Demetrio Marra è nato a Reggio Calabria il 4 settembre 1995. È laureato in Filologia moderna all’Università di Pavia con una tesi su Luciano Bianciardi. È vice-direttore di «Birdmen Magazine», rivista di Cinema, Serie e Teatro. Collabora con la sezione Lingua italiana di Treccani.it. L’antologia Poeti nati negli anni ’80 e ’90 (Interno Poesia, 2019), a cura di Giulia Martini, ha ospitato tre suoi testi con prefazione di Riccardo Donati. Ha esordito con Riproduzioni in scala (Interno Poesia, 2019), con prefazione di Flavio Santi. Suoi testi inediti, in poesia e in prosa, sono comparsi su Abitare la parola (Ladolfi, 2019); sulla Bottega di poesia di Repubblica – Roma, a cura di Gilda Policastro; su Neutopia, su Altri Animali e su Mirino. Attualmente vive a Milano.
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“Ora che non sono sicuro di sentirti, / chiudo gli occhi solo quando la scorza/ di luce tra le ante interne cieche/ si allunga sulla via del pavimento.”, pochi versi di Demetrio Marra, tratti da “Riproduzioni in scala”, Interno Poesia 2019, per introdurre la nostra intervista.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Nella hall della mia scuola media, presentavamo tutti una poesia per i nonni, con pubblico di genitori e parenti. La mia era: «Cari nonni / vi vedo nei miei sogni / che giocate con me / da quando ero bebè. / Ora che sono cresciuto / e uno di voi è nel cielo stellato / vi vedo nei miei sogni / come dei veri nonni / sempre gentili e premurosi / e nessun toccar mi osi!». Chiaramente mia madre ha cominciato a piangere a “uno di voi è nel cielo stellato”. Non so se ho scritto qualcosa prima, credo di no.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
Per le cose che ho pubblicato su Atelier nel giugno 2018 guardavo molto accademicamente a Caproni, Saba e Montale. Era una piccola silloge di una ventina di testi che raccontava la morte della mia bisnonna e l’universo che le ruotava attorno incrociandoli con la vita dei miei nonni materni. Quella che salverei molto volentieri viene direttamente da un testo di Pascoli, di cui ho – penso – copiato l’attacco (non ricordo la poesia, ma la lessi dall’antologia mengaldiana):
Il primo freddo
«Rosa» da tre giorni non risponde
al freddo «tua mamma» mi dice mio padre
«è stesa nel letto» mi parla dal fisso
«accucciata indietro quarant’anni».
Nella stanza l’ennesima badante cacciava dallo specchio
la polvere e dal lampadario. Si muovevano
più della carne, diventava le sue macchie sulla pelle.
Ogni tanto mamma cercava il cuore, sapeva.
Sta
morendo
mentre un giovane prete arrivava dietro
il medico, era ambizioso desiderava altre anime.
«il dottore ha detto» mi fece ridere «che il cuore avrebbe
smesso» per messaggio «… ma respira».
La sua prima parola da giorni amen, con mia madre che assolveva
la croce per lei,
«moriva» pregando.
Chiedevamo alla donna di andare via, di non togliere
ciò che restava di Rosa dal lampadario.
È morta come voleva di domenica?
Non lo so. Abbiamo
tolto dal muro anche il calendario.
Per Riproduzioni in scala sono stati fondamentali alcuni autori di testi lunghi, narrativi. De Alberti mi consigliò l’Ottieri dei Poemetti, Santi mi disse di “sporcarmi” un po’ con Cattaneo. Penso siano serviti molto.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Ci sono alcuni versi, anche qui molto accademicamente, che non mi lasciano. Sono alberi, case, colli montaliani. In quella sua Forse un mattino andando che è molto postpostmoderna, se penso a quanto sembra parli di un videogioco. Il Congedo di Caproni, che se mai insegnerò vorrò leggere a ogni prima lezione. Ottieri penso vada riletto per intero e con intelligenza. Quel suo modo di raccontare schermandosi e irridendosi farebbe davvero del bene a tanta poesia fin troppo ingessata:
C’era anche uno scrittore di grido
che chiese: Ma tu, il tuo male,
lo vuoi?
Non sono così onnipotente,
psicanaliticamente risposi.
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
Non ho un momento, né per la lettura né per la scrittura. In generale, preferisco leggere nel pieno delle forze, quindi la mattina o il primo pomeriggio, poi crolla l’attenzione. Ultimamente, ma anche in generale, scrivo molto poco, soprattutto poesia. Penso a piccoli versi che appunto dove posso, poco romanticamente sul cellulare, e poi li sviluppo quando ho un attimo, che è un attimo anche fuori dalla noia, l’attimo della saturazione e della lucidità.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Non credo di poter spiegare né definire la poesia. Posso dire che per me è esattamente una retroguardia: l’unico modo che conosco, forse il più semplice, di rinunciare alla prosa, una certa prosa (Landolfi, Bianciardi, ancora Ottieri – alla base anche della mia poesia) che mi sembra irraggiungibile.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Se potessi modificherei quello che pubblico ogni cinque minuti, ad aeternum, e Andrea Cati credo lo sappia bene, penso di avergli dato centomila versioni diverse di alcuni testi, lo beatificheranno. A volte si tratta di ritmo individuale (penso a un testo di Bill Knott, Example, citato da Bernardo Pacini recentemente: «All my thoughts are the same / length—they’re lines, / not sentences»): una poesia smette di consumarti, di ripetersi in background.
