locandina

Lella/narratrice e le varie e svariate Lella/personaggio incontrate in Donne di cose sono le co-protagoniste di questo romanzo a racconti. Né rosa, né rosso, il filo conduttore. Semplicemente le cose chiamate con il loro nome, come richiesto dalla vita. Rosolate a fuoco dolce o crude che siano. La causa occasionale è la commissione di un libro, mai dato alle stampe, che diventa espediente per intrecciare la vicenda personale di Lella, compresa tra un passato recente e uno neanche troppo remoto, con quelle di tante sue alter-ego alle prese con il lato scomodo della medaglia del sesso: il fardello della verginità, la tentazione dell’incesto, la simulazione dell’orgasmo, l’inadeguatezza del proprio genere/identità sessuale, la violenza della donna sull’uomo, il viaggio senza ritorno nell’erotismo di coppia. Tematiche, ora di consolidata tradizione, ora d’attualità, affrontate sulla soglia del grottesco. Perché la riflessione e l’introspezione siano sempre ventilate da sane folate di ironia e, soprattutto, autoironia.

Copertina e illustrazioni di Patrizio M. Martinelli

Per affrontare “figurativamente” l’illustrazione di Donne di cose ho attinto al grande archivio dell’immaginario del cinema, assecondando la struttura e il contenuto, fortemente visivo e immaginifico, dei racconti. Così ho costruito nuove figure trasfigurando le maschere del Don Giovanni di Losey, le regine medievali di Brancaleone, il “dolce trans-vestito” del Rocky Horror, il salto nell’abisso di Vertigo, il confronto fra donne (madre e figlia) del bergmaniano Persona. Il tutto nella sintesi fra astrazione e figurazione (grazie alla tecnica mista del collage digitale) attraverso quadri ieratici che evocano, più che descrivere didascalicamente, gli episodi, in un gioco combinatorio che rimanda alle carte: le regine, il jack, il joker diventano trasfigurazioni dei protagonisti, sempre senza volto, spesso mascherati, come in una erotica-ironica parata carnale-carnevalesca.

Gabriella Montanari, «Donne di cose», Supernova Edizioni, Venezia, maggio 2016. Prefazione di Carla Menaldo
(Terzo posto, II Premio letterario nazionale A. Torresano, Narrativa)

 

«Con me uno strizzacervelli avrebbe trovato pane per i suoi denti. Tra un complesso di Elettra mal superato, l’attrazione per l’incesto, il sadomasochismo latente e l’istinto autodistruttivo ero un tale casino ambulante. Una mina vagante, per me stessa e per gli sventurati malcapitati dotati di attributi maschili. Non escludo che mirassi ad accumulare vittime e accatastare i corpi esangui degli amanti più ributtanti davanti alla porta di casa o sotto il letto dei miei. Come fanno i gatti, con topi, lucertole e merli in fin di vita, quando li adagiano con fierezza ai piedi del padrone. In cambio di una carezza, di uno straccio di reazione.»

*

Quella notte, Zeno aveva avuto un sonno molto agitato. Prim’ancora che facesse giorno, si era svegliato di soprassalto, con la sensazione di un peso che gli comprimeva il torace. Aveva provato uno strano timore nell’aprire gli occhi. E se si fosse trattato di un incubo materializzatosi come in una tela di Füssli? Un orribile goblin peloso con orecchie a punta e ghigno satanico comodamente seduto sui suoi pettorali. Nell’appoggiare le mani sullo stomaco, si era ritrovato tra le dita qualcosa di morbido, setoso. Non poteva essere il pelo ispido di un mostriciattolo partorito dalle tenebre della mente. Erano capelli. E il peso sul suo corpo era quello di Lella. Se ne stava stesa sopra di lui come una pelle d’orso. Zeno aveva buttato una mano in cerca dell’interruttore dell’abat-jour. Voleva capire cosa cazzo ci facesse sopra di lui, zitta e immobile. La fioca luce della lampadina a basso consumo energetico aveva rivelato il luccichio metallico della lama di un coltello. Quello da disosso, regalo di matrimonio della zia Cosetta. Lella lo teneva stretto tra le mani e lo puntava contro la giugulare pulsante del marito. Aveva gli occhi da pazza e, forse, intenzioni non proprio da persona sana. Zeno, non faceva che deglutire, incapace di formulare un pensiero o emettere un suono. Così era stata Lella a rompere il silenzio.

– Hello, bell’addormentato nel bosco…
– Lella, ma sei scema? Metti giù quella mannaia.
– E perché mai? Guarda qui, sotto il collo, come ti sei rasato male ieri, ma adesso ci penso io. Stenditi. Rilassati.
– Tesoro, abbassa quell’affare, ho il Gillet nuovo di zecca in bagno. Se è la barba che ti dà fastidio, vado subito a farmela.
– E invece non vai da nessuna parte. Hai paura che ti sfiguri, eh? Così dopo tutte quelle puttanelle che ti girano intorno in azienda non te la danno più, vero?
– Oddio Lella, non ricominciare con queste stronzate. Sei ossessionata. Come devo dirtelo che non c’è nessun’altra donna?
– Allora perché non mi scopi?
– Ma se ieri l’abbiamo fatto tre volte?
– Ecco, appunto. Lo vedi anche tu. Non mi desideri più come prima.

[…]

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