Andrea Giampietro, “Quasi una scorciatoia”, fino alle zone “insondate del nostro animo e del nostro intelletto”.

tre domande, tre poesie

 

Andrea Giampietro nasce a Popoli (PE) il 3 dicembre 1985. Cresciuto a Pratola Peligna, vive attualmente a Sulmona (AQ). Come autore di versi ha pubblicato Il paradiso è in fondo (Roma, Ediz. Lepisma, 2010), con prefazione di Dante Maffia, Di notte a luna spenta (Piombino, Ass. cul. “Il Foglio”, 2012), presentato da Maria Luisa Spaziani, Cronache dall’imbuto (Lanciano, Casa Editr. Rocco Carabba, 2017), con una dedica di Ottaviano Giannangeli, e Quasi una scorciatoia. Elegie ed epigrammi (Borgomanero, Ladolfi Editore, 2020). Come traduttore ha reso in italiano le opere di Oscar Wilde (La ballata del carcere di Reading, Roma, Ediz. Croce, 2012), Elizabeth Gaskell (Bran e altre poesie, Ediz. Croce, 2016) e Stéphane Mallarmé (Poesie, Rusconi Libri, 2020). Per Rizzoli ha tradotto, dal francese, il reportage giornalistico La macchina della morte (2016) di Garance Le Caisne. Scrive recensioni e saggi di critica letteraria per quotidiani e riviste (come “L’immaginazione» di Manni, “Poesia” di Crocetti e “il 996” del Centro Studi “G.G. Belli”). Nel 2016 inizia la sua collaborazione col poeta abruzzese Ottaviano Giannangeli, che assiste nella revisione della sua opera omnia, Quando vivevo sulla terra (Castelli, Verdone Editore, 2017). Nel 2019 cura il volume-omaggio Un gettone di memoria. 23 voci per Ottaviano Giannangeli (Ortona, Ediz. Menabò). L’anno seguente, sempre con la sua curatela, vede la luce il romanzo giannangeliano Ti ricordi (Raiano, Ediz. Amaltea).

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia, la forma quanto incide sull’essenzialità della parola poetica?

In una scena del Malato immaginario, Monsieur Jourdain scopre dal suo Maestro di Grammatica che per esprimersi non ci sono che la prosa e i versi. E alla domanda: «Quando si parla che cosa si fa?», il Maestro gli risponde: «Della prosa». «È più di quarant’anni che parlo in prosa», realizza stupefatto Jourdain, «e non lo sapevo!». Nel corso del Novecento il confine, un tempo netto, tra prosa e poesia è andato man mano dissolvendosi, portando la poesia a perdere quella “verticalità” che la rendeva una forma esclusiva – quasi eccezionale – di espressione, e a piegarsi, contravvenendo alla sua stessa natura, all’ “orizzontalità” della comune narrazione e del comune sentire. Anzitutto non si sa più cosa sia il verso, quale funzione esso abbia, e quali e quante possibilità retoriche offra la scrittura poetica. Ovviamente il significante ha da essere la transustanziazione del significato e non un semplice esercizio stilistico: «Sdegno il verso che suona e che non crea», ammoniva il Foscolo nelle Grazie.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti, rivelandoci cosa “muove” la tua “preferenza”?

«Dalla solita sponda del mattino / io mi guadagno palmo a palmo il giorno: / il giorno dalle acque così grigie, / dall’espressione assente. / Il giorno io lo guadagno con fatica /  tra le due sponde che non si risolvono, / insoluta io stessa per la vita / … e nessuno m’aiuta. / Ma viene a volte un gobbo sfaccendato, / un simbolo presago d’allegrezza / che ha il dono di una stana profezia. / E perché vada incontro alla promessa / lui mi traghetta sulle proprie spalle.» Era il 1950 quando una giovanissima Alda Merini consegnò questa ed altre poesie a Maria Luisa Spaziani che rimase talmente affascinata da includerla nell’antologia Poetesse del Novecento, curata insieme a Montale per Scheiwiller. A questa poesia di struggente, forse rassegnata, eppure delicata desolazione mi rivolgo quando mi sento “insoluto io stesso per la vita”. E alla stessa Merini, o alla succitata Spaziani, mi capita spesso di rifarmi, così come a due grandi nomi della poesia russa, quali Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. Per non parlare dei miei amati francesi (mi sono “fatto le ossa” traducendo Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmé) o degli italiani a cui più spontaneamente mi accordo, a cominciare da Pascoli, D’Annunzio, Gozzano e Saba. Negli ultimi anni ho avuto la ventura di conoscere la poesia di molti miei conterranei, grazie alla frequentazione di un grande letterato della mia regione (io sono abruzzese), il Prof. Ottaviano Giannangeli, a cui devo, tra le tante cose, l’occasione di aver scoperto il dialetto come lingua poetica d’eccezione. Eppure anche la prosa – perfino la saggistica – può fornire dei buoni spunti poetici.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo Quasi una scorciatoia (perché questo titolo?), Giuliano Ladolfi Editore (2020); di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quando “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

