La storia è il monolite nero che improvvisamente appare tra le scimmie, non appena una di loro ha per la prima volta usato con intelligenza un osso come arma, in 2001 Odissea nello spazio di Kubrick. Attorno al monolite, impenetrabile e nero, regna un grande silenzio, quasi fosse un non-luogo che assorbe tutto il tempo, lo spazio, i suoni, i colori, mentre la scoperta dell’intelletto da parte della prima scimmia-uomo, e del suo legame inscindibile con la violenza, viene sottolineata dal fragoroso crescendo della musica di Strauss. È significativo che quando la scimmia-uomo prende per la prima volta coscienza di sé appaiano assieme, nell’ordine, la violenza (soppressione degli inermi già morti, tramite le loro stesse ossa), la sopravvivenza (soppressione dell’altro per garantire il pasto del clan delle scimmie), la sopraffazione (soppressione del più debole per imporre il potere del più forte, con divisione del clan in vincenti e perdenti), tutto sotto l’occhio cieco del monolite-storia. Il monolite, dunque, sembra essere un’allegoria della storia, testimone muto, cioè estraneo, e insieme imprescindibilmente legato all’attività intelligente dell’uomo-scimmia. Per sua stessa natura, la storia, intesa nel senso di narrazione, è la creazione dell’uomo che la affianca alle sue azioni, le commenta oppure le precede; ma è anche qualcosa di metafisico, se inteso come l’insieme degli accadimenti ovunque accaduti in ogni tempo, una sorta di buco nero dove tutto è sempre presente e sempre passato. Un tutto-sempre.

La storia è quello che Daša Drndić in Trieste (ma il titolo originale è migliore: Sonnenschein) ha saputo così bene descrivere: «La sua è una storia piccola, una delle infinite storie sugli incontri, sulle tracce preservate dal contatto umano, lei lo sa, come sa che fino a quando tutte le storie del mondo non si comporranno in un gigantesco patchwork a avvolgere la Terra perché possa addormentarsi, la Storia, quel fantasma della realtà, continuerà a lacerare, tagliare, frammentare, rubare brandelli di universo per ricucirli nel proprio manto sepolcrale. È persuasa che senza il suo racconto quel lavoro sia destinato a rimanere incompleto, e al tempo stesso sa perfettamente che quel lavoro non ha fine, che la fine si protrae nell’eternità, oltre l’esistenza». In un passo successivo del libro, il tremendo monito rivolto agli storici interroga anche noi stessi, il nostro essere nel mondo in rapporto alla questione del potere, espressione di quel legame perverso e necessario tra intelligenza e violenza, che Kubrick ha allegoricamente colto nel suo film: «Le guerre sono grandi giochi. Ragazzotti viziati spostano soldatini di piombo, su variopinte carte geografiche [Le carte geografiche, un’ossessione di cui parlerò più oltre.]. Vi inseriscono il ricavato. Poi vanno a dormire. Le mappe volano nei cieli come areoplani di carta, si posano sulle città, sui campi, sui monti e sui fiumi. Coprono la gente, ridotta a un ammasso di figurine che più tardi grandi strateghi smisteranno altrove, dislocheranno di qua e di là, insieme alle loro case e ai loro stupidi sogni. Le carte geografiche di dissoluti condottieri ricoprono quello che è stato, sotterrano il passato. Quando il gioco finisce, i guerrieri riposano. È a quel punto che arrivano gli storici, a trasformare i giochi crudeli di chi non è mai sazio in menzogne alla moda. Viene dunque scritta una nuova Storia, la quale sarà annotata da nuovi condottieri su nuove carte, perché il gioco non abbia mai fine».