Qual è (dal tuo punto di vista) la lingua ideale della poesia?
Se non diresti ciò che scrivi anche al bar non vale. C’è chi biascica, chi sproloquia, chi non si fa capire, chi invece è chiarissimo, chi festeggia, chi è incazzato, chi è a digiuno e cena con la birra perché ha un buon apporto di carboidrati, chi parla di politica, chi sfoga una delusione amorosa, eccetera eccetera. Il problema è di tono, capire che la poesia non ci salva da niente, non è un oracolo, non sventra, non ha uno slot tutto suo nella differenziata.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?
Non so se abbia un incarico. Ha un ruolo, ogni cosa ce l’ha. Credo possa avere un ruolo “pedagogico”, in senso più esteso possibile, come tanta scrittura: di educazione linguistica, per esempio. Forse può essere un esercizio di attenzione verso le falle di realtà, che sia una realtà logica, una realtà fisica: l’anello che non tiene, insomma. Non so dirti altro.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
[…]
A tutto ci si abitua:
intanto a Dio e poi
scendendo, umilmente,
a tutti gli uomini. E così
io ho assistito, ho ricercato
Dio e gli uomini, ovviamente.
Da Bisogna avere paura del mondo? (Mappe del genere umano) di Flavio Santi
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare una tua poesia dal libro, “Riproduzioni in scala” (perché questo titolo?) e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Domanda gigantesca. Il titolo è stata l’ultima cosa scelta, assieme all’editor. Guardavamo i versi, cercando di pescare qualcosa che facesse eco. A me piaceva molto Anticipazioni dalle vie di fuga, ma aveva meno “portata”. Le riproduzioni in scala sono quei piccoli giochi di ridimensionamento (zoom in avanti o indietro) che applico alla realtà, come si trattasse di Google Maps, con la possibilità persino di piazzare l’omino e passeggiare, anche se tutto è immobile attorno a te. Il libro nasce da un nucleo molto più grande, di circa ottanta testi. Son felice di averne buttati quarantacinque. C’era di tutto, dall’apertissimo dramma familiare alla poesia “politica”, dalla satira alla poesia d’occasione (e quindi d’amore). Un mappazzone. Coi vuoti lasciati nella prima sezione – che era un poemetto satirico sulla mia esperienza pavese (su cui, da sommelier quale sono, ci piscio sopra [è un’autocit, sono nel campo dell’iolirico, o forse no]), troppo esplicito, troppo ipertrofico, di cui son rimasti solo sette o otto stralci, mai infatti appuntati, chiusi da un punto – con quei vuoti ho potuto giocare, prima intellettualizzando, o sguardando da lontano, inserendo Reggio Calabria tra le città in cui «non ci sono» (da un punto equidistante le guardo e non vi appartengo, o forse sì); poi creandomi un doppio, che potesse ricadere nella lirica, come da terza sezione, e giocare un po’ con le forme (poesia, prosa e “prosa sbarrata”) e i generi (lirica, epica, prosopopea). Il poemetto finale credo rimanga il mio miglior testo, tra l’altro quello più rimaneggiato. Anzi, il testo che credo migliore è quello pubblicato per Neutopia, defining parody, fuori dal libro (dopo il libro). Allego l’ultimo della terza sezione, in dialogo con Raboni (altro grande, si spera, nume tutelare):
Regionale veloce
Giovanni Raboni, Parti di requiem,
Quadratura, in Cadenza d’inganno
Se è di questo che parliamo, e se è così
che continuano a vivere – nei morsi
d’ossido della lamiera, o come muffa
lambendo le bottiglie –
hai ragione: si sprecano dei soldi. Ma sul conto dei morti
si tramandano ancora altre notizie:
che se rimanessero vicini
ai loro corpi, incerti, diffidando
di una provvisoria corruzione,
aspettando segnali… e allora vedi
che i conti tornerebbero, più in là.
Può essere vero, innanzitutto
che torni qualcosa, pure non sapendo
di che conti parli (il mutuo,
la luce?), provato anche il sospetto
di morsi o proliferazioni
di muffe, sì, cos’altro? Delle schegge
sul cuscino, se non già
apripista: lupi solitari. C’è
il gas da pagare, le rette universitarie,
quale credito dare allora alle notizie; forse
fede, già. Intanto chiudendo la luce,
la doccia di pochi minuti, saponi sfusi:
assecondando lo scorrimento – val la pena
allora sprecarli questi soldi e che ghiacciai
inondino la terra, tra migliaia di anni,
se a tenerci la plastica gli atomi, le cellule
(andrebbero troppo lontano, altrimenti) hanno
i binari: i conti prima della soglia, preferisco.
in copertina Demetrio Marra ph Laura Pusceddu