L’attività poetica, e quella artistica in genere, è vista come una “scorciatoia” rispetto all’impegno comune della vita; come se chi la pratica rifuggisse dai propri impegni per trincerarsi in un mondo ideale. L’esperienza mi ha insegnato che il lavoro letterario, che io provo a condurre con la cura, l’attenzione e la passione di un artigiano, può essere ugualmente arduo, anche perché conduce a delle zone solitamente insondate del nostro animo e del nostro intelletto.  In genere scrivo quando ho la poesia già composta in mente o comunque non mi azzardo a buttare giù versi che, ripetuti tra me e me, non mi paiano buoni. Ovviamente accade che, a distanza di tempo, li riveda; il labor limae può essere estenuante… Posso fare un esempio con Baciai due volte il nodo della sciarpa…, in cui il verso «del rapimento d’altro tempo insieme» nasce come «del furto di qualche altro istante insieme», per poi diventare «del furto di un momento ancora insieme» e addirittura (variante messa da parte perché troppo “laccata”) «del furto della nostra compagnia», prima di arrivare alla stesura definitiva. È un impegno da “speziale” quello in cui mi provo: occorre bilanciare le diverse sostanze fino a trovare il dosaggio più adatto all’evenienza. Io propongo di riportare Baciai due volte il nodo della sciarpa…, non tanto perché ne ho appena parlato quanto perché è uno dei componimenti a cui sono più affezionato. Le altre due sarei lieto se fossi tu, carissima Grazia, a sceglierle.

 

Baciai due volte il nodo della sciarpa
che per la troppa fretta avevi stretto
a soffocare il giorno, a vendicarti
del rapimento d’altro tempo insieme.
Con la premura d’una dolce sposa
– esisterà la donna che consola? –
raccomandasti a me di ritornare
non troppo tardi né subito appena.
Un grido alla finestra: «Che scordasti
la penna?». (Sai che tengo alla scrittura.)
«È nel taschino, grazie.» Ma tacevo,
ché resta a te il mio dono di parola.

28 luglio 2019

Canzonetta dei giorni bui

Nella stanza che mi spetta,
nell’alcova benedetta
di poeta squattrinato
ripudiato dallo Stato,
già mi vedo un antro scuro,
ragnatele sopra il muro
e per terra le formiche
che si gustano le miche
di quel pane che mi resta
per aver la dura testa
di far sempre a modo mio…
E di questo pago il fio!
Ci sarà, lo so, un ritratto
di mio nonno, quello matto
che viveva d’ideali
incurante d’altri mali,
della Volpe, la poetessa
che viveva da indefessa
curatrice del bel verso
e l’amico che d’un sorso
dell’Abruzzo sa rifare
l’estensione d’un bel mare.
Poi ci metto un crocifisso
sopra il letto e tutta rossa
la bandiera comunista
che faranno un testa a testa;
ovviamente libri e carte
a vestigio di quell’arte
che mi porterà in miseria.
Poi la Musa tutta seria
mi dirà: «Ecco la fama:
c’è tua figlia che ti chiama!».

19 ottobre 2017

L’ultimo fuochista

«Tu bambina che fai, guardi le stelle?»
«No, aspetto i fuochi d’artificio in cielo.
Fanno tanti colori e forme belle.»
«È vero… Ma perché te ne stai sola?»

«Mi ha lasciato mio padre un momentino
ma lui ritorna presto, non temere.»
«E la tua mamma?» «Lei è una fatina,
che gira i boschi e non si può vedere.»

«Guarda, signore, i fuochi, tu li vedi?»
«Oh sì, piccina. Sai, mi sembra folle
che invece d’una stella lassù cada
un trionfo di festoni rossi e gialli.»

«Mi ricordano tanto i miei disegni.»
«Che rombo forte.» «Io non ho spavento,
perché tutto fa parte di quel sogno
che suona di colori.» «Sì, lo sento.»

«Beh son finiti. Tra un momento solo
suona la banda… Ma i tuoi genitori?»
La bimba era svanita. Su nel cielo
un po’ di fumo. Era giunta l’ora.

1° giugno 2017

 

 

 

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