Forse per superare vecchie suggestioni castranti degli anni della mia formazione, vecchi racconti di zie paterne ai poeti – secondo le quali in virtù del fatto che non potendo conoscere neppure ciò che accade nell’ambito della propria esperienza, nella casa di altri, non sia parimenti possibile conoscere ciò che è lontano, specialmente se questo è lontano nel tempo –, con gli anni si è fatta sempre più strada in me l’idea di vagliare con la scrittura la possibilità di essere “poeta come storico”. Infinitamente meno preciso, nei dati e nel metodo, di uno storico tout-court, il poeta-storico ha però dalla sua l’arma del linguaggio, la possibilità estetica che fa della poesia la traduzione di un’intuizione che più di ogni altro linguaggio si avvicina all’essenza di quell’intuizione. Senza scomodare la teoria dei generi, la perspicuità del linguaggio che si deve usare con l’oggetto-storia è fondamentale, pena ridurre la storia a una lanterna magica per bambini.

Quando ho messo mano alla stesura e assemblaggio de Il noto, il nuovo (Transeuropa, 2011) – il mio primo libro che si addensa compiutamente attorno all’idea della storia, del potere e della natura del male –, provenivo dall’esperienza di Sara Laughs (Edizioni d’if, 2007), che era da un lato espressione di una crisi esistenziale e creativa, o forse la crisi di un rapporto di un certo tipo con la letteratura («quello che ho scritto mi scava cunicoli rabbiosi alle spalle / migliaia di dentini e unghiette farcite di letteratura / per dissodare il terreno o l’intercapedine / farmi franare dentro me stessa / dalla parte persuasa / dalla parte porosa»), dall’altro però portava con sé un primo avvicinamento all’idea di storia, che poi si è sviluppata coscientemente come allegoria. Il testo a cui mi riferisco è la sestina Castore e Polluce, in prospettiva aerea; ispirata ai fatti dell’11 settembre, e scritta quasi a ridosso, trascende immediatamente l’evenemenziale per scorrere sul piano della riflessione sul rapporto tra corpo e potere, corpo e violenza, corpo e memoria, in una tragica contrapposizione tra la natura e le sue leggi armoniche di trasformazione, e quelle tutte umane di distruzione del corpo e della memoria della vittima (temi poi centrali ne Il noto, il nuovo, dal momento che considera la Shoah e il concetto di nazismo come archetipo):

L’ultima fioritura del corpo sarà    eterea.

Il semprenero sempreverde sbuca e fiorendo    fiorisce
e s’addice alla sua sorte che il virgulto adduca la sua    morte.

Ma qui quale pietra serba il nome e come nel suo    regressivo
inceneritosi decedere fissare nell’aria la perenne    memoria
tra astri alternativamente semprevivi    sempremorti?
[…]

L’innaturalità di una morte violenta, che oltretutto comporta la sparizione del corpo e l’impossibilità di ricordare mediante una tomba, foscolianamente l’unico legame possibile tra vivi e morti, ritorna ossessivamente in tutto il testo della sestina nell’uso della metafora botanica («semina», «fioritura», «seme», «pianta», «seminato», «fiore», «ramo», «orto», «germoglio» ecc.), dialetticamente divisa tra il positivo della semina che prelude alla nascita della pianta e il negativo della semina nei cieli dei corpi inceneriti dei morti. Alla fine, in questo fuoco apocalittico ma tutto umano, viene a ribaltarsi anche l’evangelico «Se il chicco di grano, caduto a terra, non muore, rimane solo», perché nel ribaltamento della legge naturale dato dall’esplosione la terra è volata al posto del cielo, il quale è ricaduto in basso con la cenere; il seme che dovrebbe fruttificare, inoltre, è stato bruciato, in un processo che, senza saperlo allora, preludeva alla futura serialità capitalista degli atti terroristici, rappresentata dall’apparire del nome di un’industria del cadavere (“corp“, appunto):

[…]
La disapprovazione del germoglio, il consenso del    seme:
più vicino alla sua lontananza insedia la materia l’orto    sfiorito:
il tempo corporale fiorendo    sfiorirà:
la terra schizzata in alto e il prato profondamente    spostato:
a l’azione carnale totalmente votata alla    ustione:
il seme bruciato prima della fruttificazione    apparente:
‘Nonpenso Nonfaccio & dunque [Corp.]    Nonsono’

