DESOLATA O DEVASTATA? Aimara Garlaschelli. “Per me, The Waste Land di T. S. Eliot è l’attraversamento dell’esperienza del dolore”.

Poetessa valtellinese, Aimara Garlaschelli ha pubblicato finora la raccolta Figure di silenzio (LietoColle 2016, nota di Maurizio Cucchi), e la drammaturgia in versi Il rito delle ore (ETS 2019, postfazione di Stefano Agosti), e a breve esordirà nella Bianca Einaudi con Nel nome della madre.

Sul versante critico, sua è la curatela de La terra desolata di T. S. Eliot, uscita sempre per ETS tre anni fa senza alcuna risonanza. La si potrebbe vedere come pendant de La terra devastata, l’ultimissima versione per Il Saggiatore di Carmen sugli scudi ora ovunque.

Vista però l’equivalenza piena quanto a mole dell’apparato critico, per par condicio ho pensato d’intervistare la prima poetessa sulla falsariga dell’intervista fatta da Davide Brullo alla seconda (qui). E quindi:

DB: Che cosa pensa del “devastata” proposto per The Waste Land da Gallo in barba alla tradizione?

Può essere una scelta felice editorialmente parlando, ma sul piano critico è erronea. “Desolata” non è una sovra-interpretazione lirica, come a volte si è detto, ma un participio passato con funzione di aggettivo, che filologicamente rispetta il testo e le indicazioni dell’autore stesso. In una lettera ad Angel Flores, del 22 febbraio 1928, Eliot infatti scrive: “L’unica traduzione esatta del titolo è quella che ha scoperto il mio traduttore francese, Jean de Menasce, anche se ahimè! troppo tardi per usarla nella sua versione: La Gaste Lande. Questo titolo è proprio l’equivalente esatto, in quanto rimanda allo stesso racconto medievale”. Se è così, la questione non è come interpretare l’aggettivo, ma riportare l’espressione originale nelle diverse lingue di arrivo. Il traduttore italiano, che voglia rispettare il titolo originale senza sovrastarlo, non deve fare altro che consultare i testi degli studiosi di lingua romanza e adottarne la convenzione. Ora, nell’edizione a cura di Mariantonia Liborio del Meridiano Mondadori 2005, Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, “La Gaste Lande” è sempre reso con “la terra desolata”, e così pure nell’edizione a cura di Lino Leonardi del Millennio Einaudi 2020 Artú, Lancillotto e il Graal.

Renato Poggioli a metà del secolo scorso aveva avanzato l’ipotesi di un prelievo da Inferno, XIV, “In mezzo mar siede un paese guasto”, ma il “paese guasto” di Dante è l’antico regno di Saturno, mitica età dell’oro andata perduta, mentre Eliot in nota al poemetto avverte che “non solo il titolo, ma anche lo schema e gran parte del simbolismo non voluto del poema furono suggeriti dal libro sulla leggenda del Graal di J. L. Weston, From Ritual to Romance”. E “la terre gaste et escovee” è, fin dal primo Perceval di Chrétien de Troyes risalente al 1182, “la terra desolata e spazzata [dai venti]”, dove “gaste” vale casomai “deserta”.

Infine, “waste” come “desolata” rimanda a una provvisoria, risanabile sterilità, la quale è anche, secondo il mito del Re Pescatore, correlata alla salute fisica e mentale del Re, quindi non necessariamente irreversibile, mentre “devastata” indica una realtà territoriale che ha avuto uno sconvolgimento tale da risultare irrecuperabile, e non a caso il termine veniva già nell’antichità classica associato alla rovina di Tebe, Troia ecc.

DB: Perché, invece del contesto “storico”, ha preferito evidenziare il nitore mitico” del poema?

Anche in questo caso Eliot è chiaro. Ogni interpretazione del testo è utile, a condizione che il lettore non cerchi di attribuire all’autore la sua soggettività. Il recente commento “storicizzante” della Gallo è stimolante e valido per avvicinare il pubblico a TWL, ma l’affermazione che “Eliot tenta di restituire nel poemetto l’esperienza dell’orrore della guerra” è contraddetta dallo stesso autore in una lettera a E. M. Forster del 10 agosto 1929: “Penso solo che Lei esageri l’importanza della guerra in questo contesto. La guerra mi ha bloccato, come ha fatto con tutti gli altri; […] ma TWL sarebbe la stessa senza la guerra”.

