“La crepa madre” di Carlo Tosetti, un’opera singolare che origina effetti di “realismo magico”.

La crepa madre (Edizioni Pietre Vive, 2020) di Carlo Tosetti appare come un’opera singolare nel panorama della poesia italiana contemporanea, non solo o non tanto per le chiare connotazioni mitico-archetipiche del tema e per la versificazione classicheggiante oggi piuttosto desueta, quanto piuttosto per l’architettura accurata delle varie sezioni che si presentano come altrettanti riquadri o inquadrature a formare un intreccio epico, suggestivo e non privo di suspense, che coniuga realtà e fantasia, dando luogo a effetti di “realismo magico”, di cui stento a trovare antecedenti nella poesia italiana recente. Certo, come dichiara l’autore in una intervista rilasciata a Michele Paoletti[i], i suoi principali antecedenti sono stati Montale, per quanto riguarda la densità fonico-ritmica e figurale, e Borges per l’audacia speculativa ai limiti dell’esoterismo. A cui mi pare opportuno però aggiungere il siciliano, oggi semidimenticato, Edoardo Cacciatore, sia per la complessità del linguaggio che per le implicazioni metafisiche dei suoi testi.

L’opera di Tosetti presenta tuttavia una componente narrativa marcata che giustifica anche la ricerca di modelli nel genere del racconto breve di cui quello in versi, a detta di Edgar Allan Poe, costituisce l’esempio più impegnativo e saliente. Se infatti rammentiamo alcuni capolavori di tal genere, proprio sul tema della casa “stregata” del nostro, troviamo delle indubbie analogie: a partire dal famoso Il crollo della casa Usher di Poe, dove casa e crepa appaiono consustanziali come nel testo di Tosetti, passando per La casa disabitata di Hoffmann, dove si trovano fra l’altro diverse conversazioni sul rapporto fra reale e fantastico, per finire allo Wakefield  di Hawthorne, dove il protagonista un bel dì abbandona la propria dimora per andare a vivere per vent’anni in incognito nella casa accanto e tornare infine dalla moglie come se niente fosse, fornendoci uno dei più memorabili esempi del perturbante (Unheimlich) e del sublime domestico della storia letteraria.

Per l’opera di Tosetti si è fatto anche il nome di Tommaso Landolfi, i paradossali punti di vista, il perverso sviluppo degli intrecci, l’esibita ricercatezza del linguaggio dei suoi Racconti impossibili.  Ma a me pare più congeniale il raffronto  con quei narratori siciliani che fra Otto e Novecento anno inferto una torsione, da una parte mitica e dall’altra gotico-barocca, al romanzo storico-cronachistico inaugurato dal Manzoni. A partire dal “verismo” di Verga ne I vespri siciliani per esempio, passando al prospettivismo di Pirandello ne I vecchi e i giovani  e alla pacata satira sociale di Lampedusa ne Il gattopardo, per arrivare all’ipnotico barocco metafisico di Gesualdo Bufalino ne La diceria dell’untore e ne Le menzogne della notte, o a quello più stralunato e favoloso di Vincenzo Consolo ne Il sorriso dell’ignoto marinaio che prende spunto da una sommossa contadina che si scatena in un piccolo paese (Alcara li Fusi) all’arrivo delle truppe di Garibaldi, per arrivare a interrogarsi sugli eventi cruciali della storia italiana, sulla posizione dell’intellettuale dinanzi ad essi e addirittura sulle possibilità della scrittura letteraria. Il “sorriso dell’ignoto marinaio” di Antonello da Messina a me pare infatti aleggiare sul volto e permeare di pacata ironia le pagine di Carlo Tosetti. C’è poi una favola drammatica di Consolo in particolare, Lunaria (dedicata all’appartato, talentuoso ed esoterico poeta Lucio Piccolo, cugino di Lampedusa), la cui vicenda mostra delle notevoli analogie con quella della “crepa madre” che si espande e ramifica, in modo da far presagire una catastrofe, dalla casa dei vicini della nonna del protagonista bambino al territorio circostante, per arrestarsi però sul confine del lago e far ritorno infine nel corso del tempo, riparando miracolosamente i danni causati, al suo luogo d’origine. Nell’opera di Consolo si tratta invece della caduta, annunciata in sogno allo stralunato viceré di Palermo, e poi confermata da un messo, della luna caduta in frammenti in una anonima contrada di campagna nei dintorni, presagio di sciagure, che però si risolve a lieto fine, con la ricomposizione dei cocci e la nascita della luna nuova, con balli e canti dei rustici e la benedizione del sovrano. E altresì simile è la funzione del punto di vista naif del pastore che è l’unico in grado di seguire le parallele vicende di catastrofe ed epistrofe nei due testi.