La sestina si chiude con la visione iniziale del cielo incandescente, visione inestricabilmente legata a un senso del sacro proto-religioso e assieme postmoderno, fanatico, fatto che si gioca tutto nello slittamento dall’«osanna» al nome «osama», per antonomasia il terrore della violenza che tutto ingoia («os-oris»):

Risplende lassù nel sonno il    cielo
anzi è un’orbita vasta per sempre    incandescente
prematura fioritura nell’alto    osanna              nell’alto
                                                        osama os-oris – –

L’affermazione di Ricoeur, secondo cui l’opacità degli avvenimenti rivela e denuncia quella del linguaggio, mette in correlazione il concetto di storia come narrazione, rappresentazione, con quello del linguaggio usato per tale rappresentazione. A questo riverbero avvenimenti/linguaggio – per cui più spesso lo slittare dal significato delle cose al loro senso allarga lo spettro dell’indecisione, ma anche della possibilità –, corrisponde la consistenza fantasmagorica dei fatti in sé; come ho già scritto, infatti, «nessun fatto è mai esistito per come viene trasmesso, e ancor prima, nessun fatto è mai esistito. (…) L’idea di storia ci pone immediatamente di fronte alla frammentarietà di ciò che definiamo ‘storia’. Questi ‘barlumi’ sono insieme rappresentazione della sostanza di ciò che è accaduto, nel suo arrivare dal passato a noi, ma sono anche definitori della natura della nostra percezione degli eventi. (…) Qualcosa è davvero accaduto, ma nella zona opaca che l’uomo abita (…) questo qualcosa è una luce incerta, in sé e per sé» (Storia come allegoria, in Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca 2015). È in questa prospettiva di “dubbio” che ho toccato un tema che a nessuno, se non ai sopravvissuti, dovrebbe competere, ossia quello della Shoah e del nazismo, nel libro del 2011 sul potere, Il noto, il nuovo. Appunti postumi sulla natura del potere e della storia (il primo libro dove tra l’atro appare nelle note esplicitamente il termine di «opera di poesia della storia»); un tema pericoloso, poi, perché si sarebbe prestato a volgari fraintendimenti, se la mia esigenza di scriverne non fosse nata dal desiderio di capire linguisticamente la natura del potere, nella sua incarnazione di male radicale, e la natura, opposta e conseguente, della distruzione totale subita dall’uomo, fino a eradicare dalla storia il suo corpo e il suo nome – cenere sepolta nella Vistola. A posteriori, una recente lettura di un libro di Alessandro Cinquegrani, Il sacrificio di Bess. Sei immagini su nazismo e contemporaneità, mi ha fornito una chiave di lettura folgorante per la mia scelta di allora: «Quando parliamo di nazismo dunque parliamo di una enorme, assoluta, inconcepibile aberrazione storica. Ma sostenere che oggi quando parliamo di nazismo parliamo solo di questo, sarebbe un grave errore di prospettiva. Nel tempo della post-memoria (Hirsch), quando parliamo di nazismo, parliamo necessariamente e malgrado tutto anche di un archetipo, di un mito o di un paradigma (Schwarz) che spesso banalizza e semplifica la natura dei fatti, ma che inevitabilmente esiste e resiste, e con il quale dobbiamo fare i conti. (…) Quando si parla di nazismo e contemporaneità (…) non si parla di una possibile sovrapposizione del tempo presente (…) a un’età sciagurata, ma si vuole piuttosto verificare se la nostra immagine riflessa nello specchio deformante del lager e del nazismo evidenzi qualche sommersa patologia e suggerisca eventualmente una cura».
Il noto, il nuovo è anche il primo libro dove appare per intero la mia idea di storia come allegoria, e dove il concetto di potere è trattato in una doppia dimensione allegorica: i fatti storici sono allegoria della storia, dei suoi meccanismi quasi perenni, e insieme sono indirettamente allegoria della mia vicenda personale, perché in quei fatti novecenteschi cronologicamente sono stati coinvolti i miei genitori, per essere stati adolescenti all’epoca.
L’idea contingente di fare un libro di questo genere è partita dalla lettura di un saggio di William Sheridan Allen, Come si diventa nazisti, nel quale veniva dimostrata in maniera quasi naturale l’ascesa del nazismo nella cittadina di Nordheim, nello Hannover; come scrivo nelle note, a quest’opera «devo molte suggestioni che mi hanno fatto riflettere non tanto sulla “banalità” del potere, ma sulla sua natura concreta, su ciò che lo rende immaginabile, possibile, attuabile, realizzabile». D’altro canto, non ho scritto il libro partendo da un’idea zero di potere, ma dal presupposto, citato in explicit, che «Ogni rapporto è un rapporto di potere. L’uomo che distrugge un altro uomo ha una chiara idea di ciò che fa, perché ha una chiara idea dell’altro uomo»; in questo modo, introducevo anche l’altro grande tema del libro, ossia quello della colpa. La breve poesia che apre il libro riassume questi elementi:

