S’immerge nell’esistenza per riemergere con una profondità “semplice”, difficilissima, che le permette di (riba)dirci che «abbiamo desiderio immenso/ …/ di sovrumane carezze,/ di fiducia nelle mani». Parliamo di Beatrice Zerbini (nella foto di Dino Ignani) e del suo fiammante “D’amore” che, dopo l’acclamato libro di esordio, “In comode rate”, entrambi pubblicati da Interno poesia di Andrea Cati, prosegue il proprio cammino («nel mezzo del cammin di nostra vita,/ la vita») focalizzando il tema dei temi, l’amore, porgendolo, (così lo percepiamo), come una sorta di “quiete” accesa dall’intera costellazione di sentimenti che ruotano intorno al genere umano. “Amore, dolore, lutto, attraverso il lavoro psicoterapico, di cui non si fa segreto, entrano nel cono di luce della cura, in un turbinio di emozioni, tra il pianto e il riso”, scrive nella prefazione di Alberto Bertoni paragonandola, come Alba Donati, per ironia e facilità di canto, a poetesse quali Lamarque e Szymborska.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “D’Amore”?
Per prima cosa, ti ringrazio per l’invito che accolgo con grande piacere e per le tue domande, cara Grazia: sono un’occasione anche per me di riflessione, un modo per osservare ciò che vive e che vivo e basta, per pensare a ciò che non ha pensiero di sé. Devo fare una premessa. La mia vita è costellata di scintille, lo è stata fin dalla prima infanzia. La scintilla è la distrazione, la deviazione dal reale, dall’esperibile, è una presa improvvisa che ti afferra, mentre nuoti nel quotidiano e ti strattona fino alla battigia, ti obbliga a guardare le piccole conchiglie, ti fa piegare sulla sabbia, entrare nel nucleo del granello, indossare lo scheletro del granchio. La scintilla illumina ciò che è periferico, oscura il rumore delle onde, della burrasca, dei richiami, dei tuffi, di tutto ciò che è palese e grida; cristallizza il movimento dell’esistenza, di un’esistenza marginale, ma essenziale. Ha la veemenza di un atto subìto a cui non puoi ribellarti, ma la dolcezza e il piglio di un miracolo a cui non vuoi assolutamente ribellarti. Qualche volta, questa scintilla diventa una poesia. Come spesso dico, non ho mai pensato di scrivere per scrivere un libro; così nessun libro che ho scritto è nato da una scintilla, piuttosto il mio amare, il mio disamare, il mio essere amata e disamata, il mio piangere, il mio ridere sono stati continuamente disturbati e a un tempo incantati e strattonati da scintille che sono diventate poesie. Mi sono distratta tante volte quante sono i testi di questo libro. Il tema della mia distrazione è sempre uno: l’amore. È l’amore la morsa che mi piega sulla spiaggia a guardare, l’amore (e la sua mancanza) la morsa che mi fa parlare con un tu o con me stessa. Il libro è nato dal desiderio che ho sempre avuto di non essere sola, di condividere la percezione dell’esserci, del presenziare al mondo, mentre mi muovo in queste periferie dello sguardo e dell’esistenza.
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
La mia vita è già linguaggio, ma non dice sé stessa, non ha un correlativo con cui agire i fatti e le esperienze, per questo è silenziosa, non dialoga, fa; lei vive e procede in solitudine. La sua è la solitudine che appartiene a tutti gli esseri, quella che rende unici e inaccessibili all’altro da sé. La vita attraversa gli accadimenti in modo non analitico, è tutta sintesi e manifestarsi di bisogni, aspirazioni, effetti, concause. Sono io poi – io, sovrastruttura del mio semplicissimo respiro – che con le mie distrazioni distillo senso, le do un suono, la guardo, la codifico e parlo per lei, attraverso di lei e a lei. Mi viene in mente il “guardo vivere me stesso” del mio amato Gozzano. Come lui, guardo e non so tacere, quando vedo. Così la mia vita diventa linguaggio.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Non so di che cosa sia lingua la poesia, ho paura a battezzare e a sentenziare, perché nulla so, forse appena appena qualcosa (anche se poco e mai abbastanza) so del mio funzionamento, ma null’altro; per me e secondo me, anche dell’invalicabile, sì. Anche se fatico a fare distinzioni fra invalicabile e valicabile; perché guardare poeticamente la realtà è un modo che struttura: non se ne è mai liberi. Non mi è possibile differenziare davvero. Non cambio sguardo a seconda di ciò che osservo. Sono ipermetrope, posso mettere gli occhiali e vedere come tu vedi, ma tolti gli occhiali il mio occhio si abbandonerà sempre a quella distorsione, è la sua tendenza. Così la poesia. Il linguaggio poetico mi accompagna dalle prime parole infantili, appartiene al coraggio o alla codardia che sono in me – annidati nella mia sostanza – di chiamare le cose con il nome che mi impongono loro; forse questo sostanziale e viscerale portamento, che abbraccia tutte le realtà, a volte, arriva ad abbracciare anche quelle invalicabili, sì, fino a poterle nominare. È poetico il nome che la verità e l’intimità danno a sé stesse, perché è un nome masticato e digerito da tre bocche, la loro e la mia.
La poesia può colmare la pensosa solitudine del poeta? Può assecondare quel “desiderio immenso/ di immenso nutrimento”?