I riferimenti che abbiamo fatto sono intesi a contestualizzare in ambito letterario la prova di Tosetti, fornendo delle plausibili chiavi di lettura e dando rilievo agli spunti originali tematico-stilistici di una coinvolgente ricerca poetico esistenziale, in cui l’analogia di fondo fra la ferita al ginocchio del bambino protagonista e la crepa improvvisamente apertasi nel muro della casa dei vicini, assume la valenza di una faglia, di un vuoto ontologico che regge l’intera struttura del reale, fra interno ed esterno, micro e macrocosmo, psiche e mondo, testo e territorio.        

L’analogia fra testo e territorio mi pare infatti l’isotopia fondante dell’opera, sicché il viaggio di andata e ritorno della crepa dalla casa al paese, alla campagna e al lago, che costituisce in sintesi la vicenda narrata, rappresenta la chiusura del circolo ermeneutico esistenziale dell’io poetico, che culmina, in ossequio ai dettami del dramma classico, nel reciproco riconoscimento fra il protagonista fattosi adulto e la crepa personificata che ne ha segnato il carattere e il destino. Chiusura, ma si direbbe meglio quadratura del circolo, poiché sono il quadrato e il numero quattro a costituire il modulo costruttivo dell’opera, in cui la numerologia gioca un ruolo chiave. Si tratta però di una numerologia laica, spogliata di connotazioni religiose, che si presta all’intenzione ironica e a volte bonariamente satirica del suo autore nei confronti dell’ipocrisia delle istituzioni religiose e civili.                 

E qui veniamo alla struttura vera e propria dell’opera. A partire dalla surreale azzeccatissima grafica di copertina, al formato quadrangolare del libro, alla insolita disposizione delle strofe (quattro per pagina). All’alternarsi, nelle otto sezioni più un epilogo, di sinossi iniziali in prosa (con funzioni quasi di sceneggiature), cui segue l’articolato ed elaboratissimo svolgimento in versi della trama annunciata. Il rapporto fra condensazione iniziale in prosa e successiva espansione in versi risulta anch’esso caratteristico, riservando lo svolgimento dell’intreccio e la tensione narrativa alle prime, e l‘elaborazione ritmica, morfosintattica e figurale elle seconde. Distinguendo insomma nettamente il logos dalla lexis, i macro e i micro rapporti del testo-territorio che si sta esplorando. Costituendo in ciascuna sezione una sorta di ripetizione differente che vale a scavare nei meandri del senso, duplicando a livello formale il tema dell’espansione labirintica della crepa nel territorio circostante. Questo labirinto al tempo stesso borgesiano (mitico-illuministico) e consoliano (favolistico-neobarocco) ci offre una buona immagine del temperamento dell’autore e delle due facce complementari della sua opera, che del barocco gotico siciliano (quello dei mostri di villa Palagonia, per intenderci) riprende i tratti salienti ma con una marcata inflessione ironica che in quelli è più difficile rinvenire.

