Di mistico tutto, di cosmica unità, la poesia di Massimo Morasso “è destino”.

«C’è in questa materia/ che geme e stride/ un vuoto un’attesa/ un dipendere da Dio/ c’è in questo viaggio/ una certa dose di spirito/ che unifica stringe/ tutto con tutto/ anche l’idea della fine». Versi simbolici scelti per introdurre la lettura di “Frammenti di cose nobili” di Massimo Morasso, (Passigli Poesia, collana fondata da Mario Luzi), raccolta preceduta, lo ricordiamo, da un’altra recente pubblicazione, “La leggenda della primavera”, nella collana, “Ginestra dell’Etna”, diretta da Maurizio Cucchi e Antonio Di Mauro (Algra Editore). La poesia di Morasso, invocativa, nostalgica, diramante, «puro, interminabile fluire», abita le «alture», una dimensione «celeste», di mistico tutto, di cosmica unità, di profondo chiarore che riecheggia, «l’uno/ nell’immagine dell’altro». Ascetica, ora vive «nello splendore dell’istante», ora supera il tempo, come «luce serena/ nel soffio dell’eterno». S’interroga «in Dio», poesia come parola creatrice, come origine, essenza, rivelazione: «Tu sai che la bellezza del cammino è nel cammino,/ e senti il mormorio del sangue nelle tempie/ fra le spine». 

Con un tuo verso, “Tento di dare voce alla scintilla/ dell’eterno che mi abita nel tempo”, chiedo: la poesia può “risolvere” la pensosa solitudine del poeta?

Poesia è destino. Braccati dalla memoria, i poeti autentici non vivono che per rendere durevole l’illusione di poter mutare il dolore in conoscenza. Questo li apparenta ai mistici. In effetti, c’è un’aura plotiniana, pressoché misconosciuta, che aleggia intorno ai poeti degni di questo nome. La poesia, fra tante altre cose, può essere anche la risposta all’appello di un pensiero sensibile che, in mezzo all’evidenza del nonsenso, non ce la fa a stagnare nella zona di conforto della parola della e per la comunicazione, o della filosofia, o della teologia “di mestiere”, ma travaglia per dare testimonianza verosimile del bene che c’è, o potrebbe esserci, in una solitaria fuga oltremondana della mente.

Dove sei stato condotto dalla poesia? Forse a raccogliere “Frammenti di nobili cose”?

Nel mio abisso personale. Che non è nientedimeno, nonostante sia un abisso, di uno spazio soprannaturale, dove l’evolversi dell’attenzione non coincide con un terrifico, sterile spaesamento, ma, come credo, con dei sempre nuovi stadi di civilizzazione interiore. Sono stato portato a vedermi; e a vedermi anche in degli aspetti a me prima sconosciuti, grazie all’incontro con i quali spero di stare sviluppando, passo dopo passo, un certo talento della trascendenza. Non sono un uomo nobile nell’accezione di Eckhart, ma un uomo che si è reso ben conto della nobiltà che ci pertiene.

In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?

Nati, siamo gettati nel linguaggio. Prima ancora di avere coscienza, il mondo, per noi esseri umani, non è che un immane, strabiliante universo di segni da decifrare. I quali, poi, col tempo, diventano anche scrittura, ordinandosi in una lingua (la “langue” nel senso di De Saussure), che in ciascun uomo creativo è la parte in chiaro, per così dire, sulla base della quale va costituendosi, al contempo, l’ombra anarcoide della “parole”: il suo singolo, personalissimo idioletto. Anche perciò, e anche al di fuori del recinto della parola poetica, io potrei perfino arrivare a definire la mia vita come il tentativo di dare figura scritta a un cosmo di parole che mi rappresentino. È piuttosto difficile da spiegare. Il linguaggio è quanto abbiamo di più nostro e di più prezioso, e tuttavia ci è oscuro, nell’origine e nel fine. Io lo penso innanzitutto come lo strumento di una potenza magica, chiamata a dar forma a un modello ideale dell’esistenza umana nello specchio del pensiero divino.

Ancora tuoi versi, “Ma se restassero – se/ restassimo – in Dio…”, per chiederti: cosa può (o credi possa) la poesia per colmare il tracollo umano?