Che cosa hai fatto

Colui che tenta di distruggere le prove, il falsificatore
che trasforma una sconfitta in cancellazione, questi che nella vittoria
avrebbero trovato la pace, e noi che
mentiamo in ogni momento a noi stessi:

viene dall’atto dell’abrasione il nesso di colpevolezza,
dal non mantenere inalterato l’abominio
comunque compiuto.

Il nucleo fisico del libro, come dicevo, ruota attorno a una serie di testi, numerati, che attuano una radicale analisi del potere nazista; per esempio, in questa poesia il tema con variazioni è incentrato sull’idea nazista di selezionare le persone degne di vivere, come recita la citazione iniziale da Hannah Arendt e insieme sull’idea di deresponsabilizzazione dei carnefici nell’esecuzione di ordini impartiti dall’alto:

IV. Il principio “rimodellamento”

…decidere chi dovesse o chi non dovesse abitare questo pianeta, come decidere
in successione chi dovesse scegliere di rischiarare l’evento, o tutto
innocenza, o tutto apparato: l’occidente comune della morte non muta. tagliato
il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità.

al corpo doppio, nessuna anima può ridare vita, o tutta la colpa
estendersi alla terra, tomba di molto; né deviazione, da un diritto;
guerra civile modello del permesso, concepita

condanna a chi esegue, esecuzione di ordini,
ordine dello strumento tagliente

scandito da teste.

L’idea che l’orrore della violenza della selezione artificiale sia un atto che toglie sacralità alla vita umana, viene rappresentato in questa poesia dall’apparizione in controluce della ghigliottina e dell’esecuzione del re durante la Rivoluzione francese (il corpo doppio richiama direttamente la definizione di Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re); e questa violenza umana diventa talmente rapace autoalimentandosi, da sfuggire al controllo umano, e diventando essa stesso ordine metafisico del mondo («ordine dello strumento / scandito da teste»), ossia una tecnica.
L’idea di progresso tecnico-scientifico, nel suo rapporto diretto con il potere, è al centro anche del testo più importante del libro, Giovanni dalle Bande Nere; è la tecnica, infatti, che ha «modificato le condizioni per una continuità della trama della storia», come recita la citazione iniziale tratta da Jurgen Habermas. Non credo sia mai stata notata nella mia poesia la forte componente di denuncia politica verso il connubio tecnica-capitalismo, nel loro nesso con la violenza, eppure è una degli assi portanti della mia produzione in questi ultimi anni. Sarebbe troppo complesso raccontare verso per verso questo testo enciclopedico, perciò mi limiterò a evidenziare questi nuclei in successione; mi preme sottolineare che la figura di questo condottiero mercenario qui si alterna, sovrapponendosi, a quella dei gerarchi nazisti, anche nella parabola di ascesa e declino:

I. Giovanni Dalle Bande Nere

…la sua propagazione non è l’opera di un istante, non
di qualcuno: che salvaguardia la tecnica e la scarsezza
di merce, lo scopo, indebolisce il mezzo; l’arma contro chi spara è puntata
scarica, solo se chi poi è colpito non si sposta per primo in avanti; si muore
per cancrena, per leggerezza di campo, di corazza, cavalli piccoli; vinti solo dal vinto.

