Marc Chagall, Due piccioni

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rubrica, inediti d’autore

Lei:

«Accartocciata e spenta io non somiglio a niente
non sono niente, sono come la polvere del cielo
che ti scrolli dalle braccia quando solo te ne vai
a passi svelti, su quella strada che si dissolve,
senza di te lasciare traccia, né dell’amore
che non è stato, e che non sarà mai.»

 

Lui:

«Sento la tua anima che s’apre nel dolore
e poi di colpo si contrae, come una mano
che si chiude, stanca di chiedere
o come una foglia perduta dal cielo.
Sento il tuo dolore come un richiamo
cui nulla risponde. Voltarmi sarebbe
inutile, amore, lo sai. Sono sempre io. Sono
colui che ami, e che non saprà amare mai.»

 

Lei:

«Resto sepolta in croce nel mio sudario
certa che il mio dolore non finirà,
i polsi contro il cuore, le mani strette
a pugno, sopra un letto di pietra
più clemente del tuo cuore,
meno duro del tuo gelo.
Vai pure dove s’ignora la mia esistenza,
vai per terra, vai per mare,
segui pure i segni alati che attraversano
il tuo cielo e che ti portano lontano. Ma
prima di partire, non coprimi il volto
un’ultima volta con l’umide tue labbra.
Fallo con l’arida pietà d’un velo.»

 

Lui:

«Se vado, muori. Se resto muoio.
Non mi rimane che sostare nell’interregno,
un attimo prima che la morte ci separi.
Per te pago volentieri il pegno.
Ma chiedermi non puoi
di uccidere il mio sogno.»

 

Lei:

«Ti ho dato la mia pelle, perché tu misurassi
con lei la vastità del cielo, trapuntata da stelle
nere come le more, buie come i più teneri richiami
della morte, su di un prato inondato dal latte.
Ti ho dato il mio corpo, perché tu misurassi
dentro di lui l’abissale profondità del cuore
quando i più frenetici abbracci non bastano
a colmare di pace il vuoto senza confine,
la sete d’infinità.
Ti ho dato le mie mani,
furtive come milioni d’api
quando tessono la rete del miele,
intente all’atto dell’amore.
Le mie mani ti ho dato,
fragili e folli come le colombe
quando attratte dal cielo spalancano
le ali e d’un tratto riprendono il volo.
La mia bocca hai voluto dimenticare,
che nel morbido palato traccia conserva
del vellutato nulla e dei vortici di sabbia
con cui ho trattenuto le tue distese navi.
Perché non partissero. Finché ho potuto.
Perché sapevo che il cielo t’avrebbe rapito
trafiggendoti di stelle, nel segno della sorte,
e l’abisso t’avrebbe inghiottito coi suoi mostri.
Tu, più mostruoso di loro, più scaltro demone
fra tutti i demoni, aduso all’amore ed alla morte.»

 

Lui:

«Sapevo cose che non si vedevano
e sempre di più ne carpivo dai sogni
e dalle visioni: circuivano i miei occhi,
resi opachi dal mondo, e la mia mente,
fatta oscura per tenebrosa compassione.
Ma avevo in sogno il disegno dello scafo
e del fasciame l’ordito chiuso, e la visione
mi suggeriva che i legni più nodosi e forti
erano posti a stagionare laggiù, nel reame
dei morti. Se ne parlavo, non mi capivano.
Tu sì, tu mi capivi; ma ne soffrivi. Presi
allora a dibattere più volentieri coi morti
che non coi vivi. E se divenni un mostro,
un demone, un drago, questo non fu per te.
Del regno dell’impossibile son diventato
il re. Del remoto futuro io sono il mago».

 

Lei:

«Ho visto il tuo corpo disfatto,
attraversato dalla morte, inerte
come la pietra lucida e levigata
nelle mani di angeli, contratto
nel silenzio, nudo per gli occhi
di nessuno. Ma qualcuno venne –
e non era tuo padre – a reclamarti,
dicendomi che ahimè il tuo corpo amato
le apparteneva. Le dissi: “Tocchi
un cuore ch’è stato solo mio.
A te spettano vergogna e oblio”.
Tolsi le bende che ti fasciavano
le ferite. Più non grondavano
sangue. Giammai potrò dimenticare,
amore. Fu allora che apristi gli occhi,
come d’incanto, e mi desti uno sguardo
innocente, limpido come il mare!»

 

Lui:

«So che lampo t’ha aperto la mente
quando hai accolto la mia morte
nel grembo. Conosco il deserto arido
che t’ha devastato quel giorno il cuore.
Conosco la gioia, la tua gioia!,
cui la speranza ha dischiuso una porta,
quanto bastava per farla sgorgare
senza spegnerne l’ardore.
So quanto hai sognato vedermi
ancora ridente, sereno, giocare
con te e con il figlio. Ricordo
la tua esile voce fare schermo
al dolore, le promesse sincere
con cui m’hai tratto alla vita.»

 

Lei:

«Portami con te. O almeno raccontami
il sogno che non dà pace. Conducimi
per mano. Sarò l’amante discreta,
l’arcobaleno timido e lontano,
impossibile a vedersi a occhio nudo.
Del tempio sarò impenetrabile
scudo, la volatile colomba,
la sua vestale. Credimi.
Ho voglia solo di amarti,
di essere per te ogni giorno
archetipo ed esempio di ritorno,
la risorsa più intima e segreta.
Lascia che lavi il tuo corpo,
che bagni i tuoi capelli, la fronte,
il petto. Lascia che il sonno
e l’amore ci prendano nel letto.
Che nella luce si sciolga il male.»