La poesia può creare un ponte fra le persone, sondare il fondo e restare al centro di ciò che è terribilmente autobiografico, ma salvificamente universale; può porre le premesse, gettare le basi per una comunione; però può anche divaricare la solitudine, anzi sono certa lo faccia. Scrivo solo quando totalmente sola con me e mi riferisco a una solitudine interiore. La poesia non colma niente, partecipa. La poesia non può assecondare “il desiderio immenso/ di immenso nutrimento”, no, può provare a dirlo; credo che piuttosto possa mettere il dito nella piaga. Il desiderio immenso di immenso nutrimento è un insetto morto e orribile sul davanzale, la poesia sa guardarlo e non lo teme, dato che non si muove più, lo solleva fino alla punta del naso, per contargli le zampe e le viscere, poi riferisce, asseconda il desiderio di nutrimento, più che il nutrire.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?
Per quanto mi riguarda, per le cose che ho provato a dirti qui sopra, per l’autodefinirsi dell’oggetto – data per assunta e irrinunciabile la verità, dalla quale per me non si prescinde – forma e suono della parola sono un tutt’uno. La verità si scrive con tutto ciò che si ha a disposizione: suono, ritmo, metro, parole, spazi, a capo. Tutto concorre. L’amore ha la lettera m, per il mio orecchio e per il mio sguardo, l’amore quando è frutto maturo e comunica al ritmo del desiderio o a quello del sonno, più lento. La poesia funge da impastatrice e miscela ciò che con la lingua si può dire di qualcosa che di solito non ha voce.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
La poesia mi ha donato l’idea di avere un senso, una direzione, mi ha donato la comodità di poter riconoscermi sempre identica, attraverso di lei, di non perdermi mai; la poesia mi ha donato una tana e la fede in un dolore infantile non sprecato: un dolore, in qualche modo e a qualcosa e a qualcuno, servito. Servito non a quello che forse si potrebbe pensare. Il dolore mi è servito a imparare a guardare, a cercare affannosamente, a voler controbilanciare tutto il silenzio e l’incomprensione, con tutta la mia voce e la chiarezza, mi è servito anche ad accedere alla gioia e a non averne paura.
Riporteresti (spiegandoci le ragioni) una poesia (di altri autori) nella quale sei solita trovare “rifugio”?
Ne ho tante. Ne riporto solo una, a malincuore.
Un’altra crisi di mezza età
3 di notte. Mi sento la morte addosso
e ho voglia di farla finita con tutto.
Prendo la scatola delle aspirine.
Ce ne saranno abbastanza?
Le conto una per una. 72?
Ne occorrono di più per essere sicuri.
Rovistando qui e là ne aggiungo altre trenta.
Dovrebbero bastare.
Prendo le prime due con un sorso d’acqua.
Mi sento meglio. Torno a letto. Mi addormento.
Roger McGough
Questa poesia, incontrata per la prima volta a quattordici anni, non mi ha mai lasciata. Mi ricorda quanto i momenti della vita siano provvisori, quanto sia tutto molto poco definitivo, contrariamente a quanto ci diciamo, mentre ci struggiamo e disperiamo, come se fosse per sempre. Mi riferisco anche ai grandi lutti (alcuni dei quali ho attraversato): non ci si libera mai dal dolore, ma dal guardarlo sì, si può imparare e si impara, partendo da piccolissime, minuscole cose.
Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Non sono in grado di farlo, posso azzardare… Per scrivere una poesia, bisogna non voler scrivere una poesia. Bisogna guardare, osservare, ascoltare, maniacalmente e con desiderio, la vita, fino all’arrivo della scintilla. Che non sempre arriva. Se arriva la scintilla, se ci si lascia strattonare, allora poi, piegati o piegate sullo scheletro del granchio, si può iniziare a riportare ciò che si vede. Bisogna leggere tanto, avere dentro di sé i modi che usa la scintilla per esprimersi, bisogna avere voglia di dire, sentire che è importante dire (non importa che lo sia davvero, importa che si sia onesti nel voler comunicare, che non si scriva per scrivere, ma si scriva per l’innamoramento che si ha del granchio, del granello). Questo è ciò che accade a me…
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “D’Amore” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Scelgo una poesia, quella che apre il libro, che ho appuntato mentre ero in seduta dalla psicoterapeuta. È una poesia che racconta la reale seduta psicoterapica, ma lo fa dalla periferia della scintilla. La battigia, la sabbia, gli scheletri dei granchi sono torte di riso e tazzine di vetro.
– Non mi tolga tutto il lutto, dottoressa,
me ne lasci la metà;
io non voglio che il mio cuore
sia sgombro per intero,
mi lasci la mancanza:
faccia male di notte,
se non dormo, ma se dormo,
se possibile, vorrei
non svegliarmi nel buio,
come se
non potessi respirare.
Mi tolga
l’impossibile che è che non si possa
più ascoltare la sua voce
e lo squillo del telefono mai suo
quando compio un altro anno
e non vorrei.
Mi lasci continuare
a guardare fissamente
se qualcuno beve
il caffè nel vetro
e faccia che io pianga
sulla torta di riso;
mi tolga il grido, se può,
la testa che sbatte,
il nero che fa
la fine.
Non mi resta che
la mancanza che è:
e se è il dolore che riempie
come un corpo
il mio corpo,
me lo lasci per metà.
Non voglio perdere
che ferisca come un taglio
la lama che non taglia dei suoi occhi;
Tolga il lutto che inginocchia,
che non crede, che mi chiude
in casa.
Mi lasci che mi facciano
male i fiori,
ma non tutti,
solo quelli arancioni.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 15.01.2023, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).