[La guerra, che si propaga velocemente, viene però preparata da vicende di lungo periodo; appare subito la potenza della tecnica e del capitalismo, che si basa sulla creazione dei bisogni; la tecnica, poi, dà un vantaggio enorme a chi la possiede, tanto che chi non la possiede rimane ucciso, come accadde a Giovanni, che venne colpito in maniera imprevista alla gamba dal proiettile di una nuova arma, la colubrina, che gli causò una cancrena fatale.]

si aprono i piedi immacolati delle nuove propagazioni come cammini
da registrare, parti di tre, disarmati: necessario negare il sopra, se sotto; necessaria
se dopo, l’abrasione; dire al monumento che se saldo, crolla, se crollato,
resiste al dispaccio finale che risolve il vuoto come “perché”:

[Questa strofa si incentra su di un mio tema ricorrente, che qui si intreccia col propagarsi della guerra, ossia quello delle modalità di reazione ai fatti violenti: la negazione e l’abrasione successive, oppure la testimonianza delle incredibili inversioni accadute nella storia, dove quello che sembra saldo, crolla, e viceversa a volte si resiste dove sembrerebbe impossibile.]

è stato risposto che per salvare, perché lo serva e lo salvi, si rivolge
alla fonte della perdita, all’io non concesso, al fine respiro
dello strumento invocato, che precipita
con le mani, non se ritratte, o non volendo; servendosi:

[La suggestione è da Emanuele Severino, e riguarda la visione umanizzata del Dio, che ogni qual volta viene trascinato verso il basso dalle invocazioni funzionali fatte dall’uomo, rappresentato dall’aggrapparsi delle mani, perde il suo statuto, non è più Dio, è appunto un’altra cosa, che spesso appare tale proprio nel corso della storia.]

come in terra, i nostri nemici sono
piccoli vermi, inermi schegge di colubrina sullo spessore, e sempre
nello stesso gioco non conta non poter vedere, prima che volere;
il cambiare le cose in prospettiva, come invenzione, postazione, circonferenze di età:

[La frase citata è di un gerarca nazista, ma la frizione viene prodotta dall’accostare questi uomini-vermi alle schegge di colubrina che, pur nella loro piccolezza, uccisero il condottiero Giovanni, forando lo spessore della sua armatura: di nuovo, l’invincibilità quasi invisibile della tecnica, con la sua nuova prospettiva sempre più ampia («circonferenze») sconfigge la prospettiva umana.
Si prospetta un gioco linguistico con la strofa finale: «circonferenze» > «cerchi», però inteso come verbo, quindi qui verbo della sconfitta di Giovanni: egli cerca invano la gamba amputata a seguito della cancrena, ma è rimasto solo un nome di sconfitta, sottomesso alle leggi immutabili della tecnica, tra l’altro però implicite al concetto moderno di potere:]

cerchi la gamba tra le gambe e non la vedi,
nome sottomesso a leggi, da sé vinta,
in sé corrosa.

A questo manipolo di testi, che compongono la parte più sostanziosa del libro, corrisponde, come sviluppo a distanza della tematica della distruzione violenta del corpo delle vittime già presente in Castore e Polluce, un trittico dedicato a Ground Zero, successivo a un mio viaggio a New York, Tre movimenti per New York, creando così un evidente parallelo tra il “prodotto” (in tutto il suo cupo peso tecnico-economico) dei forni crematori e il “prodotto” del collasso delle Torri Gemelle. È quindi evidente che il risultato di questa corrispondenza allegorica è un successivo stadio di allegoria, che rimanda a una dimensione di “sempre presente” nella storia.
Il libro, però, si apre con una breve sezione di epigrammi numerati, che danno il titolo al libro, Il noto, il nuovo, che cerca di definire in questa dicotomia la natura del potere. È questa la sezione dove le suggestioni bibliche si fanno più roventi, e in particolare una, la numero IV, anticipa la questione del processo, che sto trattando in questo momento:

ecce homo, o meglio: ecce homo homini lupus.
mostrato per lo sbranare, non per il compatire. compatisce
chi si mostra sbranato, chi a questo

 

 

 