Ne consegue che l’unico livello interpretativo che rispetti il testo è quello “mitico”, inteso non come fine, né tantomeno come “un gradevole espediente o un’impalcatura eretta dall’autore allo scopo di collocarvi il suo racconto realistico”, com’ebbe a precisare Eliot già nel 1923. No, il poema affonda la propria fenomenologia verbale, le proprie fondamenta, in una stratificata “eredità di parola”, ed è così che dovrebbe essere accolto il “metodo mitico”, che Eliot equiparò a una scoperta scientifica rivoluzionaria. Ho cercato di mettere in evidenza questa ricchezza semantica sia in traduzione, sia nelle note.

DB: Come ci parla oggi il poema ormai secolare di Eliot?

Per simboli e allegorie, e questa è – insieme ai cambi di registro, alla stratificazione letteraria e alla musicalità del verso – la ragione della sua capacità di attraversare le generazioni attivando nuove letture e nuovi significati. Anthony L. Johnson (che ha scritto nel lontano 1976 Sign and Structure in the Poetry of T. S. Eliot, e curato nel 2005 per i Meridiani Mondadori L’opera poetica di Yeats), introducendo l’edizione a mia cura ricorda l’importanza che Eliot stesso più volte, per la formazione di una sua propria voce poetica, attribuisce alla lettura del volume di Arthur Symons The Symbolist Movement in Literature (1899), nel quale scoprì Rimbaud, Verlaine, Baudelaire. Questo mixing di simbolismo, strutture mitiche, metalinguaggio e realtà tenuti insieme da una squisita nevrosi, ha generato la lingua del poemetto, il quale ancora oggi non ha perduto il suo tratto sorprendente e sconvolgente. Un atto di evocazione, saturo di reminiscenze, prima ancora che di creazione, più memoria che immaginazione. Un esempio? Il celeberrimo inizio del poema, “Aprile è il mese più crudele”, che normalmente è dai commentatori avvicinato per contrasto al Prologo invernale di Geoffrey Chaucer, mentre si tratta verosimilmente di un calco dal Tonio Kröger di Thomas Mann: “La primavera è la più atroce delle stagioni […] fa diventare nervoso anche me, anch’io sono sconvolto dalla dolce trivialità dei ricordi e delle sensazioni che essa ridesta”.

DB: Quali elementi di novità ha introdotto la sua traduzione rispetto alle precedenti, e qual è secondo lei l’incipit meglio tradotto?

Ogni traduzione dovrebbe avere una dominante che la contraddistingue dalle altre. La dominante, secondo Roman Jakobson almeno, è la colonna portante della scelta stilistica, governa le altre componenti e garantisce l’integrità del testo d’arrivo. Per me, la chiave di traduzione è stata il ritmo (la melopoeia), pur mantenendo il testo nella sua complessità di sistema come, ad esempio i registri, e le scelte lessicali.

Virginia Woolf il 23 giugno 1922 appuntò: “Eliot è venuto a cena la scorsa domenica e ha letto il suo poema. L’ha intonato e cantato in rima.  È molto bello e ha grande forza nel dettato; simmetria, e tensione”. Così la prima stesura della mia traduzione l’ho composta tenendo in cuffia la voce recitante di Eliot. Purtroppo in Italia persiste l’equivoco del direct speech e di TWL come esempi di uno spostamento del testo poetico verso la prosa, equivoco alimentato da traduzioni che non tengono conto della ricerca musicale e ritmica dei componimenti eliotiani, oltreché della ricchezza sonora allitterante del lessico.

Più nello specifico, vorrei evidenziare tre elementi di novità.

Il primo: “Huge sea-wood fed with copper / Burned green and orange” (vv. 94-95) supera la comune traduzione letterale “bosco marino”, che rende il passaggio incomprensibile. Partendo dall’intuizione di Angiolo Bandinelli di considerare il ceppo marino, che arde nel camino della dama, come un relitto del naufragio di Phlebas, e indagando i metodi di costruzione delle navi antiche, ho interpretato “copper” come il rame dei chiodi rimasti infissi nel relitto di una nave e ho tradotto: “Un’enorme asse marina, infitta di rame / Bruciava – verdastra e arancione”.

Il secondo: “deep sea swell” (v. 313) corregge la comune traduzione di “swell” come gorgo, o similari. Il termine inglese, associato a “deep sea” (oceano) indica quella particolare onda, che si può osservare al largo, chiamata “onda lunga”, ovvero un movimento lento e regolare del mare in onde che non si frangono. Questa intuizione cambia completamente l’immagine poetica, restituendo un’apertura tutta orizzontale allo sguardo di Phlebas.

