno. E che aiuti qualcuno a guardare qui ed oltre.

nota bio-bibliografica:

Filippo Davoli (1965) vive e lavora a Macerata. Il meglio della sua opera è confluito nell’antologia Poesie 1986 – 2016 (Transeuropa, Massa, 2018). Vincitore del Premio “Montale” per l’inedito nel 2001 e del “Città di Fabriano” nel 2013, è tradotto in Francia a cura di Daniel Bellucci. Ha fondato e ci-dirige la web-zine “Nuova Ciminiera” (www.nuovaciminiera.it).

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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