In Pilato e Gesù, un libro del 2013, Giorgio Agamben scrive che «urgente è il compito di comprendere come e perché questo incrocio fra il temporale e l’eterno e fra il divino e l’umano abbia assunto proprio la forma di una krisis, cioè di un giudizio processuale». Mi è sembrata con sempre più chiarezza quella processuale essere una questione nodale per comprendere la nostra civiltà occidentale. Perciò in una mia poesia dello scorso anno, Conchiglia con politica (a Carlo Ginzburg), che sarà presente nel libro in uscita dopo l’estate (Eredità ed estinzione, Arcipelago Itaca), affronto questo tema parlando del Tribunale Internazionale dell’Aia e del processo a Slobodan Milošević (morto in carcere, in circostanze non chiarite, nel 2006), con tutta l’opacità delle ragioni contrapposte dei giudici e del processato, che è in fondo la contaminazione reciproca e universale tra bene e male:

Conchiglia con politica (a Carlo Ginzburg)

                                                                                                                                                                                                                                    Museo d’Arti Applicate “ICTY”, L’Aia

che la storia non è un fatto, è invece un permesso,
a volte casuale:
                          attorno alla tazza madreperlacea si snoda un bassorilievo scolpito e inciso nella primavera del 1946 a Norimberga dal fattorino del Pubblico Ministero, tale Slobodan, durante i tempi morti, tra una consegna e l’altra, una fascia a narrazione continua come in un rocco della colonna di Traiano, un fregio in parte traforato in parte inciso sull’esterno di un ‘Nautilus pompilius’ incastrato a bocca all’insù tra un ampio piedistallo e una statuetta sormontante prensile, entrambi in argento dorato, cosicché la coppa, montatura e conchiglia, raggiunge la considerevole altezza di 48,5 cm. e una larghezza massima di 19 cm., e da solo il piedistallo bifronte è alto almeno metà dell’insieme

che fu realizzata così l’inversione, il crimine
di soppressione precedente al genocidio

che mai nella storia uno Stato è scomparso
per pura coincidenza

che è scivolato di lato il compromesso
                                                              della civiltà

[…]

Come si vede, in questa poesia il processo allegorico di riuso della storia è amplificato fino a diventare volutamente manierista: viene immaginata una vicenda su diversi piani – anche sotto la suggestione della lettura che Carlo Ginzburg dà del warburghiano Pathosformel in un saggio presente nel libro Paura, reverenza, terrore –, piani nei quali il processo viene duplicato e descritto nel bassorilievo rinascimentale di una tazza in madreperla, presente in un immaginario e allegorico Museo d’Arti Applicate a l’Aia (che altri non è che la sede del Tribunale), mentre al processo reale viene delegata la voce (qui in corsivo) dell’imputato serbo.
Questo sforamento allegorico da un piano all’altro, si verifica anche, ma in maniera meno complessa, in Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda (Arcipelago Itaca 2015). Il titolo è il prodotto di una citazione parodica di un libro di DFW, Verso Occidente l’Impero volge il suo carro, libro a sua volta costruito interamente come una citazione parodica di un altro romanzo. Questa, dunque, è la doppia chiave per capire Tecnica: da un lato l’uso dell’allegoria, dall’altro l’uso della citazione come riscrittura (anche parodica) – due elementi non collimanti, ma con molti punti perfettamente sovrapponibili, nel caso si tratti dei fatti storici.
Come spesso mi succede, trovo una giustificazione posteriore alle mie scelte poetiche, o forse una comprensione più piena alle stesse, in libri che incontro dopo (non che sia necessaria una giustificazione, alla poesia, ma essendo invece necessaria la coscienza di andare tessendo una rete di relazioni anche culturali con il resto della realtà, senza le quali dare un senso risulta impossibile): i Paesaggi contaminati di Martin Pollack mi hanno fatto capire che Tecnica, nella sua forma-libro, era di per sé un luogo della memoria del trauma – è qui idealmente il tema del trauma va a congiungersi a quello della rovina. Come ho scritto recentemente in un’antologia in rete americana (https://escholarship.org/uc/item/8k730054), «è tornato il tempo dell’allegoria, perché è l’unico modo di dire la verità. In realtà, si è sempre parlato di “evento traumatico”, in letteratura, e non si è quasi mai toccato propriamente il “territorio del trauma”. Questo territorio tellurico non può essere propriamente detto, né guardato direttamente, ma può solo essere visto allo specchio, descritto, disegnato come una mappa. In questo senso, tutto il mondo è il territorio del trauma». Eccolo, il tema citato all’inizio, della mappa. Oltre a essere fisicamente il libro stesso una mappa dei territori del trauma, il tema viene proposto anche nella prima parte del libro, occupata dalla sestina omonima, Tecnica di sopravvivenza all’Occidente che affonda: in questo testo, alla dissoluzione dell’Occidente sotto la spinta della tecnica-capitalismo (l’apparire di uno «scuro cavaliere che cavalca / sé stesso», il motto «fabbrica bene chi fabbrica per ultimo»), si sovrappone, esattamente come le mappe di cui parla Daša Drndić, la dissoluzione del Terzo Reich, e in controluce, la dissoluzione di ogni potere tirannico e fascista (il “secco”, direbbe Jonathan Littell) sotto la spinta della vita, del dato biologico non sopprimibile (l’”umido”):