La divisione delle parti in versi in 8 sezioni, ciascuna di 12 strofe, eccetto la sesta (La distruzione) che ne conta 16 (quasi a rimarcare l’anomalia, l‘eccedenza, il terremoto prodotto dalla furia distruttrice della crepa) e l’epilogo che ne conta 12. Ciascuna strofa è poi composta di ottonari alternati a qualche raro settenario. Si comprende allora come il modulo costruttivo del testo sia il numero 4, che ha un posto speciale nella numerologia, a partire dalle sue origini pitagoriche. Quattro è infatti il numero delle stagioni, dei punti cardinali, dei vangeli e nell’ebraismo simboleggia il tetragramma, le quattro lettere che compongono l’impronunciabile nome di Dio. Il quattro rappresenta inoltre la più semplice figura solida, il tetraedro, le cui facce sono quattro triangoli equilateri, che pertanto viene associato alla materia e alla terra. Nella dottrina pitagorica, per cui tutto è numero, esso inoltre rappresenta la tetraktys, cioè la somma dei primi quattro numeri interi che, disposti su quattro livelli, dal vertice alla base, corrispondono ai quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dando per somma dieci, il numero perfetto che, rimandando  all’uno e contenendo in sé quattro numeri pari e quattro dispari, quattro numeri primi e quattro composti, costituisce teosoficamente il numero perfetto. Ne L’Origine dell’opera d’arte Heidegger definisce da par suo la Quadratura (Gewiert), cioè l’incontro-scontro di mondo e terra, dei divini e dei mortali, come l’architrave di quella casa dell’essere che è il linguaggio poetico. Ce n’è abbastanza par farci apprezzare  la sua carica simbolica e la scelta di Tosetti di assumerlo come modulo strutturale della sua composizione, che oscilla incessantemente fra naturalismo e simbolismo.

Essa mette in scena, come dicevamo, una ricerca poetico esistenziale del protagonista sempre a caccia di analogie onto-biologiche, fra micro e macrocosmo, fra psiche e mondo: “nel cranio le tele annodate,/seguono crepe intricate” (71), e “infilzano carni le vene,/l’arterie, i tubi i polmoni.” Così come in cielo i fulmini appaiono come “crepe,/ lanciate in aria da nubi – /e ancora trovano le stesse/ complesse e nervose radici” (72). Così come viene succintamente dichiarato nella sinossi iniziale del capitolo VIII, “La cerca”, appunto: “L’intuizione della parentela fra il taglio del mio ginocchio e lo squarcio nel muro, in quarant’anni aveva fruttificato nella ferma convinzione del legame fra lo schema – la forma – di realtà naturali simili: crepe nei muri, fulmini, ragnatele, rami e radici, corna di cervi, bronchi e diramazioni, apparato nervoso e circolatorio. Tutto aveva il medesimo disegno  e tutto era – forse – manifestazione del medesimo intento, necessario alla vita. La Crepa aveva chiuso il cerchio.” (69-70) Una ricerca che si conclude come ho accennato nell’agnizione finale, dove è la Crepa a trovare il protagonista ormai adulto per intraprendere insieme a lui il ritorno a casa, esito ultimo di quella genealogia dell’esserci in quanto finitudine e traccia che è stata l’intera vicenda: “Capivo che la verità andava ben oltre i miei sospetti e che la Crepa è la manifestazione di una forza, una volontà necessaria, il motore di ogni taglio, segno, struttura. Dai primordi dell’uomo, dalle incisioni rupestri alla scrittura cuneiforme, alla moderna stampa. Il segno, il taglio, sono anche limite, confine, forma. Nulla è distinto, nulla è, senza un confine. Tutto è in comunione, animato dalla medesima essenza: un segno che irrompe, genera lo spazio e lo modifica.” (77-78) Ancora col linguaggio di Heidegger, possiamo dire che il trauma, la lacerazione dell’esser gettati nel mondo e la cura per la finitudine dell’esserci stanno fra loro come lo stacco (Riss) e la forma (Umriss) del testo poetico, a suggello di quella equivalenza ontologica (per cui il linguaggio è la casa dell’essere) fra testo e territorio che regge la struttura di questo poemetto.

Ciò che è espresso chiaramente nella sinossi in prosa dell’Epilogo, trova poi un suggello nella trama fine dei versi che seguono, dove nella prima strofa le rare rime baciate sembrano proprio suggerire la sospirata comunione del ricercante e del ricercato, e dove nella terza strofa la richiesta esaudita, del protagonista alla Crepa, di una “tessera  a prova” del loro reciproco riconoscimento (79) suggella l’impianto simbolico del poemetto e la consustanzialità fra Crepa e Casa, Ferita e Destino del protagonista. Possiamo dunque ora tornare alla sua dichiarazione iniziale: “notai l’analogia fra la ferita nel mio ginocchio e quella nel muro” (12) e rileggere l’intera vicenda come una drammatica ricognizione di questa apertura inaugurale, apprezzando la felice complementarità di realismo e simbolismo nell’opera di Tosetti.

[i] Laboratori di poesia.

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