Può tentare di dire la verità sull’umano. Il che significa molte cose, va da sé, e, fra queste, anche provare a pronunciare le parole giuste per dimostrare il fatto che l’uomo è una bestia a vocazione spirituale – il corpo vivo, parlante (e scrivente), del simbolo antropocosmico che ci lega in modo indissolubile al divino, e viceversa. Detto altrimenti, la poesia, se è vera poesia, può tendere in noi dei fili di consapevolezza allungandoli verso non so quali voragini interiori e verso quali luci, anche distanti, e quasi inimmaginabili. La poesia è un modo umano di sporgersi fuori dal mondo, in uno spazio mentale che si apre anche al di là di quello in cui avvertiamo, dentro di noi, la percezione emozionata del tracollo.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Cosa riesce a dire un poeta? Io posso aver ambizione e provare a dire tutto, ma di certo non posso andare oltre ai limiti che la lingua impone al mio pensiero. È intorno a tali limiti, tuttavia, che un poeta autentico sarebbe bene che si muovesse, concentrando le proprie migliori facoltà per tentare di restituire in immagini e in parole, per ineffabile trasposizione, i resti di ciò che ha visto (se l’ha visto) con l’occhio del suo cuore, in attimi di conoscibilità quintessenziale. In verità, io non so se la poesia sia la lingua dell’invalicabile. Ma so che il poeta è l’uomo che forse più degli altri, e di sicuro più dei più, ha la possibilità di bussare con un qualche profitto alle porte dell’invalicabile.

“Abbarbicato dentro le (tue) fibre”, la poesia è, certamente, il tuo modo di “stare” nel mondo. Qual è stato il primo (memorabile) passo?

Per quanto posso dirne, io credo di aver sempre avuto uno sguardo poetico: non ho mai perso di vista il mio “doppio”, il bambino che mi abita. La poesia viaggia con me secondo natura, nella mia stessa natura. Già alle scuole elementari scrivevo poesie. La prima delle quali, se non ricordo male, mi venne per rispondere allo shock del terribile incidente occorso all’autodromo di Monza, dove avevano perso la vita due motociclisti famosi, Renzo Pasolini e Jarno Saarinen. Io allora, nella primavera del 1973, non avevo neanche nove anni. Ora, più di mezzo secolo dopo, dico a me stesso che sono il mediatore fra me e l’anima fanciulla che ancora mi contiene, e che alle volte, “quando Amor mi spira”, mi accompagna nella sfera di un’attenzione più acuta e più intelligente della mia quotidiana – quella, cioè, che viene agita dal mio “vecchio” io stabilizzato –, per farmi rivolgere con tutto me stesso verso il mistero di ciò che esiste, o può esistere.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso che hai ricevuto dalla poesia? 

Il fatto di avermi risucchiato in un sistema di relazioni diverso da quello che scuote la nostra vita di tutti i giorni, dove dominano in lungo e in largo passioni tristi e volgari, e di avermi fatto avvertire a più livelli quant’è nel vero, umanamente, chi guarda alla realtà come a una sorta di sogno dell’altro mondo. La poesia, quando ha fatto irruzione in me, è sempre stata una festa, e ha avuto lo strano potere di farmi vedere e farmi sentire quel che c’è di più nascosto nel visibile. Nonostante i suoi siano intenti nient’altro che umani, mi ha spinto a riprodurre con articolato, meditato artificio le forme più intime della fiducia che ho nella possibile sensatezza della nostra tragica vicissitudine, l’umana e l’oltreumana.

“Lo spirito, dice il saggio, è la punta dell’anima./ La cuspide del cuore. Qualcosa/ che riecheggia, dentro,/ e che non smette di fare luce.”, in un momento buio, segnato da una diffusa incapacità di ascolto (verso noi stessi, come verso gli altri), cosa può la poesia?

La poesia può continuare a fare il suo lavoro, nonostante tutto e tutti, anche in un mondo di sordi. Intanto, oggi, svolge più e meglio di ieri la più importante fra le sue funzioni socio-culturali, che è quella, assolutamente libertaria, di difendere la lingua dalle insidie abbruttenti del cosiddetto pensiero unico. E poi, a un livello umano più profondo, nel suo rimbalzo psichico, la poesia può consolare, perché, quand’è poesia, riesce ad attestare la bellezza e la dignità del vivente, quand’anche le metta in discussione. Ha misteriosamente a che fare con la salute dell’anima, e può arrivare a convincerci dell’idea che tramite una combinazione di parole ordinate in una forma sia possibile trasformare il nostro cuore affaticato, per vie di circolazione interna del Bene. Io credo, addirittura, che anche in questa nostra cupa svolta del mondo la grandissima poesia possa avere ancora forza di legge, perché la poesia con la p maiuscola è profetica. Ma, come ogni cosa bella, anche la grandissima poesia è una cosa rara.

Ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Frammenti di nobili cose” – e, nel contempo, a raccontarci la sua genesi, e così permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Scelgo ciò che nel libro si trova a p. 32:

Ho trovato il mio centro.

Da qui il mondo lo patisco ma
non combatto più,
perché ogni fuori,
sui miei camminamenti,
è dentro: sono
io.

Si tratta di un testo piuttosto rappresentativo del mio modo odierno di fare poesia. Io non sopporto più di scrivere – e sopporto a stento di leggere – versi che non siano l’eco di una visione sottile. La mia di ora è una poesia degli occhi chiusi, dove l’estrema rarefazione degli elementi retorici risponde all’esigenza di rendere sempre più essenziale il prodotto della mia facoltà d’ideazione e rappresentazione. Cos’è accaduto, qui, “prima” del gesto poetico? Cos’è stato a provocarlo? Credo, d’acchito: una lunga consuetudine alla meditazione, che mi ha portato a quella che forse direi una fase “critica” del mio pensiero poetante su di me, e sul mondo che mi ospita, e il debordo della pressione emotiva che, a un certo punto, s’è resa insostenibile, spingendomi a tentare di acquietarla per via poetica. Una via che, a mio avviso, in generale, è bene sia fatta di poche parole intrise di significato, ben disposte sulla pagina e articolate in un ritmo cadenzato e indefettibile. Ho quindi sottoposto la materia, ancora piuttosto informe, della mia esperienza autoriflessiva al più energico dei trattamenti di scarnificazione verbale. E l’ho fatto non già per raccontare al mio ipotetico lettore qualche episodio della mia battaglia interiore (della quale, fra i versi, resta soltanto l’ammicco ai combattimenti trascorsi, oltre all’evocazione dei “camminamenti”), ma per appuntarne in “frammenti” gli esiti condivisibili, in un fervido passo a due di sguardo e coscienza che spero sia in grado di manifestare e stimolare energia intellettuale e vis immaginativa. In pochi tratti, ho provato così a disegnare una sorta di fisiografia della mia anima sospesa fra pathos e distacco. E ho accennato, perciò, ad alcune tappe di quel percorso di scavo – di quella guerra santa fra gli opposti – che mi aveva indotto, per ispirazione, a compenetrare il “fuori” del mondo e il “dentro” del mio io profondo, a partire dal mio “centro”. Ovvero, da ciò che altrove (nel libro, a p. 45) chiamo la “cuspide del cuore”.  

 

Passando, per concludere, al volume “Leggenda della primavera”, edito da Algra, vogliamo parlare del messaggio “cardine” per i lettori?

Qui la poetica in atto è quella di un poeta-camaleonte mediatore di voci. L’io, per l’io scrivente che in questo libro prende parola, non è che una posizione dell’io: qualcosa d’impalpabile e sfuggente, e grandemente misterioso. Il messaggio “cardine” per i lettori della Leggenda della primavera è proprio questo: occorre vigilare e lavorare sull’idea, che in generale, invece, tendiamo a dare per scontata, che esista un “io”, e che a quell’io corrisponda senza scarti un’identità, e una coscienza univoca, stabilizzata. Questo libro raccoglie la prima trilogia del ciclo in nove parti de Il portavoce, nel quale e attraverso il quale, per oltre dieci anni, mi sono interrogato poeticamente sulla natura e i limiti dell’io (oltre che della Leggenda, il ciclo consta anche di Viatico, del 2010, e di La caccia spirituale, del 2012). Il portavoce è il “contenitore” degli esiti della mia interrogazione, e rappresenta un unicum nel panorama della poesia italiana di oggi, se non altro per l’ampiezza della sua articolazione poematica, e per l’intensità dell’ossessione identitaria che manifesta.

Quali i temi “urgenti” che emergono da questa sua proposta, in questo ‘scavo’ che è lo scrivere e cosa accomuna, in termini di senso, passato e presente, immaginazione e realtà? 

Il protagonista di questo libro è il sentire memore. In La leggenda della primavera è in atto la ricerca del senso della preservazione del ricordo. Qui la memoria è, per così dire, la soglia delle voci e delle storie in cui riaffiora, per frammenti carichi di tempo, qualcosa del mio passato che mi è parso essere essenzialmente umano – qualcosa di non soltanto aneddotico, cioè. Al centro del rovello, l’azzardo metafisico in cui consiste, a mio avviso, il primo passo della poesia autentica: che si muove sullo sdrucciolevole tessuto del linguaggio per tentare di eternare in una forma immaginativa attimi d’esperienza che non vogliamo lasciar morire.

 

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 28.01.2024, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

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