III.

si sovrappongono come separazione naturale e mutabile,
approfittano della scissione scindendo, ma tutto è già avvenuto:
frattura misura solo frattura, circoscritta all’intero pavimento
chiamando potere la rovina del tempo. piove.
o non piove, se la pianta della città è la carta
del mondo, se la radice è nemica alla radice, che è.

Nella due brevi sezioni successive, un manipolo di testi si focalizza su vari momenti di crisi della storia europea, dalla Prima guerra mondiale al tramonto dell’Impero romano, alla Guerra di Crimea a all’Impero romano d’Oriente, e lo fa partendo da questioni apparentemente marginali; ma termina nei dolorosi episodi dei massacri nazifascisti durante Resistenza, così come sono accaduti nei luoghi della mia infanzia, e come mi sono stati raccontati in famiglia, come in una mitologia negativa.
Nell’incipit del testo poetico che propongo, Sestina bosniaca, o del penultimo giorno dell’umanità, inerente a frammenti di fatti inerenti la Prima guerra mondiale, la citazione parodica (di Karl Kraus) inizia già nel titolo, e prosegue citando, quasi macinando micro-eventi e parole pronunciate: precisamente in I, il Salmo 23 rovesciato e l’immagine della dinamica dell’attentato a Sarajevo, che poi continua anche in II; le parole che Sofie Chotek, morente, sussurrò al marito Francesco Ferdinando, appena colpita a morte da Princip (l’arciduca moriva più tardi), si chiudono con la citazione da Guido Morselli, che irride le cerimonie religiose nella Vienna degli Asburgo (III); in IV si narra la reazione del Kaiser Guglielmo II alla notizia della guerra, e come il telegramma gli venne lanciato sull’imbarcazione dove si trovava; V mette in evidenza l’indifferenza reale con cui la morte dell’Arciduca venne accolta a Vienna, impietosamente sottolineando che la barbarie è da sempre connaturata alla civiltà europea. Questo procedimento, che forse assomiglia a quella “ressa” di momenti opportuni che Zanzotto aveva già rilevato in Datità (2001), nasce dal tentativo di ricostruire, come con le tessere di un mosaico, un’immagine viva perduta, e paradossalmente la distanza data dall’allegoria rende più vicino il nucleo oscuro del passato:

Sestina bosniaca, o del penultimo giorno dell’umanità

                                                          ovunque andassi, la gente mi considerava un debole
                                                                                                                (Gavrilo Princip)
I.
se anche andassi per una valle oscura, non temerei alcun bene, perché tu sei con me:
se anche andassi a ritroso, ritroverei il corpo esploso, la pallottola
per l’eternità, una pura paternità in prospettiva: in somma, un impero centrale