Il terzo: “What is the city over the mountains / Cracks and reforms and bursts in the violet air” (vv. 372-373). Sulla scorta di Johnson, ho corretto l’errore, riproposto in tutte le traduzioni italiane compresa l’ultima, di considerare i tre sostantivi “cracks”, “reforms” e “bursts” come verbi, con l’effetto di imputare a Eliot l’omissione di un “that” (fra “mountains” e “cracks”). Viceversa, leggendo i tre termini come sostantivi, è come leggere un inciso fra due dashes (dispositivo molto comune in TWL), ossia: “Qual è la città oltre le montagne / – Schianti e riforme e scoppi ­– nell’aria viola”.

L’incipit che preferisco tra le traduzioni italiane è di Cristina Campo, in La tigre assenza: “Aprile è il mese più crudele; cresce / lillà da terre morte, mischia / memoria e desiderio, turba / pigre radici con acque di primavera”.

DB: Che cos’è nella sua essenza The Waste Land?

Per me, TWL è l’attraversamento dell’esperienza del dolore – dovuto ad una perdita, aggravata dall’aver tradito un ideale (così è da intendersi l’accusa all’hypocrite lecteur di Baudelaire), perdita causata dall’ignavia morale e intellettuale dell’io poetico – per raggiungere una pacificazione interiore (la shantih induista). In questo lutto vengono risucchiati i miti, le allegorie, la storia, trasposti nell’immaginario poetico che trasforma Phlebas, lo scomparso, in un simbolo capace di rappresentare letteralmente ogni lettore, da Gesù a Giuseppe d’Arimatea, passando per il principe shakespeariano Ferdinando, a Verdenal, tutti racchiusi nell’epitaffio: “Gentile o Giudeo / o tu che tieni il timone e guardi dove soffia il vento / Pensa a Phlebas, che un tempo fu alto e bello come te”. Il mistero e la grandezza di TWL è che, per quanto il senso sia semplicemente questo, non riusciremo mai a raggiungerlo, a disseppellirlo, poiché l’opera è germinata e cresciuta attorno al cadavere del suo autore, in un numero infinito di significati, allegorie, miti e rimandi intratestuali che non sono, e non possono essere, separati dall’originaria pulsione poetica.

D’altronde, lo stesso Eliot affermò in una lettera del 13 ottobre 1927 a Claude Colleer Abbott: “l’unico significato legittimo di una poesia è il senso che ha per ciascun lettore, non un significato che ha principalmente per il solo autore. L’autore intende ogni sorta di cose, che non riguardano nessun altro se non lui stesso, poiché può fare riferimento alle sue esperienze private. Ma queste esperienze private sono solo materiale grezzo, e come tali di nessun interesse per il pubblico”.

DB: Qual è il frammento del poema che più la affascina, e quale è stato più arduo da tradurre?

Il capitolo Morte per acqua. È un’elegia, un canto, una formula magica, il segreto sussurrato. È un’immagine di grande intensità visiva, un’allegoria, l’eco di altri naufragi, Coleridge, Shakespeare, ma ogni lettore aggiunga il suo. È anche un crocevia, dieci versi dai quali transitano tutti i temi e sottotemi della struttura narrativa del poemetto, il cuore del sistema circolatorio di TWL.

Il frammento più difficile è stato Una partita a scacchi (vv. 77-110), caratterizzato da un tono stilistico di tipo elisabettiano, in un contesto palesemente parodistico. Nell’originale la presenza cadenzata di verbi al passato e aggettivi con suffisso -ed si rivela funzionale allo scandire il tempo di lunghe battute, tendenzialmente senza fine. La necessità di mantenere il ritmo, il registro linguistico baroccheggiante evidenziato dalla concatenazione delle subordinate, mi ha spinto a osare un esperimento di architettura linguistica del testo; e anche qui è stato fondamentale il confronto con Johnson, il quale mi rassicurò che “shock and surprise” era l’effetto giusto da causare nel lettore italiano.

Mi ha fatto poi piacere trovare una conferma nella tesi di laurea di Giulia Mancini These fragments I have shored against my ruins, dedicata a un confronto fra la traduzione di Mario Praz e la mia, dove a proposito del “martellante andamento paratattico” qui adottato richiama “il concetto di ritmo di Henry Meschonnic, che vede la compresenza di significati non solo nel senso lessicale della parola, bensì in tutto ciò che lega la parola al contesto in cui essa si trova; quelle marche che si trovano a tutti i livelli del linguaggio (accentuali, prosodici, lessicali, sintattici) costituiscono la ‘significanza’ che appartiene al discorso e alla sua enunciazione. È il ritmo che diventa significato”.

in copertina, Aimara Garlaschelli

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