 

Lui:

«Saremo un’unica cosa. Un solo
segno ci indicherà al cielo.
Sarai il sogno, la strada, la sposa.
Sarai la spada – da brandire in alto
per chiamare a raccolta l’Inferno.
Sarai Bisanzio e Gerusalemme.
Sarai l’azzurra destinazione.
La luce che palpita e irradia, il velo
che avvolge come un sudario. Cuore
infuocato che pulsa e traspare
fra gelide nubi e uccelli, d’inverno.
Sarai nel sonno la veste del mare…
Vorrei poterti dire “Mai più dolore”…»

 

Lei:

«Quand’eri un angelo lanciavi in alto
i più fragili aquiloni, che dal vento
acquistavano potenza. Agli uccelli
raccolti in stormi con un grido
improvviso davi spavento, e onde
di prati erbosi loro muovevano
in volo, che sembravano femminei
capelli. I miei pensieri vagavano
come quell’erba e quelle fronde
immersi in un suono profondo.
Ma eri un demone poi, e la gioia
dell’angelo svaniva ai miei occhi.
Sentivo la tua anima chiamare,
ma come un flebile richiamo
da un mondo lontano. La furia
tua mi copriva di gelo l’anima.
Sentivo la tua ira crescerti
in petto, ma non sapevo che fare.
Poi venne anche il drago, ignoto
a chiunque, inconoscibile, l’abitante
d’un mondo vergine, più profondo
degli abissi del mare, più sublime
dell’infinito vortice del cielo.
Di lui non so – nessuno sa – nulla,
ne percepisco appena il moto.
Sei troppe persone in una, mi stremi,
mi tormenti – e cado dalla spirale
del bene a quella infida del male.
Ma quando torni il mio bambino,
il primo che ebbi, il tenero corpo
che amai da ragazza, solo allora
si spalancano le porte del cuore.
Una brezza accarezza il vuoto
docile del letto e un batter d’ali
accanto mi solleva una leggera aria.
O angelo gentile, che gli dimori
in petto, tu che conosci l’amore,
torna fra noi, ti aspetto. Allevia
queste ombre che c’insidiano, oscure…»

 

Lui:

«Il cuore straziato alberga la visione.
Le vedi intorno a noi le lacrime
di sangue che irrigano la terra,
le vedi le pupille dei bambini
accecati che armati di unghie
d’acciaio assassinano la luce
negli antri assediati della guerra?
Lo vedi il nero elemento
che scorre nei mari, che affoga
nei vortici improvvisi, che schianta
le nere torri poste a tragica difesa
di un mondo che scompare?
Tessono messaggi gli angeli
come ronzanti api; e dei demoni
udiamo alzarsi il pianto.
Tutto è gravido qui intorno, e geme.
Quale prodigio sta per accadere?
Il drago scuote i mari che attraversa
quasi fossero tremuli laghi
che aprono l’Oriente all’Occidente,
sparsi fra il Nord e il Sud.
A quale prezzo avremo mai la pace
– se mai l’avremo – fra i gemiti
di Algeri e i fiordi di ghiaccio
dove ogni umano amore tace? Ormai
non ci resta altra saggezza che questa:
la visione che ci assedia e che ci morde.»

 

Lei:

«E noi due, in tutto ciò, dove siamo?
Potrò sfiorarti il cuore, da lontano?
Potrò dirti ancora “Ti amo”?»

 

Lui:

«Fallo con la grazia che sempre
ti accompagna e fallo senza riserve.
E’ la tua mano che voglio sugli occhi
affaticati, quando cerco di addormentarli.
Il tocco delle tue dita voglio sui chiodi
della fronte, che sappiano aprire
ferite come labbra di vagine
ai passeri immersi nel sangue
quando come neonati fremono
per uscire dal costato.
E quando sto alla fonte del Nulla,
ubriaco, è la tua voce che mi serve.»

 

Lei:

«Ti penso come una parte del mio cuore
la migliore, la più tenera e arcana,
con la mente che abita il corpo.
Anche quando mi tieni lontana
come una cosa inutile.
Trattengo la tua traccia come un solco
che attraversa l’anima. Senza pudore.
Nel sudore dell’attesa resto muta.»

 

Lui:

«D’un tratto mi son risvegliato
con la scena d’un sogno limpida
nella mente come il più vivido film.
Aprivo la porta blindata dell’appartamento,
lo studio vibrava colmo di libri, di lattea
luce, nel lieve pulviscolo del mondo.
Fluiva allora come un’onda fragorosa
un’allegra brigata di sconosciuta gente.
Era una folla serena, una folla festosa,
con gli azzurri baleni negli occhi.
Poi, con un tonfo nel cuore, ho sentito
d’un tratto che qualcosa mancava.
T’ho cercata fra loro, la mia sposa
ridente, ho cercato il tuo volto.
Ma tu non c’eri, tu eri assente.»

 

Lei:

«Alle volte mi sembri come un bimbo
che si dice nel buio una storia.
Mi cerchi proprio dove non sono,
preghi in una fede in cui non credi.
Ci sono sempre stata. Ci sono anche
adesso. Io sono Sempre e Ovunque.
Sei tu che non mi vedi.»

 

Lui:

«Tu Amore, divinità ridente.
Ora so che tu esisti, so che ci sei.
Prendi nel cuore lo spazio ch’è tuo,
da sempre tuo, e fanne l’uso che vuoi.
Dilacera il dolore, annienta la mente,
e il volto trasfigura là dove tutto trema e freme.
Perdona la morte che ti contende il Regno,
perdonala. E getta il segno tuo oltre il silenzio,
oltre la cortina del buio che ci copre gli occhi.
E svegliaci da questo nostro oscuro sonno
quando il tuo gioco abbia svelato il fine.»

 

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