II.
…un proiettile non va esattamente dove si vuole: ma due su due sono un bivio
perfetto, imboccato a ritroso come per difetto, o per eccesso di zelo:
si spinge indietro la macchina fino al punto esatto del suo non-ritorno

III.
…devi vivere per i nostri figli: non sembra vero che il ritroso si ripresenti per caso, aspetto
di un gesto grave, vista la fragilità, che afferra al petto, non il posto accanto, vuoto
il vuoto, sussurrato nella corsa del corteo pasquale di famiglia, che ha i suoi Decreti solenni, le sue Astuzie

IV.
come la storia: dobbiamo ricominciare tutto daccapo! il ritroso, il secco, lo sconcerto dei fiori
raccolto con stizza da chi si accorge che non si tratta di una tabacchiera, torna
indietro per cercare di smettere il calcolare, ma in un tempo incalcolabile

V.
…un tipico esempio della barbarie balcanica […] ma in città non c’è alcun segno di lutto:
un tipico esempio della barbarie viennese, o più che altro europea, ovunque
ci sia musica, nessuno piange a ritroso per più di un quarto d’ora, da sempre

[…]

Non a caso, però, il libro si chiude con Sestina come canto funebre, un congedo forte non solo a quelli che ritengo i miei maestri, reali ed ideali, Andrea Zanzotto ed Emilio Villa, ma anche a una certa idea di letteratura, compiuta mediante una appropriazione cannibalesca dei versi dei due poeti; perché ora, quando penso alla poesia, penso sempre meno alla letteratura: è diventata, come la storia, il luogo dove convergono i saperi, e, prima ancora, il luogo che permette ai saperi di farsi, la condizione stessa per vedere il mondo, seppure nel baluginio di uno specchio:

V.
sentivo da bambino, quand’ero bambino, o soldatino-pennino,
visto disteso nel catino, lucidato, fucilato, quasi
imbalsamato: quando morto, morto. lucidato.
o l’unghia conficcata nell’impronta-urna s’avventa
sbagliata nel momento, o le cose non viste alla luce
nera del buco non sono, o il tumulo tiene, tormento, cenere (?)

VI.
prossima alla terra: guerra, carcassa del pensiero. si brucino
i corpi ma non le carte, ‘che al ritorno ritroverà
il posto, posto tra lo sterno e il cervello, povera pieve
del non-pensiero, mai putredine all’apparir del vero
campo, e santo, santi voi, enigmi incistati
nella vostra lingua morta,
                                         mai più mia

 

nota bio-bibliografica:

Giovanna Frene (in copertina nella foto di Dino Ignani), poeta e studiosa, scoperta da Andrea Zanzotto, è nata ad Asolo e vive a Crespano del Grappa (TV). Laureata in Lettere all’Università di Padova, si è addottorata ivi in Storia della Lingua, con Pier Vincenzo Mengaldo.
Ha pubblicato vari libri di poesia, tra cui Sara Laughs, D’If 2007; Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca 2015, che nel 2018 ha riedito anche Datità (2001), con l’originale postfazione di Zanzotto.
È inclusa in varie antologie poetiche, tra cui: Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas, a cura di Jan Wagner e Federico Italiano, Hanser 2019; Nuovi Poeti italiani 6, Einaudi 2012; Poeti degli Anni Zero, Ponte Sisto 2011; New Italian Writing, “Chicago Review”, 56:1, Spring 2011; Parola Plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Sossella Editore 2005. Ha pubblicato poesie in riviste italiane e straniere, e nei maggiori lit-blog.
È tradotta in antologie di poesia italiana statunitensi, inglesi e spagnole. È inserita nel sito ufficiale dei poeti italiani (www.italianpoetry.org). Collabora con “Alfabeta2” e “Poetarum Silva”, e ha pubblicato saggi e recensioni in volumi e riviste.
Attualmente svolge un Dottorato in Storia della Lingua a Losanna (CH), sotto la guida di Lorenzo Tomasin. Nell’autunno 2019 uscirà per Arcipelago Itaca il nuovo libro, Eredità ed estinzione.

ph tratta dal film Sacrificio (Offret) – 1986 – scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 39º Festival di Cannes.

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