«Appartiene, credo, ai tratti essenziali del poetare di sapersi esposto al fraintendimento. (…) La poesia s’intende col suo stesso autore solo per la durata del suo farsi – e congeda subito anche lui». Di Paul Celan, tra i massimi autori del Novecento, una riflessione assoluta scelta dal recentissimo “Microliti”, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della (sua) esistenza, come li ha definiti, che, “nonostante l’irrevocabilità della condanna al silenzio”, ha continuato a raccogliere “ostinatamente” fino al 1970, anno della scomparsa.
«Pubblicarli postumi – dichiara Dario Borso, curatore del libro (includente aforismi, abbozzi narrativi e frammenti di poetica, edito nella collana “Lo Specchio” Mondadori – I edizione marzo 2020), che questi microliti ha scelto, ordinato e tradotto sulla base dell’edizione critica tedesca di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou – significa ricomporre, per quanto irregolare e accidentato, il mosaico di un’intera vita». Leggere Celan equivale a toccare l’invisibile radicato nel visibile, a indossarlo come un fiato di luce, “leggerissimo”.
Dei Microliti, “pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della (sua) esistenza”, ne sceglieresti uno per i nostri lettori, raccontandoci i retroscena della tua riscrittura?
Ti racconto piuttosto un’avanscena, verificatasi ieri in rete. Una poetessa piuttosto nota per il piglio sbrigativo ha riportato questo microlito: Wer über ‘Worte’ verfügt, dem versagt sich die Sprache. Wer sich der Sprache fügt, den… finden auch die Worte”, e mi ha accusato di averne reso incomprensibile il senso avendolo io tradotto: “Chi dispone di ‘parole’, la lingua gli si nega. Chi si dispone alla lingua, anche le parole… lo trovano”. E pensare che io ne ero fiero, avendo trovato il modo giusto per rendere il calembour celaniano verfügt … fügt addirittura senza variare il “dispone”… Del resto il presidente attuale dell’Istituto Italiano di Studi Germanici me ne ha dette di peggio, come si vede in www.germanistica.net/2020/07/17/tradurre-paul-celan/. Proprio vero quel che dicono i vecchi del mio paese: “el mondo xe beo parché l’è avarià”.
“Le poesie non cambiano certo il mondo, ma cambiano l’essere-nel-mondo”. Riporteresti, di Celan, se c’è, una poesia che ha cambiato (più di altre) il tuo essere nel mondo e una che avrebbe potuto cambiarlo (riporta anche questa), senza, poi, riuscirci?
Una che vale per due, pure nel senso che risponde a entrambe le domande: NON SCRIVERTI / tra i mondi, // imponiti alla / varietà dei significati, // confida nella scia di lacrime / e impara a vivere.
“Chi dispone di ‘parole’, la lingua gli si nega. Chi si dispone alla lingua, anche le parole… lo trovano”. Quali parole ti trovano se ti chiedo di tratteggiare Celan secondo l’idea che, in tanti anni di ascolto, ti hanno “restituito” le sue parole?
Allora significa che questo microlito almeno tu l’hai capito! Bene, ti rispondo con un altro microlito: SOLITARIUS, SOLIDARIUS.
“Perché anche le parole non devono avere il loro cimitero?”. E se lo avessero, quali (e per quali ragioni) vorresti dipartissero da tutte le lingue possibili e dalla lingua (ma è forse più corretto dire dal “sentimento”) di Celan?
Perché così possiamo degnamente ricordarle. Una parola sola per tutte: FIDUCIA (titolo di una sua poesia che ha a suo centro l’esortativo: Venite, forate il vostro cunicolo!).
Cosa può la poesia contro la “nebulosità del mondo esterno”? Cosa può contro la “tenebra” che ognuno di noi “ha tessuto” per (su) se stesso?
Dalla reazione alla luce / indovini l’anima. // (Fossi io come te. Fossi tu come me.). È il centro di un’altra poesia, centrale questa nel corpus intero, che si chiama GRATA DI PAROLE. La grata intesa da Celan non è quella di una prigione, bensì quella vista il giorno prima in cartolina, di un parlatorio di suore. Quanto alla reazione alla luce, spero solo non valga lo stesso che per il coraggio, di cui un celebre curato disse: “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.
Spazio in libertà. Aggiungi tutto quello che desideri di pertinenza (scusa l’ovvietà) con questo vostro “Microliti”.
I “Microliti” erano usciti dieci anni fa per i tipi della Zandonai di Rovereto, fallita poco dopo senza che nemmeno mi venisse proposto, come di norma, l’acquisto delle rese a prezzo scontato: risultato, me ne resta una copia e soprattutto non ho potuto darne alcuna a chi ritenevo interessato o a chi ero interessato. Questa della Mondadori, leggermente maggiorata, più che una seconda edizione è dunque una ristampa; e io un paio d’anni fa mi ero ripromesso di onorare la memoria di Celan nel centenario della nascita (23 novembre prossimo) con qualcosa di mio per davvero, con un frutto se non succoso, almeno pregno del mio studio ac amore. Così, viaggiando per l’Europa, ho raccolto tutto il raccoglibile riguardo alla fortuna di Celan in Italia, dalla prima traduzione comparsa (1956) al prima raccolta sua tradotta (1976). Il frutto (Prospero Editore) sarà in bottega a ottobre, e già che c’ero ho tradotto le poesie che, all’apice del suo percorso poetico, Celan aveva indicato per un’antologia italiana poi abortita (uscirà anch’essa a ottobre, per Nottetempo). Bene, il giorno prima d’inviare il suo elenco, il 4 giugno 1964, Celan compose una breve poesia che ho tradotto oggi e penso proprio d’inserire nell’introduzione all’antologia: La clessidra, ben / sepolta all’ombra delle peonie: // se il pensiero discende il / clivo boscoso di Pentecoste, infine, / gli spetta il regno / dove insabbiandoti speri. Celan scrive Päonien, ma in Germania la peonia è comunemente detta “rosa di Pentecoste”, perché fiorisce sotto quella festività ovvero a maggio, mese mariano per cui lì un secondo nome è “fiore di Maria”. La Madonna poi era tra i presenti quando “apparvero loro delle lingue spartite, come di fuoco; e ciascuna d’esse si posò sopra ciascun di loro. E tutti furono ripieni dello Spirito Santo, e cominciarono a parlar lingue straniere” (Atti degli apostoli, 2, 3-4). Nella poesia di Celan si profila dunque un “regno” post-babelico in cui tutti si capiscono per una sorta di traduzione simultanea. Con un “se” però, ché c’è prima da percorrere un “clivo boscoso”. Clivus Virbi era detto il sentiero che scendeva dal colle di Ariccia, località dove Diana aveva tradotto da Creta Ippolito resuscitato con l’erba peonia dal medico Peone (Virgilio, Eneide, VII, 769; Ovidio, Metamorfosi, XV, 534-5) ribattezzandolo Virbio, il vir bis vissuto due volte appunto… E tutto questo in Celan sotto sospensione del tempo, a clessidra sepolta… A chi tre anni prima gli aveva chiesto di spiegare una sua poesia, Celan rispose: “Legga, continui solo a leggere, la comprensione giungerà da sé”. Io mi sentirei solo di aggiungere: e usi intelligentemente internet.
(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 23.08.2020, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).